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Proseguendo in questa nostra ricognizione della tredicesima edizione del festival autunnale di Teatro Akropolis, sorta di peripezia che segue cadenze più estetiche che temporali, incontriamo la danza Butō  che ha occupato l'intera giornata di sabato 5 novembre. È questo un appuntamento raro nel panorama teatrale italiano, cui la Compagnia di David Beronio e Clemente Tafuri si accosta con regolarità ormai da qualche anno, rappresentando in un certo qual modo, per la sua articolazione di grandi ospiti e per l'organicità della sua organizzazione, un unicum. Più che una danza in senso stretto, il Butō è una espressione compiuta e coerente del corpo e della mente/anima che lo alimenta e lo muove, talora addirittura costringendolo, in sentieri inusuali capaci di illuminare spazi inaspettati, gli spazi della bellezza. Fusione nella dissociazione, individuazione e perdita dell'uno (il corpo) nell'altra (la mente/anima) finalizzati insieme alla costruzione di un corpo scenico singolare e anche irripetibile nella sua

unicità, pur dentro le strette pareti di un rito che improvvisamente sembra aprirsi all'universo. Tre gli spettacoli offerti al pubblico nel corso della giornata.

MATRICE – DA ANA MENDIETA / Alessandra Cristiani.
Gemmazione italiana, e preziosa, di una tradizione che, paradossalmente, sembra aver trovato nel nostro vecchio continente sorgenti nuove, dopo averle fornito stimoli evolutivi.. Come sappiamo nella danza Buto la singola rappresentazione, lo spettacolo come noi lo intendiamo, non è mai un esito ma l'illuminazione di un punto (e del resto il punto è un infinito non solo geometrico, in quanto privo di dimensioni) di un percorso cominciato prima e che terminerà dopo, o oltre, lo stesso performer che in quel momento limitato del tempo se ne appropria, per sé inanzitutto e, solo poi, per noi che lo guardiamo. È lo stesso titolo che ci suggerisce la sua direzione verso quella condizione generatrice che è prima di noi e che dopo di noi continuerà ad essere. Una condizione di cui il corpo stesso è un florilegio successivo, all'origine radicato in quella naturalità e naturalezza che lo circonda, e che riconosciamo nella scarna ma suggestiva scenografia, ma poi da questa sempre più allontanato. Ritornare a quella terra come un frutto che vi precipita alla sua maturità è spesso solo un desiderio che la danza della Cristiani insegue con la forza dei suoi movimenti, così controllati e insieme così guidati verso la libertà che meritano. Una ricerca sempre in evoluzione che qui si arrichisce in particolare delle suggestioni, estetiche ma anche esistenziali, della cubana Ana Mendieta e del suo raccontare il corpo femminile. È la prima tappa di una trilogia che porterà Alessandra Cristiani ad intercettare altre singolari personalità estetiche. Una performance che ancora una volta rivela, ove ce ne fosse bisogno, la grande qualità dell'arte scenica della sua protagonista.
Concept e performance: Alessandra Cristiani. Luce: Gianni Staropoli. Suono: Ivan Macera. Immagine e video: Alberto Canu. Cuore: opera dell’artista Mirna Manni. Produzione PinDoc. Coproduzione Teatro Akropolis, Triangolo Scaleno Teatro. Con il sostegno dell’Associazione Culturale Le Decadi, dell’Associazione Vera Stasi / Progetti per la Scena. Con il contributo di Mic, Regione Siciliana. Alla performance è legata l’esperienza del progetto Grafie del Corpo. Pratiche della fotografia e della performance, a cura di Samantha Marenzi con Officine Fotografiche Roma.

CORPO D'ACQUA / Stefano Taiuti.
Un altro talento che in questa breve performance ripropone un istanteneo, ma nel suo impatto estetico non occasionale, ricongiungersi con l'elemento che più di ogni altro ricorda l'ambiente primordiale e primigeneo che abbiamo dimenticato nella mente, ma non nel cuore (o meglio nel corpo). L'acqua, in cui rigenerarsi per ritornare nell'ombra della vita. Uno spettacolo interessante e suggestivo.
Ideazione, scenografia, coreografia, danza e ambienti sonori: Stefano Taiuti | produzione Tuttoteatro.com

CONSUMED BY THE INVISIBLE / Moeno Wakamatsu e Lê Quan Ninh.
Il corpo, ogni corpo, è un po' un bozzolo che ci imprigiona, così come il mondo può essere visto come una grande monade, che tutti questi bozzoli genera e custodisce sotto il dominio del tempo, una monade a sua volta galleggiante su quel flusso invisibile di energia di cui la vita, ogni singola vita, si alimenta senza vederla e senza esserne esistenzialmente consapevole. Il Butō cerca la fessura per scivolare fuori dalla prigionia del tempo e così percepire quell'universo invisibile, forse nella forma del sogno o forse nella forma delle ombre della caverna di cui l'umanità è prigioniera. Questo sguardo è una candela che consuma il nostro tempo esistenziale nella consapevolezza del suo essere inevitabilmente transeunte. La vedova del grande maetro Masaki Iwana, accompagnata in scena dal bravo percussonista Lê Quan Ninh, ci invita ad accompagnarla per un tratto di quell'impervio ma illuminante sentiero, destinato forse ad interrompersi prima del suo culmine. È stata la performance centrale dell'intera giornata, un suo riassunto di grande spessore ed anche una specie di viatico per andare verso nuove, future, esperienze. Qui la gestione della fisicità e la sua essenziale trasfigurazione in immagine spirituale raggiunge una qualità non consueta ed una chiarezza che poche volte può essere ammirata.
Creazione e performance: Moeno Wakamatsu. Percussioni: Lê Quan Ninh.

In quella stessa giornata, tra il primo e scondo spettacolo, è stato proiettato il primo film del maestro Masaki Iwana, scomparso nel 2020, “Vermilion Souls”.