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Daniele riceve gli ordini per la sua seconda missione, e sa, su rassicurazione di Guadagnoli stesso, che stavolta l'azione sarà pienamente nelle sue mani, senza alcun controllo esterno. Il questore in persona gli spiega in cosa consiste la missione, che è molto delicata e che in qualche modo lo tocca profondamente. Si tratta di un prete, parroco della periferia, e, un tempo, quand'erano giovani, ed essendo coetanei, amico del questore. I parrocchiani si sono rivolti al commissariato di zona, sulla Prenestina, esternando pesanti sospetti su comportamenti illeciti del parroco nei confronti di alcuni ragazzini: solo sospetti, pochi indizi, nessuna prova, e le stesse presunte giovanissime vittime non fanno trapelare nulla, o per la vergogna, o per il timore, o perché, come Guadagnoli si augura, non vi è alcun motivo che contempli il reato di pedofilia. Guadagnoli vuole che Daniele, spacciandosi da prete di un'altra diocesi, tenti un approccio col parroco, Don Arturo, per poter intuire delle piste più sicure che confermino i sospetti. Gli raccomanda la massima discrezione, lo invita ad usare il fioretto, ad essere assolutamente psicologo, tanto più che di tale questione è al corrente il vescovo ausiliare, che è in ottimi rapporti col questore, e che teme che il caso esploda finendo nella macina massmediatica, a danno soprattutto dell'immagine della chiesa romana.

A Daniele viene consegnato un incartamento che comprende documenti sull'organizzazione della diocesi, una copia del catechismo cattolico, un sunto di teologia morale e dogmatica; inoltre gli viene recapitato un clergyman per potersi vestire da prete: insomma, deve “prepararsi”, sempre per essere credibile al massimo; gli viene suggerito di parlare con una cadenza non romana, magari la classica veneta dei vecchi preti d'antan: gli vengono date due settimane per prepararsi, leggere, studiare, assumere un comportamento consono all'abito talare, infine gli viene lasciato campo libero su come organizzare l'incontro, o gli incontri, con Don Arturo.

Daniele ha tutto il tempo per preparare la missione, ma da subito trova che la soluzione migliore è presentarsi al parroco chiedendo di essere confessato, lui, prete di passaggio a Roma, e ospitato nei pressi della parrocchia, e profondamente turbato per delle parole offensive da lui rivolte a un confratello del proprio ordine, Fratelli della carità cristiana, in una spiacevole, animatissima discussione. Riceve conferma della bontà del piano da Guadagnoli stesso. Daniele si dedica per diversi giorni a “interpretare” il “suo” prete, a usare la parlata veneta, a studiare l'istituzione ecclesiastica, nella sua organizzazione pastorale e nelle sue tradizioni e credenze. Daniele si sente pronto e viene autorizzato a iniziare la missione.

Il primissimo approccio è telefonico, giusto per prendere un appuntamento in orario mattutino.

Don Arturo gli è davanti: dimostra i suoi sessant'anni, è calvo, piuttosto magro, alto, con uno sguardo piuttosto severo, ma anche molto vivo, i suoi occhi verdi si muovono velocemente; ha una veste lisa sugli orli delle maniche; è molto formale, fa accomodare il falso prelato nell'ufficio parrocchiale:

“Lei, confratello, desidera che la confessi, dunque? Non ha un padre spirituale qui a Roma, nella casa generalizia del suo ordine? o un suo sostituto?”.

La domanda fa riflettere Daniele: quel prete che gli sta davanti è sicuramente attento a cosa deve fare, e dire, e non ha fretta; intuisce che la sua risposta può risultare decisiva, addirittura fallimentare, può far abortire il primo iniziale tentativo. Daniele tira, volutamente, un lungo profondo respiro, ma senza alcuna teatralità, deve essere convincente:

“Si, certo, abbiamo un padre spirituale, che peraltro appena conosco, ma ora è fuori Italia, in missione!”.

“Capisco” fa il prete.

“Ci sarebbe anche una sorta di sostituto, ma è davvero molto anziano, e oramai poco attento, poverino, alle esigenze interiori di noi appartenenti all'ordine.”.

“Ma lei come fa a sapere se io posso soddisfarla da questo punto di vista?”.

“Vado a intuito, ho sentito la sua omelia di domenica scorsa, e mi è piaciuta molto, mi è piaciuto il suo modo d'interpretare la lettura del Vangelo “teologico” di Giovanni, sul corpo di Cristo.”.

“La ringrazio, cerco di fare del mio meglio, e spero che non siano parole gettate al vento, lei mi può capire, conosce la situazione del cosiddetto “popolo di Dio”: un venti per cento, forse meno, di frequentanti la messa; di cui buona parte sono cattolici immigrati dalle Filippine, dal Sudamerica, eccetera...”.

“Il nuovo “sale” della terra, a cui rivolgere fortemente la nostra speranza; lei deve credere nella sua funzione pastorale! Noi dobbiamo credere!”.

Don Arturo allarga un sorriso, dapprima lusingato e poi appena immalinconito, ma Daniele lo legge come un primo segnale di favore nei suoi confronti. E infatti Don Arturo gli chiede immediatamente quando vorrebbe incontrarsi con lui per la confessione: Daniele propone nel tardo pomeriggio, non vuol mettergli fretta ma vuol anche dimostrare che per lui è un'urgenza interiore che spinge dal profondo. Il parroco acconsente, lo aspetta per le 18, subito dopo l'incontro di catechismo per i cresimandi. Si salutano, con cordialità.

Daniele ha il tempo per rivedere il dossier sul parroco che gli hanno consegnato: pensa essere importante che le informazioni e le note ivi contenute ora non siano riferite più a un'entità astratta, ma a una persona in carne e ossa che lui ha potuto “vedere”. Sottolinea alcuni passaggi dell'informativa che gli sembrano significativi per abbozzare un minimo profilo della personalità di Don Arturo, e cioè: la sua assenza triennale dalla diocesi per una missione in Africa, nel Gabon, della quale non si ebbero a suo tempo notizie precise: una sorta di buco nero nella sua carriera prelatizia. Più recentemente uno scontro prolungato col suo vescovo ausiliario a causa di alcuni riti interreligiosi svoltisi ripetutamente nella parrocchia, non condivisi dai diretti superiori. Ancor più vicino nel tempo uno “strano” incidente accaduto nei locali della parrocchia, la cui ricostruzione è rimasta piuttosto lacunosa: in una giornata invernale, verso sera, su sollecito dei genitori angosciati che non lo vedevano tornare a casa, era stato trovato un ragazzo semisvenuto, dentro un piccolo bagno, con un taglio sul cuoio capelluto, il viso arrossato dal sangue, la cintura dei pantaloni slacciata; del poveretto si diceva in parrocchia soffrisse di lievi attacchi epilettici, sintomi peraltro sempre negati dai familiari. Del fatto, in pochi giorni, non se ne parlò più, ma il viceparroco aveva voluto annotare tutto e trasmetterlo in vicariato. Infine Daniele sottolinea anche alcune testimonianze riservate raccolte dal commissariato di zona: esse affermano che Don Arturo era stato visto più volte girovagare tra le vie del quartiere in piena notte, ma alcuni testimoni hanno giurato che ciò fosse avvenuto per l'attenzione e la dedizione che il parroco nutriva per alcuni homeless della zona, barboni o extracomunitari che fossero.

Daniele prende atto dell'ambiguità delle situazioni riportate, tipica in particolare degli ambienti e comunità parrocchiali; sa bene quanto tradizionalmente pesi l'ipocrisia di certi cattolici, ma si rende anche conto che quel prete potrebbe essere del tutto corretto nell'esercizio pastorale e nei rapporti umani: si rende conto, quindi, che il suo tentativo potrebbe anche non portare ad alcuna minima certezza. Sa dunque che nell'incontro-confessione dovrà procedere alla cieca, e con la massima attenzione e controllo.

“Nel nome del padre...”, mi dica pure, confratello, con la massima libertà, affidandoci alla pietà divina: Don Arturo fissa Daniele, quasi come una pantera che mette a fuoco la preda prima di compiere il balzo.

Daniele sente che deve giocare d'anticipo:

“In verità, io non ho litigato con nessuno, stamane le ho detto dello scontro in casa generalizia, perché non potevo proferire parola su quanto le devo dire adesso.”.

“Mi dica, si apra tranquillamente!”, fa Don Arturo.

“Ecco, io ho peccato contro il sesto comandamento e contro il Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo, che... che esortava a non far alcun male ai fanciulli, e...” Daniele dissimula un incontrollabile imbarazzo, intuendo che la strategia usata poteva tenere in pugno il prete: a sua volta questo, nel sospetto eventuale di una trappola, non avrebbe potuto uscire allo scoperto; in caso contrario non poteva comunque venir meno al suo dovere di confessore, tanto più nei confronti di un confratello.

“...e... in verità io ho solo desiderato fortemente “avvicinare” un giovane ragazzo della mia parrocchia in Veneto: un ragazzino dolcissimo, dagli occhi azzurri come il cielo, come quelli di un angelo! Io non gli ho fatto nulla, non l'ho toccato, la prego di credermi!”.

“Si, la credo, Don Daniele, mi dica, si sfoghi, non abbia alcun timore.”.

“L'ho guardato, l'ho sbirciato in ogni occasione: in parrocchia, o a scuola, dove insegno religione. Ho fantasticato col pensiero, col cuore invaso da quegli sguardi, dai suoi gesti sempre delicati, come quelli di un giovane cerbiatto libero e selvaggio.”.

“Capisco.”

“Ho scattato a Rino, questo è il suo nome, delle foto di nascosto, primi piani con lo zoom, per poterlo vedere sempre, per inebriarmi del suo volto di cera, per sfiorare la sua immagine con le dita tremolanti: son arrivato perfino a... a...” Daniele simula un singhiozzo penoso.

“A masturbarsi?” domanda il parroco.

“Si, è così, a masturbarmi, come se fossi anch'io tornato adolescente! Mi creda il mio è un tormento indicibile, è come avere l'animo ulcerato e sanguinante... è un dolore più forte di quello di una ferita alle carni!”. Don Arturo tace, e Daniele si sente all'improvviso investito da una ventata di vergogna, capisce di essersi spinto molto, troppo oltre la finzione: pensa che potrebbe violare, e invadere, falsamente, lo spazio intimo e inviolabile dell'altro, incendiandogli il recinto che difende il centro più nascosto della sua coscienza.

Don Arturo lo prende per le mani, le sue son bagnate di un sudore freddo:

“Hai altro da dirmi, da confessare?”.

Daniele è preso in contropiede, anche per quel “tu” rivoltogli dal prete, e d'altra parte si convince che non può andar oltre con le parole:

“No, non ho altro”.

“Hai rasentato il baratro, la voragine che inghiotte ogni regola, morale, giuridica, divina. Ma sei ancora salvo, sei rimasto invischiato nei tuoi pensieri, nelle tue sensazioni e nei tuoi stati d'animo, ma in fondo contano le azioni: non certo la masturbazione, quella può accadere a tutti in momenti di debolezza: intendo gli approcci concreti verso quell'angelo: intendo degli atti che potevano immobilizzare le sue ali; intendo delle parole che lo potevano ferire più di una coltellata; lasciamolo volare libero verso il cielo in cui vorrà spaziare. E tu, ora, rasserenati, e prega, prega ascoltando quel Dio che è in noi, e che solo ci libera dal male. Amen.”.

Il sacerdote gli impone il segno cristiano sulla fronte e lo assolve. Poi, lentamente, mentre una lacrima gli riga una guancia pallida come un alabastro, cinge della sua stola le spalle di Daniele, che prova un brivido terribile sulla schiena, e che vorrebbe sparire.

“Ora chiedo che sia tu a confessare me” sussurra il parroco.

Daniele, assolutamente sorpreso, deve decidere in una frazione di tempo incommensurabile il da farsi: o obbedire al suo scopo, servire la giustizia, o rifiutarsi per un senso di umanità, e soprattutto di verità. Capisce che è come un tiro di dadi, e decide di giocare fino in fondo.

Fa un segno di croce e un cenno di assentimento a Don Arturo, che inizia la sua confessione.

“Condivido la tua sofferenza... intuisco la tua angoscia; so di essere ingiustamente sospettato di pedofilia; ho la pena di sopportare da tempo nella mia comunità parrocchiale un clima di diffidenza sempre più pesante; anni fa ho dovuto abbandonare la parrocchia, recandomi in Africa a scopo missionario, nella speranza di trovare pace e serenità. Anche recentemente mi son trovato immerso in una cortina di ostilità, di allusioni pesantissime, dopo che è stato trovato quasi incosciente un ragazzino in un bagno dell'oratorio, con una ferita alla testa. Ho chiesto ai miei superiori della diocesi di essere rimosso, ma ho capito che qualcuno tenta in ogni modo di incastrarmi, e di farmi pagare altre colpe.”.

“Quali?” chiede Daniele.

“Diciamo che sono considerato quasi fuori della comunità cristiana, sia dal punto di vista dommatico, che dottrinario: non sono stati accettati i miei incontri interreligiosi, perché, mi è stato detto, finivo per relativizzare la nostra fede: ma io ho sempre pensato che la nostra fede e le nostre credenze restavano irrinunciabili ma potevano essere ulteriormente approfondite e arricchite dall'incontro con altre fedi e credenze. Son stato incolpato di aver “toccato” alcuni dogmi, solo perché ho spiegato ai miei parrocchiani che quel che conta nei dogmi non è il dito che punta verso la luna ma è la luna stessa, e che quindi dobbiamo guardare più in avanti e più in alto del dito.”, si ferma, si asciuga la fronte, mentre interviene Daniele, quasi sussurrando:

“E qual è allora il “tuo” peccato?”.

“La superbia, l'orgoglio, il narcisismo; mi son specchiato in me stesso, e via via ho perso l'autenticità, la spontaneità, nei sentimenti, nei rapporti con gli altri; non ho capito che dovevo servire gli altri e non “asservirli” alle mie convinzioni; certo, nel profondo della mia coscienza non rinuncerei mai alle mie convinzioni, ai miei fondamenti, anche quelli che toccano la dottrina, evitando però che la mia posizione porti a dividere. Il turbamento che da molto tempo mi ha investito mi ha impedito di comprendere gli altri, chiunque fossero; di cercare sempre e comunque la concordia e l'armonia; mi son buttato sulle opere di carità, ma più per un utilitarismo, per un tornaconto, insomma per tacitare i miei dubbi e le mie insoddisfazioni. Ho pensato di capire il mistero del male e della sofferenza, di esserne superiore, di chiamarmi fuori dalle incertezze e dalle sconfitte della vita umana. Questo è il mio peccato, e ti chiedo di essere perdonato e assolto.”. Un lungo momento di silenzio, i due non si guardano, Don Arturo giunge le mani coprendosi il volto, Daniele sente di dover dissacrare un gesto rituale imposto da una legge scritta, ma sa di rispettare così la sacralità di un incontro umano che giunge a profondità insondabili. Però è felice, felice di aver vinto la partita, è ormai certo che quel prete, Don Arturo, è sospettato ingiustamente: lo assolverà, non certo come intermediario fra terra e cielo, ma come compagno della vicenda umana in cui tutti viviamo:

“Io ti assolvo, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.