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Quando Molière ha inteso utilizzare il già famoso personaggio creato da Tirso de Molina ribaltandolo in scena al fine di mettere in risalto, come nella sua cifra, l'ironia del comportamento umano e sociale nell'inevitabile contrasto tra ciò che è rappresentato e la sua stessa rappresentazione, è inciampato, forse suo malgrado, in un archetipo, in una sorta di idea platonica che alimenta le ombre del vivere.
Lo scandalo, in quanto inciampo, nasce dunque dal fatto di rappresentare un tale archetipo non tanto in quanto è, con la sua natura di superomismo un po' becero, di libertinaggio e di licenza travestita da pseudo-libertà, quanto attraverso l'ipocrisia di cui si alimenta e da cui è alimentato all'interno di società in fondo meschine. Un modo universale di rappresentare l'osceno, che naviga tra De Sade e Fassbinder per affascinare tra gli altri Pier Paolo Pasolini, che solo in commedia, con l'ironia e il conseguente distanziamento, trova una dimensione accogliente. Così, si potrebbe dire, Don Giovanni “è” per sempre, al di là della storia, ma è anche per sempre a disposizione di ogni epoca che voglia guardare dentro sé stessa, malleabile e adattabile come solo un universale sa essere, prendendo talora

aspetti e lineamenti imprevedibili (ma sempre riconoscibili) che lo deformano senza tradirlo, come ad esempio quelli di Faust (più Marlowe che Goethe peraltro).
Come accade talvolta nel dramma comico, dunque, a Don Giovanni non si adatta il grottesco, bensì il tragico di cui si nutre l'inevitabile precipitare finale, nelle mille e diverse forme che questo può assumere.
Patrick Marber, noto e bravo drammaturgo inglese dal coté appunto comico e dal background da cabarettista, non ne fa un adattamento moderno, bensì, come richiesto dalla forza del personaggio, cala direttamente e fedelmente l'archetipo e la sua struttura nella modernità del quartiere a luci rosse di Londra, e quell'archetipo stampa quasi spontaneamente, dentro a un palcoscenico mondo, le sue maschere dell'oggi, contingentemente contemporanee ma fedelmente ultra-storiche se non addirittura ultra-mondane.
Edonista e seduttore, talmente bugiardo da servire con infaticabile fedeltà la (sua) verità, a cavallo tra la vita e la morte, tragicamente incapace di temerla la morte in nome di una libertà che è come una prigione da cui non può fuggire e dentro le cui sbarre si incammina, consapevole della sua stessa inconsapevolezza, verso il suo abbraccio senza riscatto.
E noi lo riconosciamo nei mille volti (tutti malinconicamente uguali) che guadagnano incessantemente follower dentro e fuori la rete, negli sballi da discoteca e nelle violenze che li circondano, da cui DJ sembra scivolare sempre fuori apparentemente senza danno e soprattutto senza pentimento; li guardiamo con disgusto talora, disapprovazione spesso, indifferenza nella maggior parte dei casi, ma sempre con la strana, inevitabile, fascinazione del Narciso che si specchia.
Ma a volte riusciamo anche ad intravvederlo nell'ipocrita perbenismo di chi cerca di seppellire nella propria superficiale rispettabilità quelle stesse pulsioni e quegli stessi comportamenti, distorti però nella desolante mancanza di 'ironia'.
Una sola cosa resta tale e quale, DJ come Don Giovanni è incapace di amare (e chi non conosce l'amore non capisce neanche la morte), è profondamente misogino perchè ignorante, non in grado cioè di riconoscere l'amore, e così inesorabilmente lo trasforma nella sofferenza altrui (ma anche propria in fondo).
Il bravo regista Gabriele Russo mette in scena questo mondo e, facendolo, un po' lo adatta eliminando ogni naturalismo residuo così che la giostra inesausta di DJ ovvero Don Giovanni può essere smontata e rimontata nei luoghi più diversi (Soho oppure i napoletani Quartieri Spagnoli ad esempio), senza per questo mutarsi.
Ne segue una recitazione che sa andare al di là del grottesco della realtà per immergersi, anche oltre ogni psicologismo che spesso Don Giovanni alimenta, nel tragico di questi tempi senza sentimenti, in cui l'illusione di essere liberi produce la schiavitù dei mille comportamenti indotti e coattivamente ripetuti.
Un bel testo, cui la traduzione conferisce ulteriore vicinanza significante e se vogliamo anche perturbante, ed una messa in scena efficace che ancora una volta dimostra le capacità mimetiche di quel gorgo di suggestioni che è Don Giovanni.
Efficace il cast, dal Don Giovanni (DJ) di Daniele Russo allo Sganarello (Stan) di Alfonso Postiglione, intelligenti le scenografie in movimento ed appropriati i costumi dall'esasperato glamour, ottimo anche l'amalgama della scenografia musicale.
Ospite del Teatro Nazionale di Genova, al teatro Ivo Chiesa dal 19 al 22 gennaio. Qualche reazione di fastidio, (l'estetico schiaffo ha colpito nel segno),  ma nel complesso un'ottima accoglienza.
Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini. Traduzione a cura di Marco Casazza. Regia Gabriele Russo. Interpreti: Daniele Russo e con in o.a. Alfredo Angelici, Noemi Apuzzo, Gaia Benassi, Claudia D’Avanzo, Gennaro Di Biase, Carlo Di Maro, Sebastiano Gavasso, Mauro Marino, Alfonso Postiglione, Arianna Sorrentino, Gianluca Vesce. Scene Roberto Crea. Costumi Chiara Aversano. Disegno luci Salvatore Palladino. Progetto sonoro Alessio Foglia.

Foto Flavia Tartaglia