Alcune riflessioni non esaustive sul teatro addormentato nel bosco mi sembrano necessarie, anche se non ho il potere magico di ridestarlo. Sonno del corpo-mente che si fa azione. Sonno del pensiero che si fa sangue e del sangue che si fa pensiero. Il teatro non sfugge a questa condizione, perché è un tassello della grande macchina del paese reale.  A questa condizione non sfugge neppure il lavoro critico.

In tempi così difficili la bella addormentata trasmigra, lascia la favola e si annida nella realtà quotidiana della polis che non c’è. Quindi anche nel teatro. Se da verbo non si fa carne, non si fa vissuto, non si fa movimento del pensiero e del desiderio, non si fa presente che ipoteca il futuro, il teatro finisce per generare ripetizione, rinuncia, difesa dello status quo, servitù politica e culturale a beneficio del potente o dell’intoccabile di turno. L’uomo di teatro - ma non solo -, crede di essere furbo o di doversi fare furbo, di  essere fortunato o sfortunato secondo i casi, e così non si accorge di essere caduto in catalessi. Non si rende conto che la stasi somiglia al movimento, la vita alla morte. E non vede che le lobby, le protezioni politiche, la subordinazione dell’arte alla politica dettano le regole e producono quel mercato che è chiamato libero, ma che libero non è. Altro che meritocrazia!

Il sonno è della drammaturgia esangue, sociologica, ideologica e materialistica, sopraffatta dall’informazione, descrittiva e mimetica. Copia e non trasforma. Pompa sentimenti. Tratta il personaggio non come un lessema, ma come un organismo vivente. Pretende di cambiare il mondo. Insegue il male per suggerire il bene, ignorando che nessun uomo è esente dal male perché lo porta con sé. Eh, già, il male sta sempre fuori di noi. I cattivi, gli imbecilli e gli incompetenti sono sempre gli altri. Bellezza estetica e buone intenzioni non salvano il mondo. Buonismo, tecnicismo e moralismo ideologico sono la negazione dell’arte, della informazione, della produzione di coscienza critica.

Il sonno è la condizione di molta scrittura scenica che non sa entrare nella mente dello spettatore - scuoterlo, provocarlo, indurlo all’attività -, anche per effetto della paura di sbagliare e della precarietà delle fortune improvvisate. E’ la condizione che attraversa le centinaia di scuole di teatro e le pagine dei manuali impegnati a formare e informare disoccupati che sognano di ‘esprimersi’, alimentando un mercato fittizio che risponde a pratiche illusorie e corrosive, in un momento storico in cui bisognerebbe avere la possibilità d’imparare a disimparare, in cui la formazione dovrebbe formare gli uomini, non gli attori, i registi o i critici. E’ la condizione in cui si trova la critica che non critica, perché non crede più in se stessa, perché si è rinchiusa in asfittici recinti autoreferenziali, perché si limita a fare raccontini o a confezionare cronache cultural-mondane. E’ la condizione in cui versa la classe politica, che non ha più etica, che non pensa di cambiare se stessa, dimostrando di essere fuori posto, facendo un male da cui discendono altri mali.

Siamo in piena barbarie politica, sociale e culturale. Ma attenzione a non ricorrere al vezzo della proclamazione dei buoni sentimenti e al vizio del trionfo del bene sul male.  L’uno e l’altro sono un rischio per tutti: critici, drammaturghi, registi e attori. Posso andare oltre la barbarie se la comprendo e non la demonizzo, se la studio e non la condanno, se non la rifiuto a priori come cosa estranea alla mia persona ma l’accetto come uno dei mondi possibili che mi appartengono. Quindi, per andare oltre la barbarie devo riconoscere di essere barbarico, anche se non ho mai compiuto atti barbarici: uomo immorale non a-morale, consapevole di un paradosso che scaturisce dalla morale comune. Un paradosso. Chi scrive sentendosi in odore di santità è considerato progressista, moderno, civile e antibarbaro; mentre chi ammette di avere la cattiveria in corpo è definito antimoderno, reazionario, incivile e barbarico. La differenza tra l’uno e l’altro è sostanziale. Il primo tende a vincere sull’altro, il secondo tende a cambiare se stesso. Dunque, evviva la barbarie. Sono convinto che se mi faccio carico dell’imbarbarimento dilagante posso ipotizzare di uscirne, un giorno, con qualcosa di nuovo, perché solo dalla barbarie posso far nascere un atto concreto di civiltà e, perché no, di bellezza.  

La critica non critica per motivi sociali, ai quali ho fatto cenno, ma anche per carenze culturali e tecniche. Non intendo in questa sede affrontare le questioni di carattere tecnico - legate al sapere e al non sapere -, anche se credo che esistano e che interessino non solo la giovane critica, ma anche quella che avrebbe dovuto essere alternativa ai  ben noti baroni. E’ un’impresa ardua destrutturare uno spettacolo dal vivo. Per farlo in modo originale è necessario andare al di là dei cliché della tradizione immobile: occorrono conoscenze e abilità assai complesse, meglio se suffragate da esperienze consumate accanto ai maestri riconosciuti del fare teatro. 

Non esiste tuttavia un manuale del buon critico. Il lavoro critico non ha  regole e canoni fissi da rispettare. Mi sembra tuttavia che abbia ragione Carla Benedetti - citata da Andrea Porcheddu e Roberta Ferraresi nel bel libro Questo fantasma, il critico a teatro – (….), quando sostiene che bisogna “riaprire le porte al pensiero, porre domande a tutto campo, nominare conflitti e lacerazioni, esplorare, distinguere, approfondire”. Se è vero che la separatezza e l’autoreferenzialità sono un tradimento del lavoro critico, bisogna che la critica si riappropri delle armi che le sono proprie, ritrovi la funzione sociale nel rendere giustizia al pensiero, lavori sulla memoria e con la memoria per scavare, portare alla luce, cogliere l’invisibile, carpire e capire l’immagine, per destinare al futuro il lavoro fatto sul passato, per separare l’autentico dall’inautentico. Occorre che si liberi dal testo e dallo spettacolo per ritrovare il giudizio critico al testo e allo spettacolo, che sia sereno, non affrettato e legato al velo della superficie. Che si liberi dalle oscillazioni dei gusti o dei disgusti contingenti, dalle predilezioni estetiche e dalla partigianeria ideologica, dalla corsa al mestiere come improvvisazione post-laurea (prima) e dalla metodica della rendicontazione afferente alla cronaca teatrale più che al lavoro critico (dopo). Che si liberi - scrive Porcheddu - “dalla recensione per ritrovare la recensione liberata” (…) da censure e autocensure, riserve mentali e impacciati equilibrismi. Che si liberi dal vincolo assoluto di oggettività, tenendo in buona considerazione anche il livello della soggettività, se è vero - com’è vero -, che è oggettivamente impossibile raccontare (oggettivamente) uno spettacolo di teatro.  In tal senso penso, paradossalmente, che il miglior modo per fare lavoro critico sia - dopo aver ricevuto lo stimolo -, allontanarsi il più possibile dallo spettacolo  con la speranza di poterlo almeno sfiorare. Ripensarlo e rimembrarlo nei dettagli vuol dire proprio lavorare sulla memoria e con la memoria dello spettacolo per destinare al futuro uno scritto al quale riconoscere senza riserve un valore letterario autonomo rispetto al testo e allo spettacolo. Sì, un valore letterario autonomo.

La chiacchiera è assordante, il silenzio è vuoto, la dismisura è catalettica: la conclusione, seppure tinta di un pallido rosa, non può che essere inconcludente.  Se anche l’uomo morto nasconde fermenti di vita, quelli concernenti la decomposizione del corpo, ogni processo degenerativo nel campo del lavoro critico non potrà che implicare in tempi non prevedibili un proficuo processo rigenerativo, a condizione che il primo non sia considerato un fenomeno che interessa soltanto l’altro di noi. Anche se scarseggiano le pratiche legate a strategie innovative, il credito sociale, e la voglia di sentirsi parte di una comunità, i fermenti non mancano.

Chi avrà il coraggio di affrontare lo stato d’assedio e di rimettersi in discussione? Chi avrà il coraggio di entrare nel merito delle strategie ministeriali tese ad affermare che il teatro è lo spettacolo d’intrattenimento? Chi sarà disponibile a fare la radiografia del dirigismo distributivo, dei covacci del potere clientelare, delle vecchie e nuove rendite di posizione? Chi chiuderà la forbice abissale che si è aperta tra interessi legittimi e interessi illegittimi, tra il pensare altro e il vincere sull’altro? Quale mondo ha preso il sopravvento dentro di noi? Quale mondo possiamo raccontare, se nutriamo un mondo di morte? Quale energia siamo in grado di bruciare, quale scintilla possiamo generare, se il nostro corpo-mente è apparentemente vivo? Come sarà possibile andare al di là dei propri limiti e delle proprie idee, pensare altro altrove altrimenti, attraversare con paura e con coraggio allo stesso tempo i luoghi di senso? Come sarà possibile generare la follia luminosa di cui ha bisogno il mondo e il teatro che parla del mondo? Come sarà possibile dimenticare questo mondo, quando sarà necessario dimenticarlo, e versare lacrime dopo averlo dimenticato? E per tornare alla critica, a chi dobbiamo delegare gli interessi di categoria, dal momento che non esiste come categoria e ancor meno come comunità? A nessuno. Di certo, non alla politica, che insegue - quando va bene -, i bisogni, invece di prevenirli. Figuriamoci se può risolvere i problemi di una piccola casta,  socialmente sempre meno utile. Nessun principe potrà salvare la critica. Non c’è bisogno d’interposta persona, tanto meno di maghi o di cavalieri erranti nei postriboli, per ridare concretezza alla utopia della produzione di coscienza critica. Nessuno può isolarsi, ma l’isolamento è avvenuto. Nessuno può permettersi di sentirsi migliore degli altri, ma questo continua ad essere fatto. Dalle domande si può tuttavia ricominciare. Qualunque perdita è buona per ricominciare daccapo, meno la perdita della parola. A essa sono affidate dignità, sicurezza e integrità. Solo in  condizione di non precarietà si può ascoltare la vita. Sogni, sacrifici, deliri, dunque, e impudicizie ci vogliono. Purché siano incontenibili.