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In contesti e con significati diversi, e anche con sfumature talora contraddittorie, i Balcani sono stati spesso definiti la “ferita d'Europa”, una ferita che, come sorta di stimmata identitaria, talvolta riprende a sanguinare. Luogo da sempre di transito tra Oriente e Occidente, luogo di antichissime e più recenti migrazioni per sua stessa natura geografica, invece di essersi trasformato in un fecondo bacino di fusione di identità singole e collettive, invece di definirsi cioè quale luogo di scambio, è diventato e si è quasi sempre caratterizzato come luogo di scontro. Anzi direi come “il luogo”, in senso fisico ma anche in senso spirituale o mentale, dello scontro, scontro di civiltà e scontro di etnie, scontro di individui e scontro di Stati, come l'ultima tragica fiammata che lo ha attraversato negli anni 90 del novecento, alla caduta di quella Jugoslavia rivelatasi laboratorio promettente ma poi, per cause diverse, frantumatosi. Oggi, infine, è ancora la terra di transito, il percorso (la cosiddetta “rotta balcanica”) di una migrazione disperata che vuole solo attraversarla, quella terra, per poter poi andare oltre, verso il miraggio di una Europa Felix che i Balcani, come sempre anticipano, difendono ma insieme

ingannano. Polis, il festival internazionale ideato e diretto da Davide Sacco e Agata Tomsic/ErosAntEros, svoltosi a Ravenna dal 2 al 7 maggio, è appunto dedicato ai Balcani, visti e anche giudicati con la lente dell'arte scenica che, deformandoli visionariamente e trasfigurandoli esteticamente, rende più trasparenti anche i movimenti della Storia, soprattutto li rende più comprensibili ed elaborabili oltre le asprezze e le rigidità esistenzialmente, e inevitabilmente, introiettate.
È la sua vocazione, iscritta nel suo stesso nome che rievoca ed insieme auspica, attraverso un teatro che vuole essere appunto politico nel senso più alto del termine, un vivere collettivo che sia condivisione, e comune comprensione nell'arte, degli eventi che ci circondano e che spesso si perdono nella liquidità opaca dell'oggi.
Tra l'altro proprio in questi giorni si è avuta notizia che “il Ministero della Cultura (Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo) ha assegnato a POLIS Teatro Festival la qualità artistica più alta tra i Festival di teatro italiani (art. 17) e il punteggio totale più alto tra le Prime istanze triennali della stessa categoria”.
Ospiti d'onore del 2023, dunque, i Balcani e gli artisti, non solo balcanici, che li hanno amati o solo percorsi con interesse; una settimana non soltanto di spettacoli, che comunque sono ciò che dà vero senso a tutto quello che sta attorno, ma ovviamente anche di dibattiti, incontri, installazioni per analizzare, condividere e anche, perché no, giudicare la Storia e le storie, nei diversi punti di incontro dentro la città.
Ora un breve diario, tra sabato 6 maggio e domenica 7, una peripezia intorno agli spettacoli.

NEMICO (attraversando i Balcani) / ZONE -poème- (foto in apertura)
Spettacolo performativo che favorendo l'integrazione e la reciproca interazione tra artista e pubblico, mediata metaforicamente dalla parola e soprattutto dall'ambiente in cui questa precipita oltre il suo significato come parte di un logos, riesce a stabilire un collegamento tra la memoria trasfigurata della guerra, attraverso le tracce che questa ha accompagnato sino a noi, e le parole di pace che quell'orrore ha involontariamente ma anche inevitabilmente prodotto. Parole che possono e devono diventare indispensabili 'oggi', cioè prima e non dopo le guerre che ci sono. Ma soprattutto lo spettacolo ha il pregio di custodire all'interno della sua narrazione gli elementi di una partecipazione affettiva che supera e insieme dà vita profonda alla semplice rievocazione storica e politica. Una partecipazione affettiva iscritta nell'interiorità delle giovani donne che quelle guerre hanno attraversato venendone segnate. Opera multidisciplinare e spiritualmente itinerante in cui appunto, per paradosso estetico, è lo spettacolo a muoversi non il suo pubblico. Ideazione Mélodie Lasselin & Simon Capelle, testo Simon Capelle, coreografia Mélodie Lasselin, performance Camille Dagen, Mélodie Lasselin & Léa Pérat, creazione musicale Restive Plaggona, set designer e costumi Emma Depoid, illustrazione Giulia Betti, fotografia di scena Martina Pozzan, produzione ZONE -poème-, coproduzione ErosAntEros – POLIS Teatro Festival, residenza Le Gymnase – CDCN Roubaix, finanziato da Unione Europea.

VERGINE GIURATA  / Jeton Neziraj
Lo spettacolo si pone con un significato molto più complesso e più profondamente articolato di quanto possa trasparire dal semplice accostamento, che pure suggerisce, alla contemporanea fluidità dei generi e al mondo queer spesso superificialmente imprigionato nell'immagine della “drag queen”. Soprattutto non si esaurisce in quella rappresentazione che talora rischia, appunto, di semplificarlo troppo. È infatti più simile ad un atto di ribellione al patriarcato, non una sua metastasi, un complicato compromesso che rifiutando, sin dal comportamento, dall'abbigliamento e dallo stesso atteggiamento, il proprio essere donna senza mai però rinnegarlo, ne diventa, in un certo senso e con sorpresa, protettiva enfatizzazione metaforica. Le Vergini Giurate, donne albanesi che decidono di vivere come uomini, infatti non sono residui o relitti dell'antropologia culturale, bensì, molto modernamente, nel rifiutare il sesso praticato, sono donne che confutano la loro sottomissione al maschio e al patriarcato, un po' come la scelta della clausura di un tempo e in luoghi a noi molto prossimi. Sorprendente nel suo portare alla luce un fenomeno praticamente sconosciuto, ma anche illuminante per il suo essere molto nel solco del femminismo più avveduto e concreto. Regia Erson Zymberi, autore Jeton Neziraj, attori Tringa Hasani, Semira Latifi, Kushtrim Qerimi, set design Bekim Korça, musiche Trimor Dhomi, coreografia Gjergj Prevazi, costumi Yllka Brada, responsabile di produzione Aurela Kadriu, luci Mursel Bekteshi, tecnica Pajtim Krasniqi, Bujar Bekteshi, assistente di produzione Flaka Rrustemi, video Ilir Gjocaj, produzione Qendra Multimedia.

DANNATO SIA IL TRADITORE DELLA PATRIA SUA! / Oliver Frijic
Doveva essere lo spettacolo clou, o cult, del Festival, reduce da molti anni di repliche e di successi negli spazi della ex Jugoslavia. Ma appunto 'reduce', forse sempre in bilico tra la dimensione storica, interessata alla memoria degli eventi tragici di quegli anni di guerra, e la dimensione estetico-artistica, costruita invece su una riflessione intorno al ruolo del teatro e, dentro questo, alla spesso contraddittoria dimensione attoriale. Nonostante ciò continua a presentare aspetti di  interesse, soprattutto nella parte che riguarda l'attore, anche lui coinvolto e ferito nella sua stessa arte dalle ricadute delle guerre che narra, ma qualche volta non del tutto capace di risolversi teatralmente in coerenza, così da risultare a tratti faticoso anche per l'inevitabile presenza di espedienti teatrali un po' datati. Regia Oliver Frljić, con Primož Bezjak, Olga Grad, Uroš Kaurin/Blaž Šef, Boris Kos, Uroš Maček, Draga Potočnjak, Matej Recer, Romana Šalehar, Dario Varga, Matija Vastl, il testo della performance si basa sull’improvvisazione degli attori, drammaturgia Borut Šeparović, Tomaž Toporišič, set e costume design, selezione musicale Oliver Frljić, assistente alla regia e consulente sul movimento Matjaž Farič, sound design Silvo Zupančič, light design Oliver Frljić, Tomaž Štrucl, responsabile di produzione Tina Malič, stage manager Urša Červ / Liam Hlede.

PPP TI PRESENTO L'ALBANIA / Klaus Martini
È uno spettacolo, anzi una narrazione drammaturgicamente elaborata, sul confine, e soprattutto sull'attraversamento del confine, visto come una sorta di specchio in cui riflettendo noi stessi riconosciamo in trasparenza l'altro che sta al di là. Così, quasi magicamente, esperienze in fondo diverse come quella del Friuli ritrovato di Pasolini e quella della difficile migrazione del drammaturgo (Italo-albanese ricongiuntosi in Italia con i genitori che avevano per necessità dovuto lasciarlo ancora qualche tempo in Albania), si affratellano nei sentimenti di abbandono e di riconquista, di rabbia e di affettuoso riconoscimento che hanno entrambe prodotto, in tempi diversi ma capaci di sovrapporsi. Efficace nel ritrovare i sentimenti ricostruendoli in storie scelte, mi si permetta, coerentemente a caso, componendo la storia di una e più vite. Come dire che ritrovare il proprio passato anche doloroso è l'unica via per conquistare e occupare il proprio presente, oltre ognuna di quelle guerre che hanno attraversato o attraversano le vite che viviamo ovvero che raccontiamo. Ed è anche il modo per cercare di ricomporre quella frattura che comunque si apre dentro chi  sradica le proprie radici, anche se è per piantarle felicemente in una nuovo giardino. Di e con Klaus Martini, disegno luci Stefano Bragagnolo, con il sostegno produttivo di Mittelfest, spettacolo vincitore MittelYoung 2021, inserito nella rassegna radiofonica di Rai Radio 3 “Futuropresente – nuove scritture per la scena italiana”.

IL GIOCO – GEJM / Ziga Divjak
Teatro documentario, o meglio teatro che è in sé documento che raccoglie, trasformandoli in parole, i segni della crudeltà dei tempi, una crudeltà che non appartiene solo alle guerre guerreggiate e che in Europa (la civile e un tempo speranzosamente felice Europa Unita) si chiama pudicamente, ma anche sfacciatamente, tutela dei confini, difesa delle comunità. Un crudeltà che diventa appunto un gioco, una lotteria che mette in palio la speranza dei migranti della rotta balcanica per la conquista di un posto sicuro, se solo riusciranno a vincere in un confronto di cui non fanno e non sanno le regole, perché le regole cambiano a seconda delle esigenze di polizia e guardie di frontiera, di chi cioè quel gioco 'cattivo' controlla e governa. Un documento di violenza e sopraffazione che deve essere gridato affinchè non volgiamo più lo sguardo altrove per tacitare la coscienza, dopo quella fugace commozione che si accompagna alla notizia in un anonimo telegiornale. Un gioco 'cattivo' che coinvolge tutti, uomini, donne e bambini condannandoli a ritentare continuamente (qualcuno anche venti volte) e testardamente, rinnovando la domanda sul perchè lo fanno cui non rispondiamo. In fondo la storia del lasciare ad altri un gioco sporco di cui non vogliamo vergognarci. Commovente ed intenso si giova della vicinanza, quasi una immersione, tra il performer e il pubblico che lo circonda, ma insieme accusa un po' la reitereazione dei racconti che rischia di disperdere e allentare l'attenzione. Regia Žiga Divjak, con Primož Bezjak, Sara Dirnbek, Maruša Oblak, Matej Puc, Vito Weis, voci registrate Hamza Aziz, Zaher Amini, Khalid Ali, Behnaz Aliesfahanipour, assitente alla ricerca Maja Ava Žiberna, assistenti alla regia Ana Lorger, Nika Prusnik Kardum, collaboratrice alla drammaturgia Katarina Morano, set design Igor Vasiljev, costume design Tina Pavlović, sound e video design Blaž Gracar, speech advisor Mateja Dermelj, traduzione delle registrazioni Barbara Skubic, light design e stage manager Igor Remeta, responsabile di produzione Tina Dobnik, produzione Slovensko mladinsko gledališče, coproduzione Maska Ljubljana, Spettacolo vincitore di ben 7 prestigiosi premi Borštnik nel 2021 (miglior spettacolo, regia, drammaturgia, set design, music design, attore, giovane attrice) e numerosi altri premi.

Spettacoli che fanno parte di un teatro performativo, con altri dallo sguardo storico o documentario, ma in fondo coerenti nel loro essere tutti un teatro 'politico' in senso alto, come detto. Ma anche un teatro che è apparso molto legato alla parola così che la necessità della traduzione con sovratitoli in molti spettacoli può qualche volta avere ostacolato la piena fruizione delle performance che la scena accoglieva. Una notazione finale merita anche “Il minatore di Husino” di Branko Simic, installazione performativa che intrappola, suggerendo in qualche modo i famosi film “L'uomo di marmo” e “L'uomo di ferro” di Andrzej Wajda, in una statua di specchi i riflessi delle lotte operaie del novecento, offrendole, con i nuovi simboli che lo caratterizzano, allo sguardo di un oggi che nel transito difficile al nuovo secolo ha dimenticato. Un festival nato per l'incontro e la riflessione, come modo di essere e di vivere.
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