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Quanto siamo consapevoli di ciò che realmente desideriamo essere? E a quali certezze siamo disposti a rinunciare per re-imbastire la nostra esistenza con fili nuovi e apparentemente meno tenaci? Questi gli interrogativi sottesi alla mordace commedia composta nel 2012 dal britannico David “D.C.” Moore che realizzò una sorta di adattamento-riscrittura del film Humpday, scritto e diretto da Lynn Shelton e presentato all’edizione 2009 del Sundance Festival. La pellicola venne etichettata come modello di mumblecore, sottogenere della filmografia indipendente caratterizzato da una recitazione e da dialoghi naturalistici, questi ultimi apparentemente frutto di improvvisazione, e dall’attenzione incentrata sui rapporti fra trentenni. Peculiarità che forse aveva in mente Silvio Peroni nell’architettare il primo allestimento italiano del play: non ci sono scenografia né oggetti di scena – a eccezione della telecamera che, nondimeno, riveste un ruolo drammaturgico decisivo – e la recitazione è piana e aliena da artifici ridondanti. Una scelta di essenzialità e di asciuttezza che, anziché rimandare a una possibile povertà di mezzi produttivi – come è il caso del mumblecore – è temeraria volontà di concentrare la

messinscena sulle parole e sui corpi dei quattro interpreti e, in particolare, su quelli dei due protagonisti, incarnati da Daniele Marmi e Giovanni Anzaldo.
Il primo è Lewis, sposato e rinchiuso tutto il giorno nel monolocale acquistato con la moglie come investimento e, a causa della crisi economica, diventato la loro abitazione. Qui lavora – smart working già nell’era pre-pandemia – e divora patatine e bibite gassate, come testimonia il suo fisico appesantito. La compagna vorrebbe un figlio e, intuiamo, una vita intima più intensa e “fantasiosa”, ma lui traccheggia… Una sera nella loro striminzita routine irrompe, in maniera decisamente atipica, l’amico Waldorf (Anzaldo): hanno condiviso insieme gli anni dell’università, che il secondo non ha concluso preferendo una vita in giro per il mondo, alla costante ricerca di esperienze ed emozioni.
L’incontro occasionale con una ragazza suggerisce a Waldorf l’idea di girare con l’amico una pellicola porno per partecipare a un improbabile festival di cinema hard d’arte – un motivo meta-cinematografico nell’originale ispiratore del play che qui diviene implicito accenno meta-teatrale, quasi sfuggente e tuttavia appuntito a chi voglia lasciarsi sfiorare…
Lewis non è convinto, anche perché mai metterebbe in dubbio la propria eterosessualità. E poi, come dirlo alla moglie? Waldorf, provocandone orgoglio e amor proprio, riesce nondimeno a convincerlo e persino la compagna, dopo lo shock iniziale, pare d’accordo.
I due amici, dunque, prenotano una stanza in un lussuoso albergo in campagna, preparano la telecamera e cominciano a riprendere ma l’impresa si rivela assai più difficile di quanto la loro disinvolta determinazione aveva tentato di dipingere.
La commedia, conservando ironia e sense of humour, gusto del paradosso e vivacità ritmica, incide con bisturi appuntito tanto la superficie molle della volontà individuale, palesandone le sacche di debolezza e quasi involontaria vigliaccheria; quanto le sottilissime fibre nervose che legano amici e coniugi. Ferite inevitabilmente aperte e chissà se davvero Lewis vorrà – il suo reiterato «vorrei» conclude lo spettacolo – sanarle…
 
Testo di David “D.C.” Moore. Traduzione di Andrea Peghinelli. Regia di Silvio Peroni. Con Giovanni Anzaldo, Daniele Marmi, Giulia Rupi, Eleonora Angioletti. Prod.: La Filostoccola APS; in coproduzione con Compagnia Mauri Sturno.

Visto al Teatro Gobetti di Torino il 19 aprile 2023