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E’ l’ultimo giorno di lavoro al Jewish Documentation Center di Vienne, nel 2003. Una quantità infinita di schedari racchiude storie di vittime, in alcuni casi ci sono anche quelle dei carnefici. Solo 1.100 sono stati assicurati alla giustizia, «il 5%, non è un grande risultato», dice amaramente. Lui è Simon Wiesental, ebreo catturato a Leopoli all’arrivo dei nazisti, internato in diversi campi di concentramento e sterminio dove è riuscito a sopravvivere per una serie di fortuite circostanze del destino. Poi una vita intera dedicata alla ricerca dei boia delle camere a gas, per rendere giustizia a migliaia di vittime senza voce. Giorgio Gallione – autore e regista – porta “Il cacciatore di nazisti” al Teatro Franco Parenti (via Pier Lombardo, 14 a Milano, fino al 22 gennaio) per ricostruire la vicenda umana di Wisental ma soprattutto per affrescare un’epoca drammatica. Dagli schedari, in un infinito flash back, fuoriescono storie ormai celebri e iconiche, storie di vittime delle camere a gas e di boia catturati in modo spesso

rocambolesco. C’è Anna Franck, il suo diario e lo scetticismo dell’opinione pubblica dei primi tempi, il comandante dei campi di Treblinka e Sobibor, Franz Stangl, il “banale” Adolf Eichmann del processo di Gerusalemme di cui è stata cronista Hannah Arendt.
Il testo riprende libri e interviste di Wiesental con un carattere informativo ma anche di impatto sul pubblico per la mole di date e dati, dettagli e atrocità. Ne emerge un complesso quadro in cui il singolo dramma non è approfondito, ma abbozzato per costituire una pennellata drammatica giustapposta a molte altre, nella creazione di un affresco ben più ampio di accentuata disumanizzazione. Lo scopo non è il pathos né l’indugio nella compassione spicciola e di conseguenza ne deriva il linguaggio asciutto, quasi didascalico. L’obiettivo è maggiore, colpire il pubblico con il freddo vero, la realtà dura e pura che può solo inorridire.
In scena nel monologo, Remo Girone con la sua voce suadente dalla personalità scenica notevole, indispensabile per attribuire carisma al gesto scarno. Sul palco c’è anche la sua sofferenza fisica, quasi che anch’essa sia necessaria a rappresentare l’umanità di Wiesental così appesantita da tanto dolore personale e altrui. Molto profondo e ben riuscito.