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«Voglio essere retorica questa volta. Voglio proprio essere retorica». Sta forse in questa battuta il nodo da cui si dipana concettualmente “Itria”, lo spettacolo di e con Miriam Aurora Scala che ha debuttato il 26 febbraio scorso nel Teatro Comunale di Avola. Uno spettacolo che, al netto di qualche ingenuità, appare intenso e interessante. Questa giovane teatrante siciliana (attrice ma in questo caso anche autrice del testo e regista) lo ha costruito rielaborando per la scena la vicenda tragica dei cosiddetti “Fatti di Avola”, ovvero la rivolta del novembre/dicembre 1968 che vide i braccianti di questa cittadina del siracusano (e insieme con loro gran parte della popolazione) protestare contro le “gabbie salariali” e per veder riconosciuti salari equi e dignitosi. Una rivolta soffocata nel sangue il 2 dicembre dalla violenza della reazione del padronato (gli agrari appoggiati dal governo nazionale) e della Polizia che sparò sui manifestanti e ne uccise due, Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona. Una violenza gravissima,

ingiustificabile, con aspetti oscuri e torbidi e che ancora oggi reclama giustizia. Un fatto che non poteva non diventare immediatamente un simbolo pregnante e potentissimo della rivolta mondiale contro ogni mentalità e pratica autoritaria e delle grandi lotte contadine, operaie e studentesche. Ovviamente parliamo qui di uno spettacolo, di una narrazione teatrale ed ecco allora che l’azione parte da Itria, la giovane moglie e di Scibilia, parte dall’umanissimo garbuglio di emozioni di quella ragazza (l’amore, un matrimonio d’amore e non combinato, la dolcezza di una vita coniugale tra persone innamorate, la famiglia, i figli, la fatica del lavoro bracciantile, il dolore improvviso e lancinante e infine il lutto che si trasforma in lotta e desiderio di giustizia) per definirsi a poco a poco sulla scena come acquisizione di una consapevolezza politica a partire dall’esperienza dell’ingiustizia e del dolore. Un dolore bruciante che divampa alla notizia dell’uccisione del marito. La forma che Scala assegna globalmente a questo suo lavoro - dichiarandolo espressamente in scena – è quella del “repitu”, ovvero una tipologia tradizionale di lamento funebre, probabilmente ancora in uso all’epoca dei fatti. Il vortice di dolore straziante di questa giovane sposa è inoltre espresso nella forma – anch’essa tradizionale (anche se ormai abusata nel teatro contemporaneo siciliano) - del cunto - e trova una definitiva risoluzione nella ferma pretesa di verità e giustizia dallo Stato per l’uccisione di quei due lavoratori. Una rivendicazione che non può che sfidare la realtà del crescente disinteresse dello Stato (e dello stesso paese) con l’energia positiva di una consapevole retorica politica ma che, al contempo, ci ricorda che è con quella stessa retorica seppure di segno diverso che, negli anni a venire, si è ammazzata una seconda volta quella richiesta di verità e giustizia sociale. Ecco l’ambivalenza tragica della retorica su cui sembra girare la riflessione feconda di questo spettacolo. Da quella protesta macchiata di sangue innocente è scaturito certo, qualche anno, dopo il civilissimo “Statuto dei lavoratori”, ma non sono state ottenute pienamente né verità né giustizia e soprattutto il Sud, il Sud del nostro Paese e, sostanzialmente, ogni Sud del mondo, è restato sottosviluppato e ancora è sfruttato. Per carità di patria ci asteniamo dal ricordare gli episodi, persino di questi giorni, che confermano il senso amaro e avvelenato di questa sconfitta.

Itria
Di e con Aurora Miriam Scala. Regia Aurora Miriam Scala. Aiuto regia Maria Chiara Pellitteri. Supporto Tecnico Valerio Puppo. Voci off: Cinzia Maccagnano, Andrea maiorca, Valerio Puppo, Alessandro Roano, Corrado Scala, Giuseppe Vignieri. Produzione: La Bottega del pane teatro e Fondazione Lombardi per il teatro - Lugano.

Foto Francesco Di Martino