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È, questo di Dacia Maraini, un titolo riproposto sulle scene italiane, e non solo, con una certa continuità, perché è un testo intelligente (che capisce dunque) e soprattutto, avendo cercato di fare per quanto possibile i conti con il 'prima', perché è una sorta di finestra aperta sul 'dopo', sul nostro futuro, di cui suggerisce tendenze anche anticipandone esiti. A partire dal suo esordio in prima nazionale ad Ancona, Teatro Comunale, nel 1982, nel quale “Mela” era interpretata da Elsa Merlini. Si tratta di una drammaturgia costruita, come essenziale caratteristica dei lavori della Maraini, sul pensiero femminile, sullo sfondo del quale il maschio, in senso lato, appare referente fluido e indistinto, fino, al di fuori di quel pensiero che lo pensa, alla inconsistenza ontologica segno di una crisi esistenziale avviata e, purtroppo, non ancora conclusa. Tre donne in scena, con sullo sfondo, come detto, appendici di personaggi maschili che mai appaiono, la nonna, 'Mela' appunto, che ama la vita perché ama “amare”, fin ad un egotismo ed egoismo che assume i caratteri quasi metafisici della salvezza per sé e le altre, la madre, Rosaria, prigioniera dei sogni del '68 ormai diventati giustificazione esistenziale e via di fuga

ad una sconfitta che l'ha ri-consegnata prigioniera ad una società che sembra vendicarsi e che ha trasformato il lavoro, cui si affida, da valore a schiavitù, e infine la figlia, Carmen, che cerca di sottrarsi a quella schiavitù sociale nell'unico modo che conosce, cercando cioè di mettersene a lato, cercando in fondo di non farsi vedere.
La scrittura della Maraini sembra, qui, quasi adagiarsi sulla realtà, come una pellicola trasparente che vi aderisce in ogni suo angolo, eppure ha, proprio per questo, la capacità di scoperchiare quel mascheramento che della realtà nasconde la profonda e dolorosa verità.
Una drammaturgia che non si sottrae e che così custodisce la sua inusuale modernità, che usa l'ironia come un'arma da taglio, che ferisce ma insieme stimola la riflessione,e che, infine, usa la parola nella sua banalizzazione corrente per ripristinarne, nel conflitto che essa parola scatena sulla scena, la sua forza significante.
La messa in scena apprezzata al piccolo teatro Garage di Genova, le cui dimensione ridotte facilitano la percezione più profonda di questo dramma da camera, riesce a sottolineare con efficacia la dimensione da “ironia della storia” che la vita di queste tre donne custodisce e a cui, nonostante tutto, si appassiona non riuscendo quasi a liberarsene.
La recitazione un po' alienata risulta opportuna a sottolineare l'apparenza delle differenze generazionali dei personaggi e, al contrario, la concretezza della condivisione di vite vissute in tempi diversi ma con significati quasi sovrapposti, in uno spirito femminile che cerca con continuità anche temporale sé stesso.
La regia è essenziale come la scenografia che avrebbe potuto essere ancora più povera senza privarsi di una funzione significante di cui è inevitabilmente tributaria al testo.
Testo e contesto sono datati, se vogliamo, ma la forza della narrazione supera e rielabora i segni di un passato da cui siamo comunque dipendenti, oltre l'indebolimento di certe simbologie e di determinate metafore la cui memoria sembra sempre più appannarsi nelle nuove generazioni indotte ad altrove rivolgersi.
Ma tali simbologie e tali assetti metaforici permangono nella realtà della storia, oltre tutti i tentativi di cancellarli, e ricordarli periodicamente è opera opportuna ed è, in fondo, un atto di fiducia in noi stessi.
Al teatro “Garage” di Genova il 20 e 21 maggio. Dala piena e molti applausi.

MELA di Dacia Maraini. Regia: Emanuela Rolla. Con: Rita Consoli, Roberta Piagneri, Emanuela Rolla.