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Questa fascinatoria drammaturgia, per la regia di Maro Martinelli e l'interpretazione di Ermanna Montanari, segna la nuova partecipazione del Teatro delle Albe al Festival delle Colline Torinesi, con due rappresentazioni il 5 e il 6 giugno negli spazi della Cavallerizza Reale di Torino. Autore del testo è il romagnolo Nevio Spadoni, l'ideazione drammaturgica comune di Marco Martinelli che cura anche spazio e luci, ed Ermanna Montarari, la musica di Luigi Ceccarelli, mentre responsabili della tecnica sono Danilo Maniscalco e Luca Fagioli. Come molti degli ultimi spettacoli della compagnia ravennate anche questo chiede e quasi impone una riflessione, che è pausa di tempo e di memoria, che cerchi di andare oltre la semplice e contigente recensione critica. Sorta di 'travestimento' drammaturgico del famoso episodio, o meglio del famoso personaggio, dell'Orlando ariostesco, gioca sin dalla sua sintassi rappresentativa sul 'doppio' e sul conseguente rispecchiamento, il doppio della lingua letteraria e del dialetto romagnolo, “lingua aspra e arcaica” la definiscono Martinelli e la Montanari, del breve poema di Nevio Spadoni che da quella nasce e che articola con la sua presenza materica lo spazio scenico, ed il doppio dell'oscurità profonda delle pulsioni e dei sentimenti 'primi' dell'animo umano e la loro articolazione dialettica nella storia e nella società, anche quella più perduta e periferica. Da tempo, se non dall'inizio della sua attività teatrale, pratica e anche teorica, Marco Martinelli si confronta con i quesiti posti dalla crisi di un dramma che, come ci ricordano le riflessioni Szondiane, ha perso nella sue articolazioni tradizionali la capacità di rappresentare e dunque di rappresentarci. Da qui l'utilizzo anche spregiudicato di mescolanze linguistiche e sintattiche e dunque l'utilizzo ripetuto in molte sue rappresentazioni, di questo dialetto antico, ed in buona parte dimenticato nella contemporaneità anche di quei luoghi che lo produssero, al fine soprattutto di rintracciare ancora in quelle parole una sincerità benjaminianamente perduta. In quest'ultima drammaturgia in effetti la ricerca di senso nella parola antica, che si accompagna inevitabilmente alla esplorazione tramite essa della 'matrice', in senso anche materno e genitoriale, dei nostri sentimenti e delle nostre pulsioni affettive, si confronta con la musica, una musica anch'essa aspra e quasi sovrabbondante, che non ne è veicolo ma contesto di relazione e confronto con una contemporaneità enigmatica e a volte 'insensata' che la e ci circonda. Ne nasce, all'interno dello spaesameno che contraddistingue ogni 'travestimento' letterario e drammaturgico, un effetto ulteriormente straniante che lo enfatizza e che, grazie alla sintassi scenica padroneggiata con forza dalla regia di Marco Martinelli, si trasferisce e caratterizza, assecondandola con la consueta spontanietà, la recitazione, anzi l'arte attoriale raffinata e vieppiù stimolante fin all'inquietudine, di Ermanna Montanari. Così, e trattandosi di Emanna non è certo una sorpresa, la pratica recitativa non tratta di 'metodica identificazione' bensì di 'maieutica' nel senso della capacità di dire non solo ciò che abbiamo dentro di noi (di lei nello specifico) ma soprattutto di dire ed interpretare anche ciò che è dentro gli altri, come spirito insieme individuale e collettivo. Del resto Alcina era maga e incantatrice ed ogni travestimento non può non portare su di sé il senso profondo del personaggio travestitito, tra magia dell'incantamento e capacità di ogni 'Sibilla' di individuare il segno autentico dell'individualità esistenziale, anche per il tramite della 'trasformazione' non solo metaforica. All'interno della sintassi scenica dunque la parola narrativa viene da Ermanna piegata ad una sonorità robusta ed autonoma, che prende su di sé il senso perduto di quella stessa parola abusata e ormai improduttiva, e che naviga anch'essa al confine di quella oscurità interiore che è propria dell'umanità e dell'invidualità di ciscuno di noi, galleggiando quasi su di essa e così offrendosi, disperata e speranzosa insieme, come naufraga al recupero ed al salvataggio in una nuova relazione dialettica e razionale con la comunità che noi, spettatori di una sera, abbiamo sentito di rappresentare. Ecco dunque che all'interno di una struttura drammaturgica che cerca e quasi impone una continua ed inesauribile relazione tra parti scisse e anche sofferenti della individualità e della società, la storia delle due sorelle romagnole, Alcina e “principessa”, due volte abbandonate, dal padre lettore dell'Ariosto, e dall'amante 'forestiero' e così scivolate nell'insofferenza reciproca e nella follia, assume la concretezza di un transito scenico fatto di sonorità e sensorialità consapevole e coerente. Anche  nello scontro con la musica di Luigi Ceccarelli, che ricordiamo già nell'altra drammaturgia di Martinelli “La mano – De profundis Rock”, musica che talora sembra essere sul punto di prevalere e sopprimere lo stesso esistere della protagonista, una tale sensorialità materica e psicologica può guidarci all'esplorazione di quelle zone oscure del nostro esserci che spesso tendiamo, per pigrizia ed anche edonismo, ad accontonare e dimenticare. Di qui anche il disagio e l'inquietudine che in qualche momento ci prende di fronte ad un tale tentativo di 'sincerità'. Dunque contrasto e relazione, tra musica e parola arcaica, tra parola arcaica e sua traduzione letteraria e contemporanea, tra Alcina e Principessa, tra palcoscenico e noi spettatori, con un effetto straniante che induce alla peripezia, al viaggio e alla scoperta. Elementi questi che caratterizzano i più recenti spettacoli di Martinelli e della Montanari, spettacoli che proprio ad enfatizzarne gli effetti significativi, privilegiano, come in Alcina, scenografie vuote ed immerse in una oscurità traversata da improvvisi lampi di luce ad indicare sia la destinazione, ciò che abbiamo o tentiamo di dimenticare, che le modalità del transito. Elementi, modalità ed effetti che hanno attraversato il pubblico, insieme affascinato, scosso e anche inquieto, che ha risposto con un applauso forse liberatorio.