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Un dittico drammaturgico che Licia Lanera costruisce con straordinaria sensibilità riuscendo a mescolare, quasi a disciogliere la sua visione del mondo nell'aspra, anche cattiva se vogliamo ma da cui distilla una paradossale dolcezza e pulizia, scrittura di Antonio Tarantino, dando luce e nuovo senso ad entrambe. Due metà di un uno che è la condizione umana, di un esserci che sembra deiettato in un mondo ostile, quasi che ciascuno di essi (l'esserci e il mondo) fossero parte di due universi distanti e reciprocamente incomprensibili, due universi che si sovrappongono senza mai incontrarsi e definirsi l'uno nell'altro e l'uno per l'altro. Due parti che, come la platonica mela, si cercano e si desiderano senza mai trovarsi e in questo mai incontrarsi è la forza vitale dell'amore, dell'eros metafisico, che si disperde nel vento e nel gelo della disperazione, un amore che sappiamo o intuiamo esistere da qualche parte, una parte che però non fa più parte, scusate il bisticcio, di una qualche nostra disponibilità. È in fondo tragico, in senso drammaturgico ma anche esistenziale, che lo sguardo limpido e anche buono e ingenuo, nel senso più profondo e bontempelliano dei due termini, di Antonio Tarantino produca

e accolga dentro di sé una realtà o verità così dolorosa, la realtà della solitudine, dello sfruttamento, dell'alienazione di sé che, tra le sue innumerevoli forme, nella modernità ha preso le forme dello sradicamento di migranti e di clandestini, sfruttati fino alla schiavitù fisica, e quelle speculari e coerenti del razzismo latente, del luogo comune alimentato dai poteri del mondo e forse introiettato anche da chi li combatte.
Due testi scritti separatamente ma che nella intuizione scenica di Licia Lanera appaiono in fondo proprio come le due parti di quella mela, una all'altra coerenti e capaci di senso anche se destinate in fondo a non ricongiungersi mai.
Un uomo, in efficace en travesti, ed una donna che oggi ripropone e sopporta le stimmate antiche della Medea del tragodo.
L'uno chiuso e ottuso nel luogo comune del più casereccio razzismo d'accatto, con cui cerca di mascherare la propria insopportabile fragilità esistenziale in un mondo in cui è destinato a soccombere.
L'altra che, più che rappresentare o sopportare, 'è' l'aspra condanna di quel mondo visto dalla parte dell'opposto, dello sfruttato, dello straniero (concetto questo che torna spesso nell'immaginario della narrazione di Tarantino), del reietto, ma che nel contempo quel mondo in cui è racchiuso non combatte, ma ad esso identitariamente si sottrae rifiutando di riconoscerlo e di riconoscersi in esso quasi che non farne parte fosse l'unica o ultima speranza.
Sullo sfondo tre tavole di legno, quasi pale di un altare pronto a ricevere il sacrificio della pittura (Tarantino nasce come pittore è noto) e che ribaltate si trasformano negli specchi in cui la nostra immagine distorta nel mondo può forse trovare, riconoscendosi in quella potenziale figuratività pittorica, una nuova composizione, una nuova strutturazione del sé, forse addirittura una nuova opportunità.
Due testi importanti e di grande efficacia, con una parola liricamente strutturata nei suoi ritmi, affannati ma sempre composti, e nelle illuminanti sonorità che l'accompagnano, due testi profondamente perturbanti in cui, però, la drammaturga, correttamente a mio parere, intuisce un flusso sotterraneo di umanità, non ancora perduta del tutto poiché metafisicamente e anche esistenzialisticamente irriducibile, un filo di speranza, ingenua forse ma robusta.
In scena anche Suleiman Osuman e la corsa della protagonista al termine del secondo quadro ad abbracciare chi silenziosamente l'ha accompagnata, rappresentando l'altro, l'uomo nero che fa da contraltare ineludibile alla narrazione scenica, saltandogli al collo e baciandolo come un bambino, con affetto e comunicando una grande commozione, rappresenta forse quella speranza, quell'amore ancora possibile.
Ed è importante che ad essere oggetto di quel forse disperato tentativo sia colui che oggi è il principale Capro Espiatorio dei peccati della nostra Società, poiché come scrive René Girard nell'omonimo saggio <<quando una società va verso la rovina[...]una reciprocità più rapida si instaura[...]anche negli scambi ostili o 'negativi', che tendono a moltiplicarsi.[…] Anche se oppone gli uomini tra loro, questa reciprocità cattiva rende i comportamenti uniformi ed è all'origine della predominanza dello stesso, sempre un po' paradossale perché essenzialmente conflittuale e solipsistica>>.
Una messa in scena ben condotta per drammaturgia scenica, interpretazione e regia, che Licia Lanera è brava ad incarnare trasfigurandosi, nell'uno e nell'altra e dall'uno all'altra, nelle sfumature dolorose che la narrazione dei personaggi impone.
Al teatro Arena del Sole di Bologna, dal 29 novembre all'11 dicembre. Un successo per la stagione corrente di E.R.T., in prima assoluta.
LOVE ME, due pezzi di Antonio Tarantino. Testi di Antonio Tarantino, regia Licia Lanera, con Licia Lanera e con Suleiman Osuman. Luci Vincent Longuemare, disegno sonoro Tommaso Qzerty Danisi, costumi Angela Tomasicchio. Assistenti alla regia Ermelinda Nasuto e Ilaria Bisozzi, tecnico di compagnia Massimiliano Tane. Produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale in collaborazione con Compagnia Licia Lanera.

Foto Emanuela Giusto