Con Pietro De Meis, come ho già avuto occasione di scrivere, ho passato anche momenti interessanti, non intessuti di vacue chiacchiere, o di notizie superficiali, o di taglia e cuci su questo e quello, o questa e quella. Inevitabilmente durante qualche incontro ci siamo scambiati opinioni e pareri e convinzioni sui mestieri relativi al teatro, o sulla situazione della vita teatrale italiana e non solo. Devo comunque sottolineare che Pietro concepisce il lavoro teatrale esclusivamente come spettacolo per un pubblico, come momento di evasione per gli spettatori, e nel migliore dei casi, per attori registi e maestranze varie, come possibilità di mettersi in mostra, di avere visibilità massmediatica, essere intervistati, invitati in trasmissioni radiofoniche e televisive. Di certo è molto lontano dal mio modo di pensare. Se ricordo l’episodio che ora vi racconto  è solo perché in quell’incontro, a cui partecipava una comune amica, Bea, giornalista per la redazione spettacolo di un  noto giornale della capitale, bella donna, sui 45 anni, intelligente, a prima vista simpatica con un sorriso davvero accattivante, in quell’incontro posso senz’altro dire che, forse proprio per la presenza di Bea, riuscimmo, senza discussioni antipatiche e imbarazzanti, a parlare di teatro, e del fare artistico in generale, in modo attento, non superficiale, e credo di poter dire anche per merito mio e di Beatrice, detta Bea. Il che non significa  che Pietro avrebbe mai cambiato sostanzialmente il suo modo di pensare e di conseguenza di fare secondo quanto ho accennato più sopra.
Seduti al bar all’aperto in zona Testaccio, in attesa del caffè, lo spunto fu un recente allestimento dei Sei personaggi in cerca d’autore, un’edizione a mio parere, d’accordo con Bea, molto intelligente, in cui l’idea registica partiva, secondo noi, dalla concezione dell’attore che sta, in situazione simbolica (finta), cercando una verità, che può essere, assieme, o partitamente, la verità di un personaggio, e\o la verità del lavoro d'attore, e\o la verità di un lavoro su se stessi: nell'ultimo caso è coinvolta la stessa realtà, quella della persona-attore, e del suo rapporto con il contesto della realtà tutta. In questo caso, osservavo, siamo nella dimensione e nella dinamica del teatro anche laboratorio, che è un'invenzione databile ai primi Padri Fondatori europei del Novecento del teatro (più che del teatro del Novecento).
Subito Pietro rintuzzò tale mia riflessione: “Ma tu credi ancora alla possibilità, oggi come oggi, di dedicarsi al lavoro su sé stessi? Ma dov’è il tempo? E i quattrini per campare chi te li dà? E poi, perché non darsi allora a qualche corso di Yoga, o alla meditazione, e cose del genere? Agli artisti non è concesso di rischiare, devono necessariamente prevedere,  programmare, mettere sempre le mani davanti; se avessi seguito strade di questo genere, sai la famiglia che bella fine avrebbe fatto! Per caso credi ancora alla esistenza e resistenza del cosiddetto Terzo teatro?”.
Al che intervenne Bea: “ In linea di principio voglio ricordarvi ora quanto ci narra un famoso koan della tradizione orientale, una parabola Zen. Un monaco buddista chiede ad un suo allievo, Kejon: “Come ritorna nel mondo normale un illuminato dopo aver meditato?” e Kejon risponde: “Uno specchio rotto non riflette più nulla. I fiori caduti non torneranno più sul loro vecchio ramo.”.
Dicendo questo, Kejon vuole sicuramente dire: “E' a te stesso che devi rivolgere la domanda. Smetti di preoccuparti per il domani! Vivi l'esperienza, e poi si vedrà! Se entri profondamente nell'illuminazione, va' incontro al mondo e saprai che cosa succederà. Una volta che si è rotto lo specchio, non riflette più nulla. Una volta che si è rotto l'ego, sparisce. Quando i fiori sono caduti, non tornano più sul ramo. Stanno per terra, al loro posto. Quando sperimentiamo un cambiamento, esso ci mostra il nostro nuovo posto nel mondo”.
“Si, ora mi ricordo” faccio io “e aggiungerei così che
il percorso, che porta ad imparare, prevede tre condizioni.”. Rivolto a Bea “se mi sbaglio naturalmente correggimi…  Quindi, la prima è che si voglia acquisire una conoscenza, la seconda è che essa si possa acquisire per poi passare a metterla in pratica, e la terza è che si accetti il cambiamento provocato da questa nuova conoscenza. Certo, è facile, però, inciampare spesso su questo terzo punto, implicitamente suggerisce il testo del koan. Infatti si fa tutto ciò che serve per cambiare, ma quando arriva il cambiamento diciamo: “Che succederà quando ritornerò nel mondo?”. Al che Beatrice, convinta ma al contempo priva di toni e sottotesti “magistrali”, interviene: “Vi è un’unica risposta, o quanto meno la migliore: fare il nostro lavoro! Meditare! Trovare noi stessi! E poi, andare nel mondo e vedere! Occorre lasciar affiorare la nostra bellezza interiore e realizzarsi senza chiedersi quello che succederà dopo o come reagirà il mondo!”.
Pietro ci guarda con un sorrisetto di sufficienza, ma, devo dire, non di scherno: “ Tutto bello, tutto buono, ma tali processi possono interessare i monaci zen, i buddisti, certi ambienti del cristianesimo europeo orientale, non gli attori!”. Faccio io: “Ma non vi pare che Pirandello, soprattutto per quanto riguarda la creazione del personaggio della Figliastra, gli fa compiere un suo percorso di approfondimento esistenziale, prendendo atto di una serie di drammatiche verità, certo dal suo punto di vista, e alla fine se ne va per le strade del mondo, probabilmente per continuare il mestiere della prostituzione?
Dunque, ognuno di noi ha sempre un proprio posto nel mondo. Ci sono ovviamente posti per i pazzi e per i sadici , ma ce ne sono anche per le persone che hanno lavorato su se stesse. Esiste spazio per le persone positive, per le coppie che lavorano per creare la propria divinità, per tutti coloro che non accettano la negatività. Sapendo questo, che posto ci scegliamo? Noi, invece di avanzare di imperfezione in imperfezione e di errore in errore, dovremmo cercare le falle del sistema, gli spazi di perfezione, e non avanzare se non sfruttandoli a nostro vantaggio, e trovando un sentimento di vera gioia. Lo scrive molto bene Italo Calvino nel finale del suo Le città invisibili.”.
Interviene Pietro: “Tu torni a Pirandello, ma il suo testo è come dite oggi fictional, mi pare che nella nostra problematica c’entri ben poco!”
Fa Bea: “Beh, fino a un certo punto, perché la Figliastra come gli altri componenti della famiglia che intervengono con la parola, a partire dal Padre, via via si propongono come Attori, personaggi-Attori: e così sarà poi per un Enrico IV, o per Cotrone; e ciascuno cerca il suo modo di esistere, di salvarsi dai falsi miti del mondo!”.
“Quindi” aggiungo io, nel mentre sorseggio il mio caffè oramai raffreddato “
da Pirandello a oggi, la realtà del teatro, vissuta come ricerca su se stessi in dimensione simbolica-finzionale, si può poi riversare nella realtà-realtà, nella vita, il che equivale a trovare la propria verità, cioè autenticità, non solo come attori ma come persone. Potremmo chiamarlo, l'esito di tale ricerca, “illuminazione”, o, come Grotowski, “awareness”, che può far meno dello spettacolo, assente dunque; o ancora “via”, o “tao”, intesi, insomma, come autoliberazione e slegamento da molteplici orpelli e falsità, a-religiosamente, laicamente (anche se uno spirito religioso può non solo re-ligare, ma anche, appunto, s-legare!).”.
Irrompe Pietro: “Seeeeeeh, ma chi si può permettere tutto questo? Scusate, ma voi siete degli illusi! Allora tanto vale vivere e praticare una dimensione del teatro del tutto amatoriale in cui ciascuno può anche dedicarsi a varie forme di lavoro su sè stesso, ri-creando quell’armonia e quella convivenza di corpo e mente, e anche di spirito, che nella vita ordinaria è così difficile interpretare!”.
Interviene Bea: “Non dimentichiamoci che fino a pochi anni fa, le circolari del ministero qui da noi riservavano un tot di risorse finanziarie sia al teatro amatoriale che a quello di ricerca, e di sperimentazione!”.
“Purtroppo” aggiungo io “le varie crisi hanno per lo più smantellato tale metodo!”.
“Non ne parliamo” fa accorato Pietro “è un vero disastro per chiunque tenta di svolgere i mestieri dello spettacolo, dai registi agli attori, dai drammaturghi agli scenografi ai costumisti ai tecnici vari! Un disastro penoso!”.
Interviene ancora Beatrice: “Comunque sia, seppure in via teorica e di principio, vi è “una” possibilità di autenticità del teatro, oggi, specie per chi lo fa in prima persona, dando priorità all'esperienza pre-spettacolare (non solo nelle prove, che saranno decondizionate da tempi e costi, quand'è possibile, ma anche nel training, nel lavoro laboratoriale, nell'esercizio pedagogico); è un modo di trasformazione del teatro da cui penso non si possa prescindere, in un tempo in cui la sua necessità sembra venir meno sempre di più; è un modo tramite cui i cosiddetti teatranti, in specie gli attori, possono autotrascendersi, superare il proprio io, per immergersi autenticamente verso il mondo della vita, una volta usciti dallo spazio scenico, e dalla pura spettacolarità, che può ridurre l’arte del teatro a superficiale artificio.”.
“Son d’accordo” faccio io “e voglio anche incoraggiare Pietro dicendo che il teatro, come la danza e la musica, insomma le forme artistiche ed espressive “al vivo”, sono le uniche che conservando tale loro natura intrinseca, potranno resistere al predominio   di tutti gli attuali mezzi di comunicazione virtuali, digitalizzati, e così via…”.
“Non solo” fa Bea “direi anche che tutti dovremmo essere “artisti della nostra vita”, del nostro vivere! Un compito che tutti dovremmo cercare di svolgere, prima e dopo di essere scrittori, pittori, attori, musicisti: fare della nostra vita un capolavoro, che è la cosa più difficile che ci sia!”. Non riuscendo a dare un tempo di silenzio Pietro prorompe in un “Aaaaaaaaah”, alzandosi dalla sua sedia e dicendo in tono sfottente:” Aggiungete altre ricette, manuali, decaloghi:  essere artisti del nostro vivere, vivere magari MISTICAMENTE la Vita, e mi raccomando, con la V maiuscola, eh?!”; ci fa un inchino, e salutandoci  con le dita della mano destra chiuse e aperte, ci dà le spalle e se ne va; io e Beatrice ci guardiamo e guardiamo entrambi verso Pietro, con un’espressione di commiserazione, come a dire: il solito Pietro!