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La nuova edizione del  festival che da alcuni anni arricchisce l'estate torinese, comincia quest'anno il prossimo sette luglio per protrarsi, con spettacoli soprattutto concentrati nei tre fine settimana, fino al 25 luglio.
Il festival, diretto da Beppe Navello e che si avvale di prestigiose partnership tra organismi, fondazioni ed enti locali, conferma ed insieme rinnova

una sua specifica caratteristica, anzi lo definirei un carattere singolare, quello di puntare ad utilizzare i luoghi delle rappresentazioni non come semplici contenitori fisici o geografici, ma come parte della sintassi stessa dei diversi spettacoli, come modulo sinergico e proiettivo di interpretazione che integra, direi spontaneamente, le drammaturgie, come le coreografie ovvero il teatro di figura od il teatro circense, la cui miscellanea costituisce sin dall'inizio peculiarità rara di questo appuntamento.
A ravvivare ulteriormente, ove ce ne fosse, e non ce n'è, bisogno, l'interesse per questa nuova edizione di Teatro a Corte, una sorta di istituzionalizzazione del rapporto con le espressioni più innovative della cultura russa, che già ricordo avevano caratterizzato negli anni passati soprattutto la sezione teatro danza. In effetti il festival fa da cornice alle iniziative, promosse dai due governi, dell'Anno della Cultura e della Lingua Italiana in Russia e, specularmente, dell'Anno della Lingua e della Cultura Russa in Italia, enfatizzando la presenza di quella teatralità all'interno della “vetrina russa” cui questa edizione è appunto dedicata. Senza fare specifiche segnalazioni, che gli eventuali esclusi comunque non meriterebbero, ricordo solo, per concludere, che l'insieme degli invitati costitisce una vetrina assai interessante sul teatro e sulla teatralità contemporanea europea, nelle sue diverse forme, ospitando oltre a compagnie italiane e russe, artisti provenienti da Francia, Belgio, Olanda, Germania, Danimarca, Austria Portogallo, e spero di non aver dimenticato nessuno. Invito comunque il lettore a consultare per questo il sito del Festival, nell'attesa di assistere ad un evento che, credo, si segnali ormai come uno dei più significativi della tradizionale Estate europea dei Festival di Teatro.

Il diario

Accompagnato da un beneaugurante temporale alpino, è cominciata nel migliore dei modi questa nuova edizione di Teatro a Corte a Torino, festival che sembra sin da subito confermare le aspettative e le promesse cui già accennavo nella presentazione, proprio su queste pagine, nei giorni scorsi. Tre gli spettacoli di questa apertura, in scena tra il 7 e l'8 luglio, per un caleidoscopio di sensazioni ovvero di emozioni non consuete. Si è cominciato negli spazi della Cavallerizza Reale in Via Verdi, con il primo degli spettacoli della Sezione “Nuove Sensibilità' che ha selezionato, in collaborazione con altri Enti Teatrali italiani, quattro rappresentazioni di giovani compagnie al fine di offrire loro una, ormai troppo rara, occasione non solo di contingente proposta ma soprattutto di continuità produttiva e di diffusione.

VELVET BUNNY
Interessante drammaturgia, dalle iniziali suggestioni beckettiane, della giovane compagnia “La quarta scimmia” in collaborazione con la Fondazione Teatro Piemonte Europa. Su un testo di Ade Zeno e per la regia di Carlo Nigra, vede in scena quattro giovani  interpreti, Christian Castellano, Marco Mazza, Rebecca Rossetti, Federica Tripoli. Spettacolo ricco, quasi tumido, di umori e reminiscenze del miglior nuovo teatro, e forse proprio per questo fatica un po' a crescere e ad articolarsi in una sintassi limpida, perdendosi all'inizio in un eccesso di riferimenti lati e digressioni. Quattro fratelli si ritrovano davanti alle ceneri di un 'caro estinto' e l'incontro è l'immediata, forse attesa, occasione per scaricare rivendicazioni ed accuse reciproche quasi alla ricerca di una verità definitiva che, per ciascuno, è l'ultima inattesa elaborazione e salvezza. Man mano dunque che lo spettacolo si spoglia di un eccesso di “razionalizzazione” e si concentra sulle dinamiche relazionali reciproche, anche attraverso il filtro dell'onirico, la drammaturgia assume maggiore coerenza e profondità svelando un talento, sia drammaurgico che attoriale, forse acerbo ma già sufficientemente sicuro. La capacità di ribaltare il limite di una drammaturgia che tende ad identificare la verità esistenziale soprattutto nel dolore e nel rifiuto, per ricostruire un senso positivo, anche solo dal lato estetico ed artistico, alla comunicazione e alla relazione tra esistenze mi sembra costituire l'aspetto, o meglio l'aspettativa, più interessante di questo spettacolo.

Sempre alla Cavallerizza Reale, subito dopo il coktail di presentazione del festival anch'esso bagnato dai residui del temporale, il primo degli eventi della “Vetrina Russa” che, come abbiamo detto in sede di presentazione, costituisce il nucleo significativo del Festival di quest'anno.

PUNTO DI FUGA
Nato dalla collaborazione della compagnia di teatrodanza italiana CIE.ZEROGRAMMI e della compagnia Russa DIALOGUE DANCE è una creazione di e con Eugeny Kulagin, Emanuele Sciannamea, Ivan Estegneev e Stafano Mazzotta, liberamente ispirato al Tieste di Seneca. Affascinante sintesi ed elaborazione dei movimenti di una aggressività e di una competitività dai tratti tipicamente maschili, mette in scena un gioco del potere dalle sintassi e dalle suggestioni ludico/infantili, a partire dalle tendenze imitatorie e ripetitive che caratterizzaziono molti dei giochi dei bambini, fino a quelle più aggressive e violente giocate sullo scontro fisico e al confronto armato, con suggestiva metafora della guerra nella società e tra le nazioni. Nell'assenza di parti femminili, intese non solo in terminologia attoriale, par di leggere la progressiva consapevolezza di come questa aggressività e competitività privata di obiettivi e senso immediato e concreto, anche nella elaborazione e disinnesco che l'arte e l'arte popolare, a partire dal ballo tradizionale, compie, diventi fine a sé stessa ed involva progressivamente fino a quella autodistruzione che, con molta intelligente ironia corroborata dalla citazione della filmografia di Quentin Tarantino, si compie al fine sotto i nostri occhi.

La giornata si è chiusa al teatro Astra con l'ultimo spettacolo, forse il più atteso.

MURMURES DES MURES
Straordinaria drammaturgia che se dal punto di vista tecnico si caratterizza per una rarissima ed equilibratissima, in un sorta di linguaggio multisegnico, mescolanza di sintassi rappresentative, da quello estetico si muove in quella zona di confine della nostra mente che sta tra il pensiero razionale e l'inconscio, mettendo l'uno in contatto con l'altro attraverso la produzione continua di pensieri, sogni ad occhi aperti, sensazioni, con quel caratteristico andamento discontinuo e contradditorio eppure profondamente metaforico che è il movimento stesso dello spettacolo. Concepita e messa in scena da Victoria Chaplin per la COMPAGNIE DES PETITS HEURES vede in scena la di lei figlia Aurelia Thierrè validamente affiancata da Jaime Martinez e Antonin Mauriel. Come dicevo, mescolanza equilibrata e quasi perfetta di linguaggi scenici, dalla drammturgia al teatro di figura, dal teatro circo al 'fregolismo' ironicamente interpretato, lo spettacolo si muove sul palcoscenico come su un confine continuamente attraversato, con una grammatica fortemente surrealista ed episodicamente sconfinante fin nel teatro dell'assurdo, un confine che è  metafora di quel confine che dentro di noi continuamente attraversiamo tra sogno e realtà, tra gioco infantile, magistralmente suggerito dal simbolico e continuo travestirsi tipico degli anni della nostra infanzia, e esigenze della vita concreta (la firma sul trasloco), in un continuo fronteggiarsi e reciproco assorbirsi, tra fuga e ritorno, tra coscienza e dimenticanza di noi, e dunque, attraverso la malattia del 'tempo' che scorre, infine tra la vita e la morte. Il tutto sul filo di una ironia leggera, che esalta la fantasia drammaturgica, con momenti di sincera allegria e comicità che ci accompagnano e quasi ci proteggono nel loro e nel nostro transitare per zone oscure e dimenticate del nostro tempo e del nostro spirito. Meritato l'applauso liberatorio che ha chiuso lo spettacolo e meritatissime le numerose chiamate sul proscenio, anch'esse uno spettacolo nello spettacolo.

Continuano le giornate del festival torinese diretto da Beppe Navello, ancora accompagnate da forti scrosci temporaleschi, peraltro stavolta meno beneauguranti poiché hanno costretto l'organizzazione ad annullare la replica di Ieto, l'atteso spettacolo drammaturgico circense del francese Nouveau Cirque che ci auguriamo di vedere in altra occasione. Sabato 9 luglio si è aperto con la proiezione del bel film documentario danese Tankograd di Boris Bertam, vincitore al Film Festival di Mosca, che racconta le vicende del Chelyabinsk Contemporary Dance Theater, la compagnia diretta da Olga Pona, nel contesto della storia della città che la ospita  e ha visto nascere i suoi protagonisti, la storia complessa e anche tragica di luoghi segreti dell'industria nucleare sovietica, con tutti gli strascichi di inquinamento e malattie. Strano contesto che però esalta ed enfatizza la capacità che l'arte a volte esprime di ribaltare le difficoltà e l'inquietudine in speranza “creativa”. È seguito un incontro con il cineasta e la coreografa, di cui colpiva la straordinaria semplicità ed il pudore di fronte agli esiti della sua attività artistica, sia rispetto alle persone che rispetto ai luoghi, e anche di fronte alla forza estetica delle sue creazioni di cui invece sottolineava la naturale semplicità. Nel pomeriggio, alle 17, nuovo incontro con la creatività russa, per la specifica “Vetrina”, alla Cavallerizza Reale.

NEW GEOMETRY
Inquadrabile, con tutti i limiti che caratterizzano le catalogazioni, nella 'categoria' del Teatro-Danza, questo breve spettacolo di Tatiana Gordeeva, in scena con Eugeniy Pankratov, piega con abilità e padronanza i segni più classici ed anche, se vogliamo, accademici del balletto ad un percorso drammaturgico costruito sulla sintassi ironica e straniante di un insolito pas de deux che sembra svelare l'inconsistenza contemporanea della comunicazione corporea, anch'essa ormai quasi travolta dalla generale perdita di senso dei tradizionali linguaggi non solo drammaturgicici. La perdita del senso relazionale e comunicativo dei segni corporei li consegna così, inevitabilmente e quasi naturalmente, alla ripetitività ossessiva ed ossessionante enfatizzata nel tentativo 'didattico' che costituisce la trama o la fabula dello spettacolo. Gordeeva, peraltro, sembra mostrare una via di salvezza dalla totale incomunicabilità, fin alla idiozia, del linguaggio deprivato contemporaneo, via d'uscita che è appunto l'ironia che riattiva, sconfinando talora nel riso della comicità, un circuito critico ed una relazione con il partner e con il pubblico.

È seguito, sempre alla Cavallerizza Reale, il secondo appuntamento della “Vetrina Nuove Sensibilità”, che, come detto, porge una dovuta, ma rara, attenzione ai nuovi e più giovani fermenti della scena nazionale.

IL GUSTO DELL'INTIMITA'
Coprodotto dal “Teatro Pubblico Campano” è una interessante drammaturgia della compagnia “Gommalacca Teatro” in prima nazionale. Ideata da Carlotta Vitale e diretta da Mimmo Conte vede in scena quegli stessi due protagonisti che, anche dal punto di vista dell'abilità attoriale, dimostrano già buone competenze ed indubbie potenzialità. Dramma del rapporto di coppia e della relazione tout court, quindi 'consueto' nel teatro contemporaneo, sviluppa il tema della incomunicabilità e dell'incomprensione attraverso l'esplicitazione del dominio dell'invarianza delle consuetudine e della forza dell' abitudine e dei gesti correlati, che alla fine imprigionano ogni creatività soggettiva e quindi anche la capacità di una relazione produttiva e profonda tra soggetti diversi. L'abitudine non uccide dunque la coppia ma innanzitutto il singolo e quindi, per conseguenza la coppia, questo sembra guidare la sintassi drammaturgica, talora tragica nell'inane sforzo compiuto da ciascuno dei due protagonisti nel tentativo di sormontare il sordo rumore (“la musica è troppo alta” gridano in apertura i due protagonisti) dei ruoli che li soffoca e li allontana.
Idea drammaturgica dunque intrigante ma talvolta un po' didascalica nella sintassi scenica così da perdersi anch'essa, in certi momenti, nell'abitudine e nella reiterazione. Comunque una buona prova ed una qualità della compagnia che potrà avere, mi auguro, nuove e più consistenti verifiche.

Alla sera l'atteso spettacolo di Olga Pona e della sua compagnia, di cui già ho parlato in premessa, nel bellissimo, ma un po' gelido e in senso proprio, contesto dei seicentesto Teatro Carignano di Torino.

CONTINUOUS INTERRUPTIONS
In prima nazionale questa coreografia di Olga Pona e del suo “Cheliabinsk Contemporary Dance Theater” vorrebbe rappresentare l'ultima evoluzione dello studio che coreografa e compagnia in un certo senso conducono sui movimenti della danza tradizionale russa, dalla cui frequentazione provengono i danzatori del gruppo, tutti senza formazione 'accademica', e sul loro rapporto con la contemporaneità di un paese, la Russia, in profonda trasformazione e con le ancora forti cicatrici di un recente difficile passato. La coreografia appare un movimento collettivo di individualità che si sforzano di integrarsi ma mantengono ciascuna una singolarità evidente, tale che talora collide con stridore con l'armonia dell'insieme nella sua più classica, ovvero accademica, concezione. La padronanza dei corpi è notevole e consapevole come il senso delle relazioni cinetiche, ma in un certo qual modo sempre prevalente rispetto ad un significato complessivo dell'evento e della sintassi scenica, che in effetti la stessa coreografa, nella conferenza stampa, ha praticamente e semplicente eliso. Il corpo dunque come soluzione di continuità rispetto al ritmo del tempo della danza, e dunque del tempo tout court, ritmo che riprende immediatamente dopo ma rimane come significativamente segnato da questo vortice di esistenza che reclama, talora confusamente, voce e ribalta. In un certo senso sulla scena del Carignano si è avuta una sorta di evidenza estetica del senso racchiuso nel documentario della mattinata.
Lavoro dunque interessante ma in qualche modo contraddittorio e forse tale voleva sembrare ed essere. Opportuna la scelta degli organizzatori e notevole il successo.

All'uscita la non buona notizia dell'annullamento per 'avversità atmosferiche' dello spettacolo al Castello di Moncalieri.

Si è chiusa la prima settimana del Festival torinese, che riprenderà giovedì 14 luglio. Quattro gli spettacoli che hanno riempito la giornata di domenica 10, uno della “Vetrina Russa”, due, gli ultimi,  della rassegna “Nuove Sensibilità” ed a chiudere in serata una eccellente rappresentazione del miglior teatro europeo.
Apriamo dunque con la “Vetrina Russa”.

ULTIMATE ILLUSION
In prima nazionale, è una creazione di Elena Prishvitsyna e di Vladislav Morosov, allievi della scuola di Olga Pona, che mescola, con la consueta sapienza, coreografia e drammaturgia, articolando la sintassi scenica come un percorso di immagini e figure che cercano, sulla scena stessa, un senso altrove perduto e irraggiungibile. Ripropone un tema che appare consueto nella nuova danza contemporanea russa, quello del 'peso', una sorta di ossessione della gravità che tutto atterra e tutto riconduce ad una sorta di schiacciamento verso il basso, in cui gli unici movimenti che appaiono consentiti sono quelli dello scivolare o strisciare, ovvero del rotolare intorno al proprio corpo come ad un asse immobile. Parabola dunque, in senso geometrico ed in senso letterario, del desiderio di fuga, di slancio, di quel volo liberatorio che il mondo contemporaneo sembra escludere definitivamente. Strumenti di questo slancio, che si articola in improvvisi volteggi ed in incontri-scontri inattesi di corpi, quasi a fondersi in un reciproco appoggio come nel più classico pas de deux, prevalentemente i ricordi, le nostalgie chiuse in una valigia che solo alla fine svela il suo misterioso contenuto, in un infantile assaporare un tempo che si vorrebbe riconquistare. Sapiente mescolanza, come detto, di segni corporei, sonori e cinetici in una metafora della vita dalle vaghe suggestioni cechoviane rivisitate in un contemporaneità artistica, quella russa, in dinamica evoluzione. Molto bravi i due danzatori che sanno ben amalgamare le dinamiche della danza popolare con i più raffinati movimenti dell'accademia.

Di seguito, sempre alla Cavallerizza Reale, due performance per “Nuove Senbilità” entrambe in prima nazionale e coprodotte per il Festival rispettivamente da A.M.A.T. Associazione Marchigiana Attività Teatrali e da NUOVO TEATRO NUOVO.

DULCIS IN POMERIO
Drammaturgia senza testo, ideata e diretta da Helen Cerina e con la stessa Cerina e Claudia Giordano, entrambe giovanissime, è presentata in forma di studio stante le difficoltà economiche dell'Ente produttore. Lavoro comunque assai cerebrale che si carica di 'desideri' estetici, espressivi e comunicativi che la sintassi scenica, ancora assai povera, e non nel senso migliore del termine, e comunque poco organizzata, non appare in grado di sostenere e al cui interno si perdono dunque le suggestioni (l'11 settembre?) che il rapporto tra la forma della città e le forme della comunicazione, corporea o verbale che sia, dovrebbe stimolare. Se la tecnica drammaturgica sembra insufficiente, anche l'abilità attoriale ed espressiva delle protagoniste appare immatura e comunque bisognosa, ferma restando una qualità di base che talora traspare, di maggior rigore e, quindi, di prove successive.

HISTOIRE D'A
Più complessa e articolata la lettura di questa drammaturgia, dalle forme e dai ritmi assai più tradizionali che articolano un testo comunque 'volenteroso'. Liberamente ispirata all'omonimo racconto di Giovanni Zucca, è ideata in collaborazione con  Renato Gabrielli da Jacopo Bicocchi e Elisa Marinoni, che ne sono anche i protagonisti. Storia 'eccentrica' di coppia, un fratello ed una sorella contrapposti ma speculari, che vivono in un anonimo appartamento cittadino. Disinvolta lei, 'sfigato', mi si consenta il termine generazionale, lui e da lei, che lo disprezza, molto ambiguamente dipendente. La relazione si ribalta quando un enigmatico “assassino di str...” compare alla ribalta della città, e Caterina viene portata a credere che il misterioso vendicatore sia il fratello Andrea. La scoperta del vero assassino riporta tutto a prima. Fabula dunque carica di riferimenti, sociologici, storici e politici, e di referenti estetici e narrativi, dal nordico teatro arrabbiato al grottesco dramma americano di Jules Feiffer, poi più noto film di Alan Arkin, Piccoli Omicidi, ma che si involve e talora precipita in un eccesso definitorio che limita gli spunti ironici e critici, in una sorta di enfatizzazione che annulla gran parte dei riferimenti metaforici e quindi una buona parte della possibile intima adesione del pubblico.

A chiusura, negli spazi delle “Fonderie Limoni” messi a disposizione, causa previste avversità atmosferiche, dal Teatro Stabile di Torino, quello che a mio parere, insieme a Murmures de Murs di venerdì 8, può essere considerato il vero 'evento' di questa prima settimana di Festival.

BASTARDI
Spettacolo dell'ormai famoso performer carioca-olandese Duda Paiva, che cura la coregrafia ed è protagonista della prestazione scenica, si avvale della drammaturgia di Jaka Ivanc dalla novella L'Arrach-coeur di Boris Vian. Novella questa dal complicato intreccio psicoanalitico che, attraverso la vicenda dello psichiatra protagonista, analizza, è il caso di dirlo, complessi intrecci simbolici ed identitari in una sorta di elaborazione che sembra avere i tempi, appunto, di una vera e propria 'analisi' e di cui la drammaturgia articola una sorta di percorso scenico proiettivo costruito su suggestioni simboliche e metafore estetiche. Lo spettacolo, dal lato della  sintassi rappresentativa, è così una singolare ed eccezionale miscellanea di danza, teatro di figura e teatro di parola che ci conduce con abile ed anche protettiva mano nei luoghi abbandonati della nostra interiorità icasticamente metaforizzati nella discarica che, quasi inglobata in una sorta di atmosfera liquida e cangiante, occupa l'intera scenografia. Lì a volte precipitiamo, magari dopo una simbolica “sbronza”, e da lì in genere rapidamente fuggiamo, credendo e volendo abbandonare le nostre più intime ossessioni al loro destino. Talora non riusciamo a fuggire e siamo costretti a guardarle negli occhi e nelle forme di quei pupazzi flessibili, in fondo mostruosi, manovrati da Duda Paiva che, man mano, vengono da lui, dolcemente e con quell'ironia che ci preserva dalla fuga immediata, resi disponibili per ciascuno di noi. Così si caricano dei nostri sogni o dei nostri incubi, dei nostri desideri, dei nostri rimpianti o dei nostri rimorsi. Metafore collettive, della vecchiaia non riconosciuta e nascosta, del delitto, dell'abbandono, della diversità repressa, e insieme simboli soggettivi di quel linguaggio che ci divide e che ci accomuna e che ha radici direttamente nell'inconscio, con improvvise e perturbanti suggestioni edipiche, come nel parto della tazza di the da parte di Clementina provocato dal gatto strappato al pupazzo maschio. L'uso delle marionette, ideate dallo stesso artista, ha così l'effetto straniante di un sanguinetiano travestimento scenico ed insieme la capacità di rendere a tutti disponibili i segni di una interiorità, sua e nostra, che vuole elaborarsi ed elaborare il senso del nostro destino. Performance dunque complessa, ma la cui complessità è come travestita nell'ironia ludica di un gioco tra marionette e, insieme, reso, per così dire, tollerabile dalla dolcezza e affettività del performer. Del resto l'invito da Duda Paiva rivolto al pubblico di scendere sul palcoscenico a conoscere e toccare le 'sue' marionette (la donna senza gambe, il vecchio, il gatto nero e la testa di cavallo 'cantante') è sembrato dare ragione a quanto percepito nel corso dello spettacolo. In effetti il pubblico, dopo scroscianti applausi e numerose chiamate al proscenio, nella sua maggioranza non voleva proprio saperne di andarsene.