Con Diego De Meis, finché fu adolescente, gli incontri erano idilliaci, affettuosi, spontanei, scherzosi. Quando maturò e fece le sue scelte di studio, col Conservatorio, e poi di lavoro componendo musica, sia per il teatro, che per il cinema, che soprattutto per alcuni programmi televisivi, qualcosa si ruppe fra noi due. Ci si scontrò sulla concezione estetica della musica, con un paio di discussioni così accese da sfiorare la lite. Io non dissi, dopo, alla madre, ad Elena, nulla di quanto era accaduto, certo che praticamente i rapporti fra me e il ragazzo stavano per rompersi.
Per una maledetta mia vocazione pedagogica, e anche perché i genitori, sia Elena, che Pietro, prima o poi si sarebbero accorti della rottura tra me e il loro figlio, decisi di tentare un riavvicinamento spiegando per iscritto a Diego quanto io volevo affermare: una lettera che qui riporto per i miei cari lettori, i quali magari possono essere convinti o coinvolti da qualcuna delle mie idee.
“Mio caro Diego, mi spiace davvero molto quanto è accaduto tra noi due; siccome credo e spero che tu possa trovare, viste le doti che ti contraddistinguono, un’ottima posizione professionale e creativa, cerco ora e qui, per iscritto di spiegarti meglio di quanto abbia già espresso, le mie idee  circa gli argomenti toccati in quella che purtroppo definirei: lite!
L’ispirazione, anche per un compositore musicale, è un oggetto assai delicato che rischia sempre, sfuggendo dalle mani, di cadere e frantumarsi a terra. Ho accennato all’ispirazione, perché i poeti contemporanei rispondono in modo evasivo, quando gli si chiede cosa sia, e se esiste davvero. Non è che non abbiano mai conosciuto la grazia di questo movimento interno. Ma non è facile spiegare a qualcuno qualcosa che tu stesso non capisci. Secondo me, l’ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti o, più in generale, degli artisti. C’è, c’è stato e ci sarà sempre un gruppo di persone visitate dall’ispirazione. E’ composto da tutti coloro che hanno scelto consapevolmente il loro mestiere e lo svolgono con amore e fantasia. Possono essere medici, insegnanti, giardinieri e potrei enumerare centinaia di altri mestieri. Il loro lavoro diventa una ininterrotta avventura, finché cercano di scoprirvi nuove sfide. Problemi e difficoltà non soffocano mai la loro curiosità. Uno sciame di nuovi interrogativi emerge a ogni problema risolto. Qualunque cosa sia l’ispirazione, essa è nata dal riproporsi continuo della frase “Non so”, che richiede quell’umiltà che deve contraddistinguerci.
Aspettiamo e ricerchiamo l’ispirazione quando non sappiamo cosa scrivere sul pentagramma o cosa dipingere o come dipingere, quando abbiamo bisogno di un aiuto, di un incipit o quando non sappiamo come risolvere un problema. Vorrei ricordare come la parola ispirazione derivi dalla parola latina “inspirare” e sia connessa secondo gli antichi greci al respiro di Dio. L’ispirazione appartiene per tradizione, soprattutto alla religione o all’arte.
L’ispirazione con l’avvento del Cristianesimo, diventa appannaggio direttamente di Dio. Dal XVIII secolo in poi alcuni tra i poeti, scrittori, artisti ricercheranno ispirazione anche attraverso le droghe, prima l’oppio, l’assenzio, poi anche altre droghe o l’alcool. (Ad esempio: Coleridge, Blake, Keats…). Altri influenzati dalle teorie della nascente psicologia la cercheranno nell’inconscio, personale o collettivo, nei sogni, nelle sedute spiritiche o nella scrittura automatica. (Yeats, i surrealisti, ecc).
Kundera ci suggerisce che si può essere ispirati anche da altri artisti o da altre opere: “Tutte le grandi opere (e appunto perché grandi) hanno in sé una parte di non-compiuto. L’artista ci ispira non solo per tutto quello che ha portato a termine, ma anche per tutte le mete che si era prefisso e che non è riuscito a raggiungere”
L’Ispirazione verrà chiamata da alcuni “genio interno al poeta”, da altri “istinto (i romantici, Emerson ecc.). E qualcuno la chiamerà “duende”. Ne parla Federico Garcia Lorca (Il Duende, teoria e gioco): Il meraviglioso cantaor  El Lebrijano, creatore della debla, diceva: ‘I giorni che canto con duende non conosco rivali’; un giorno La Malena, la vecchia ballerina gitana, sentendo suonare da Brailowsky un frammento di Bach esclamò: ‘Olé! Questo sì che ha duende!’ e si annoiò con Gluck, con Brahms e con Darius Milhaud. Goethe, ad esempio, parlando di Paganini, ci fornisce la definizione del duende: ‘Potere misterioso che tutti sentono e che nessun filosofo spiega’.
Così, dunque, caro Diego,  il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare. Ho sentito dire da un vecchio maestro di chitarra: ‘Il duende non sta nella gola; il duende sale interiormente dalla pianta dei piedi’. Vale a dire, non è questione di facoltà, bensì di autentico stile vivo; ovvero di sangue; cioè, di antichissima cultura, di creazione in atto.
Questo ‘potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega’ è, insomma, lo spirito della terra, lo stesso duende che abbracciò il cuore di Nietzsche, il quale lo cercava nelle sue forme esteriori sul ponte di Rialto o nella musica di Bizet.
Attenzione: non vorrei che si confonda il duende col demonio teologico del dubbio contro il quale Martin Lutero scagliò con sentimento bacchico una bottiglietta d’inchiostro, né col diavolo cattolico, distruttore e poco intelligente, che si traveste da cagna per entrare nei conventi, né con la scimmia parlante che l’astuto turcimanno di Cervantes porta con sé nella commedia della gelosia e delle selve di Andalusia. No. Il duende di cui parlo - misterioso e trasalito - discende da quell’allegrissimo demonio di Socrate, marmo e sale, che lo graffiò indignato il giorno che prese la cicuta; e dall’altro malinconico diavoletto di Cartesio, piccolo come mandorla verde, il quale, stufo di cerchi e di linee, se ne andò per i canali a sentir cantare i marinai ubriachi. Ogni uomo, ogni artista, rievocherà Nietzsche; ogni scala che sale nella torre della propria perfezione è il prezzo della lotta che l’artista sostiene con un duende, non con un angelo, come si è detto, né con la sua musa. […] L’angelo guida e regala come San Raffaele, difende ed evita come San Michele e previene come San Gabriele. L’angelo abbaglia, ma vola oltre la testa dell’uomo, è al di sopra, dirama la sua grazia e l’uomo, senza sforzo alcuno, realizza la propria opera, la propria simpatia o la propria danza. L’angelo della via di Damasco, quello che entrò per le fessure di un balconcino di Assisi,
La vera lotta è quella con il duende. Si conoscono le vie per cercare Dio, dal rude modo dell’eremita a quello sottile del mistico. Con una torre come santa Teresa, o con tre vie come san Giovanni della Croce. Per cercare il duende non v’è mappa né esercizio. Si sa soltanto che brucia il sangue come un topico di vetri, che prosciuga, che respinge tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili, che fa sì che Goya, maestro nei grigi, negli argenti e nei rosa della migliore pittura inglese, dipinga con le ginocchia e i pugni in orribili neri di bitume. I grandi artisti della Spagna meridionale, gitani o flamenchi, sia che cantino, ballino o suonino, sanno che non è possibile nessuna emozione senza l’arrivo del duende. Essi ingannano la gente e possono dare sensazioni di duende senza averlo, come vi ingannano tutti i giorni autori o pittori o stilisti letterari privi di duende; basta, però, prestare un minimo di attenzione, e non lasciarsi guidare dall’indifferenza, per scoprire la trappola e metterli in fuga col loro rozzo artificio.
In tutta la musica araba, danza, canzone o elegia, il sopraggiungere del duende viene salutato con energici ‘Allah! Allah!’, «Dio! Dio!», tanto vicini all’«Olé!» della corrida che chissà che non siano la stessa cosa; e in tutti i canti della Spagna meridionale l’apparizione del duende è seguita da sincere grida di ‘Viva Dios!’, profondo, umano, tenero grido di una comunicazione con Dio per mezzo dei cinque sensi, grazie al duende che agita la voce e il corpo della ballerina, evasione poetica e reale da questo mondo. Naturalmente, quando si raggiunge tale evasione ciascuno ne avverte gli effetti: l’iniziato, vedendo come lo stile vince una materia povera, e l’ignorante, in quel ‘non so che’ di un’emozione autentica. Anni fa, in un concorso di ballo a Jerez de la Frontera, una vecchia di ottant’anni in gara con donne splendide e ragazze con un vitino di vespa, si portò via il premio per il semplice fatto di aver sollevato le braccia, eretto il capo e dato un colpo con il piede sul tabladillo; ma a quella riunione di muse e di angeli che stava avendo luogo, bellezze di forma e bellezze di sorriso, non poteva che vincere, e vinse, quel duende moribondo che trascinava per terra le sue ali di coltelli ossidati.
Il duende può comparire in tutte le arti, ma dove lo si trova con maggiore facilità, com’è naturale, è nella musica, nella danza e nella poesia recitata, giacché queste necessitano di un corpo vivo che le interpreti, poiché sono forme che nascono e muoiono di continuo ed elevano i propri contorni su di un preciso presente. Spesso il duende di un musicista passa al duende dell’interprete, altre volte, quando il musicista o il poeta non sono tali, il duende dell’interprete, e ciò è interessante, crea una nuova meraviglia che, all’apparenza, altro non è se non la forma primitiva. È il caso della induendata Eleonora Duse, la quale cercava opere fallite per portarle al successo grazie alla sua capacità inventiva, o il caso di Paganini, riferito da Goethe, che sapeva trarre melodie profonde da autentiche volgarità, o il caso di una deliziosa ragazza di Puerto de Santa María, che io vidi cantare e ballare l’orribile canzonetta italonapoletana Ohi Marí!, con dei ritmi e dei silenzi e un’intenzione che trasformavano la paccottiglia italiana in un duro, eretto serpente d’oro. Ciò che in realtà avveniva in quei casi era un qualcosa di nuovo che nulla aveva a vedere con quanto esisteva prima; veniva immesso sangue vivo e scienza in corpi vuoti d’ogni espressione. Tutte le arti, come pure i paesi, sono capaci di duende, di angelo e di musa; e se la Germania, salvo eccezioni, ha musa e l’Italia un angelo permanente, la Spagna è in tutti i tempi mossa dal duende, come paese di musica e danze millenarie, dove il duende spreme limoni all’alba, e come paese di morte, come paese aperto alla morte. In tutti i paesi la morte è una fine. Giunge e si chiudono le tende. In Spagna, no. In Spagna si aprono. Lì la gente vive tra mura fino al giorno in cui muore e viene portata fuori al sole. Un morto in Spagna è più vivo come morto che in qualsiasi altro posto al mondo: il suo profilo ferisce come il filo di un rasoio”.
La musica, il canto, il ballo, il ritmo. E a proposito del ritmo, ecco un brano, da un intervista su The Paris Review a Philip Levine, poeta di Detroit, conosciuto per le sue poesie sulla classe operaia.  “Sono d’accordo con Robert Hass quando dice che il ritmo, in poesia, costituisce un terreno fertile che apre le porte dell’inconscio. Il ritmo è profondo e ci tocca in modo misterioso. Sappiamo che il linguaggio usato ritmicamente ha il potere di deliziarci, di sconvolgerci, di esaltarci. E’ stato proprio questo linguaggio ritmico che all’inizio mi ha interessato. Non l’ho incontrato subito nella poesia, ma semplicemente nel parlare, nella preghiera o nella predica. Questo mi ha spinto a volerlo creare”.
Caro Diego, in tempi in cui l’80 % delle persone sono integrate e alienate in un clima molto materialista, frammentato, liquido, e le restanti o vanno verso il terrorismo o verso il misticismo, voglio citare ora, in un piccolo brano, uno psicanalista americano New Age che ha scritto un intero libro sull’ispirazione: “Molti anni fa credevo in ciò che viene definito il “blocco dello scrittore”, ovvero uno stato in cui le idee si rifiutavano semplicemente di fluire. Oggi ho un’opinione diversa: so che in qualche modo Dio scrive tutti i libri e costruisce tutti i ponti. Oggi, quando scrivo, aspetto che le idee scorrano attraverso di me per poi confluire nelle pagine. Ho la sensazione di essere in uno stato di sintonia vibrazionale con le idee che vogliono essere espresse per mezzo delle parole che scrivo; di conseguenza, so che si tratta di idee per le quali è giunto il momento: sono in sintonia con me qui e adesso, e non possono essere fermate. Mi domando: “Da dove viene realmente tutto quello che compare su questi fogli?” e so che non mi appartiene. Le parole scorrono dallo Spirito e si manifestano fisicamente perché io mi trasformo in un intermediario disposto a trascriverle su fogli di carta che alla fine comporranno un libro. Mi aspetto che queste idee siano qui e so che non possono essere fermate. Sono seduto qui, in uno stato di totale ammirazione, amore e gratitudine per il fatto di essere usato in una maniera talmente inspirata… e proprio mentre scrivo sul tema dell’ispirazione, figuratevi!”.
Caro Diego, non pretendo di aver esaurito l’argomento, con questa mia piccola antologia fatta di pochi esempi.. Moltissimo ci sarebbe ancora da dire e tanti autori ancora da citare. Spero tuttavia di aver sollecitato il tuo interesse per un aspetto misterioso e fantastico della creazione artistica, compresa ovviamente quella musicale, che interessa principalmente te.
Non sentirti in obbligo di rispondermi, ma se lo farai sarà per me un grande regalo!”.
Ma Diego non lo sentìi né vidi più!