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Ci sono talora nell'esistenza elementi e situazioni che percepiamo confusamente e che non riusciamo sempre a mettere correttamente a fuoco, quasi non avessimo, o non avessimo ancora, gli strumenti adatti alla loro coerente elaborazione, individuale o sociale non importa. Il teatro spesso offre questi strumenti quando parla di noi attraverso noi. È il caso di “10 KG”, drammaturgia coinvolgente che narra indagando, ovvero indaga scenicamente narrando, un fenomeno che corre sotto traccia nelle affluenti società europee, ma che, come una corrente che si confonde tra le altre di un fiume una volta impetuoso ed ora piuttosto impantanato, sembra essere accantonato come occasionale anomalia, sociologicamente interessante ma socialmente ininfluente. Eppure si tratta di qualcosa che, se ben guardiamo, ci riguarda molto più di quanto vorremmo, poiché inerisce non tanto la scelta che viene fatta, e di cui continuiamo a sorprenderci un po' ipocritamente, piuttosto perché va a mettere in

discussione quei valori condivisi che ci siamo dati e che vorremmo, anche a ragione se vogliamo, superiori e ormai inalienabili. È questo, io credo, ciò che provoca quel diffuso disagio di fronte a certe situazioni e alla loro presa d'atto.
È infatti, questo spettacolo, la narrazione di una vita, della vita di una ragazza francese bianca, ben integrata e proveniente da una famiglia borghese e atea che le vuole bene ed in cui vive una vita tutto sommato senza grandi problemi, con l'esclusione della separazione non fortemente traumatica tra i due genitori.
Improvvisamente questa ragazza come tante si innamora di un uomo più grande di lei, mussulmano e salafita pietista, che la porta con sé a Londra come sua 'terza' moglie.
Una ragazza che compie una scelta, non del tutto comprensibile per noi oltre che per la famiglia, e accetta di vivere, con dichiarata serenità, una vita in un certo senso 'opposta' ma non oppositiva, una vita divergente rispetto a quella traiettoria esistenziale che si immaginava la madre e che noi tutti avremmo immaginato.
Una scelta non cruenta, peraltro prossima alla stagione dei grandi attentati parigini, a partire da Charlie Hebdo, e alla paura conseguente, che non si conclude in atti disperati come altre che sembrerebbero analoghe, e questo anziché essere una ri-soluzione diventa una ulteriore domanda dalla difficile risposta.
Se può succedere tutto questo, è di fondo la corretta domanda, allora i nostri valori, le nostre convinzioni individuali e le conseguenti convenzioni sociali sono poi così inattaccabili e sicure, continueranno ad esserci difesa e conforto?
La risposta sembra sfuggirci nel progressivo decadere e nel continuo imbarbarirsi, tra violenza verbale, aggressività virtuale e concretamente agita, nella continuità di guerre sempre più 'giuste'(?), di questa nostra collettività costruita sui valori nuovi del secondo dopoguerra.
È in gioco, alla fine, la capacità e la possibilità che questi valori vengano introiettati ed elaborati fino in fondo, mentre si mostrano purtroppo sempre più fragili e sempre più incapaci di formare ed irrobustire le identità dei singoli che così cercano anche disperatamente un altrove interiore ed esteriore.
Un percorso esistenziale di valenza collettiva ed un viaggio nella intimità di scelte profonde. Rispetto a tutto questo la drammaturgia è neutrale, essendo costruita sostanzialmente con le parole con cui la protagonista si rivolge alla madre nelle sue lettere, e dunque non interferisce giudicando, ma apre alla comprensione illuminando.
Il suo spunto è costituito dal racconto, poi pubblicato in volume, che la madre scrive su sollecitazione della stessa drammaturga, ed in effetti il rapporto madre – figlia è quel nucleo che può illuminare la vicenda, un nucleo cui concorrono efficacemente elementi psicologici ed esistenziali insieme a corrispondenze storiche e politiche di questo nostro tempo.
In una scena sostanzialmente vuota, articolata con pochi arredi e piccoli oggetti di scena, il racconto è anche visivamente trascritto nella presenza delle due donne protagoniste, una, Eva Blanchard che recita in Italiano, la figlia perduta che integra il vuoto della memoria che non trova le sue parole con performance fisiche che ne tentano indiretto recupero, l'altra, Pamela Toscano, la madre che invece tiene il filo della parola che cerca se stessa.
È uno spettacolo dunque che nasce da una feconda condivisione tra Lau Nova, la madre e scrittrice del testo narrativo, e Antonella Amirante che lo concepisce in drammaturgia e lo dirige in scena, una condivisione che precede anche la storia narrata e che può fondare tragitti di comunicazione e significazione, tra loro stesse e tra loro e noi pubblico.
Per la stagione del Teatro delle Briciole, al Teatro al Parco di Parma, il primo Aprile.
Testo Lau Nova, premio Artcena 2020, concezione e regia Antonella Amirante, scenografia e costumi Alex Costantino, universo sonoro Nicolas Maisse, creazione luci Juliette Besançon, con Eva Blanchard e Pamela Toscano (versione italiana), produzione Compagnie AnteprimA (Francia).
Con lo spettacolo si accompagna la mostra itinerante “Identità” che ci porta nel mondo delle differenze che si costituiscono attraverso la metafora dei diversi tessuti che ci coprono e ci svelano.