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Può esserci un “dentro” caldo, accogliente, rassicurante, e può esserci un “fuori”, freddo, buio, minaccioso; oppure può esserci un “dentro” piccolo, claustrofobico, angosciante, e un “fuori” ch’è fuga, speranza, rischio positivo. Qualcosa di simile, e di egualmente ambivalente e ambiguo, potrebbe dirsi per le dimensioni del “sotto” e del “sopra” e per quelle del “passato” e del “futuro”. Cosa ci riserva la vita al di fuori di della stanza in cui ci troviamo in questo momento? La vita che stiamo vivendo è davvero reale? Cosa ci spaventa? Cosa ci rende inquieti? Cosa ci abbrutisce? È tutta giocata su vettori di significato che si dispiegano da queste domande la vicenda sfuggente, enigmatica eppure densa di senso, de “la Stanza”, il dramma con cui Harold Pinter ha iniziato nel ’57 la sua folgorante carriera di drammaturgo. Un’anziana coppia, Rose e Bert Hudd, vivono la loro esistenza ordinaria e dimessa, abitando in una piccola stanza di un palazzo alla periferia di una città del nord. Sono contenti d’esser arrivati lì da una ben più angusta e umida stanza del seminterrato. Dovrebbero essere contenti. Un’esistenza banale la loro, punteggiata dai tè pomeridiani, dalla solita cioccolata calda serale, da qualche uscita di Bert e dalle visite improvvise del vecchio padrone di casa. Una vita banale attraversata da inquietudini che non si placano. Una giovane coppia si presenta a Rose per avere informazioni su quella stanza: pensano che sia già disabitata e quindi disponibile a un nuovo affitto. Poi è la volta di Riley, un intruso, un uomo di colore, cieco, che viene in casa cercando, senza tanti complimenti, di portarsi via Rose in base a un ricatto legato al passato (anche questo indefinito, misterioso) della donna. Ma Rose non cede e Bert al suo ritorno aggredisce Riley e, probabilmente, lo uccide. È questo il testo che, nella traduzione di Alessandra Serra, “Teatrino giullare”, la compagnia di Sasso Marconi (Giulia Dall’Ongaro ed Enrico Deotti) che ormai s’è conquistata un posto di rispetto nel panorama della ricerca teatrale italiana, ha voluto riscrivere per la scena (dopo “Finale di Partita” di Beckett, “Lotta di negro e cani” di Bernhard e “Coco” di Bernard-Marie Koltès) continuando nel suo originalissimo percorso di ricerca volto a una riscoperta del valore dello straniamento artistico e all’assoluta spersonalizzazione della figura dell’attore. Abbiamo visto questo spettacolo a Gibellina, il 19 luglio scorso, nel corso della XXX edizione delle Orestiadi dirette anche quest’anno da Claudio Collovà, e l’effetto è ancora una volta sorprendente. Colpisce la capacità di questi artisti di ritrovare una misura contemporanea e necessaria per una drammaturgia importante come questa di Pinter. Lo spettacolo è teso, esatto pur nell’indeterminatezza del plot drammatico, racchiuso in una scatola illuminata internamente (teatrino, televisione, scatola magica) e disegnata esternamente da proiettori, mentre la visione che si concede al pubblico (costringendolo a un’attenzione ininterrotta che forse in uno spazio all’aperto è difficilmente raggiungibile) è filtrata da una finestra e totalmente esterna alla stanza. I due artisti giocano su tutti i sei ruoli della piece, indossando maschere di lattice, iperrealiste, di grande effetto. Quei volti si deformano e alludono a una sostanza di mostruosità che, nel teatro di Pinter, altro non è che il necessario risvolto dell’alienazione capitalistica dell’uomo nella società occidentale. Un ottimo lavoro complessivamente anche se qualche momento di “fermo immagine” appare poco motivato internamente e qualche battuta, che pur avrebbe voluto esser comica, appare invece rilevata eccessivamente e poco congrua rispetto al rigore e alla concentrazione complessiva della messinscena.