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Per nove giorni la terra di Milano ha tremato al ritmo dei tamburi del grande continente africano e i milanesi sono entrati in contatto con un nuovo mondo e una nuova cultura: si è infatti concluso domenica al Piccolo Teatro Grassi di Milano l'XI edizione del festival Tramedautore, dedicato quest'anno all'Africa e alla sua cultura. Con la suggestiva cornice all'aperto del chiostro del Piccolo Teatro, dal 17 al 25 settembre si sono succeduti con una straordinaria varietà eventi di differenti nature, provenienti da alcuni dei principali stati subsahariani: Senegal, Costa d'Avorio, Benin, Camerun, Mali, Repubblica Democratica del Congo, Sudafrica. Negli ultimi tre anni il Festival ha posto il suo interesse principale sul continente africano, occupandosi nel 2009 della diaspora africana in Europa e nel 2010 della questione del Nordafrica;  quest'anno, battezzando la manifestazione con il nome Tramedafrica, si è deciso di affrontare i difficili rapporti tra Africa ed Europa, tristemente segnati dalla sofferenza e dal razzismo e che hanno contribuito a lasciare l'immagine di un Paese senza storia nè cultura. Ben preciso risulta quindi l'obiettivo degli organizzatori del festival e degli artisti che vi hanno partecipato: mostrare uno spaccato d'Africa, rendere consapevole il pubblico dell'eccellenza culturale africana che vive in Lombradia e soprattutto raggiungere attraverso la dimensione teatrale una decolonizzazione della mente (la nostra, ancorata a pregiudizi colonizzatori) e della storia (la loro, fortemente presente sul territorio e ricca di tradizioni profonde). Sul famoso palcoscenico di via Rovello hanno preso vita storie di un'umanità persa, disorientata, sola, urbana, sottoposta alla schiavitù, al razzismo e ai soprusi. Nel susseguirsi di questi spettacoli lo spettatore arriva alla presa di coscienza di un mondo degradato e dilaniato dalla corruzione, dall'ingiustizia e dall'indifferenza verso queste realtà. Ed è proprio da opere come Les larmes du ciel d'aout (Lacrime del cielo d'agosto) di Aristide Tarnagda, The train driver (Il conducente del treno) di Athol Fugard, The syringa tree (Il lillà) di Pamela Gien, che nasce la più intensa drammaturgia africana contemporanea. Ciò che rende unici questi spettacoli non è la magnificenza scenografica, nè l'incredibile abilità attoriale, ma entrano in gioco le parole e la coscienza dello spettatore che non può fare a meno di sentirsi coinvolto, nonostante l'estraneità ai fatti raccontati. Il pubblico viene preso per mano e accompagnato in un percorso che attraversa tutti e tre gli spettacoli: dal primo in cui una donna incinta ci racconta una realtà urbana, la sua realtà urbana, sprigionando un fiume di parole mai dette, sepolte, rumorose e interrotte da domande senza risposta; alla successiva opera di Fugard che vede nell'incontro tra un bianco e un nero, l'uno un conducente di treni e l'altro un becchino, la risoluzione tragica della ricerca esasperante di assoluzione e perdono; e per concludere si arriva ad uno dei più intensi racconti sul razzismo e sulla diversità tra bianchi e neri che si sviluppa attraverso una polifonia di voci e corpi nella rappresentazione di due famiglie che si confrontano e si scontrano in un continuo slittamento fra ventiquattro personaggi diversi per sesso, età, razza ed estrazione sociale. Oltre all'elemento teatrale un ruolo fondamentale e predominante in questo festival vengono ad assumerlo la danza e la musica, che diventano non solo testimonianza del folclore africano, ma concretizzano tutte le dimensioni dell'essere umano dalla sua spiritualità al gioco del corpo. Il travolgente ritmo africano ha richiamato nel chiostro del Piccolo Teatro un pubblico vario, di ogni fascia di età, che non ha perso l'occasione di partecipare a questo gioco danzante: Abib Diop, Henri Olama, Jali Omar Suso e Naby Camara con al seguito una vastissima collezione di strumenti musicale vagamente somiglianti ai nostri sono stati tra i più sublimi portavoci di questo fenomeno trascinatore di folle, nonostante il senso di certe canzoni fosse ai più ignoto. Ed è proprio in questo contesto di danza e canti che ha preso vita una delle tradizioni più antiche e importanti che non solo caratterizza il bagaglio culturale del continente nero, ma che fa anche parte della nostra storia: la narrazione e più precisamente, i cantastorie. Come rappresentanti di una tale professione il festival ha scelto di presentare Manfei Obin e Olivier Elouti, che,nonostante la continua traduzione dal francese all'italiano, hanno affascinato grandi e piccini con storie che richiamano alla memoria tempi lontanissimi, con un leggero sapore di mito e spiritualità. Con un'organizzazione impeccabile da parte dell'Outis (in collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano e l' Union des Théâtres de l'Europe) ogni arte ha preso parte a questa inziativa, bilanciandosi in perfetta armonia le une con le altre e dando la possibilità a due mondi apparentemente lontani di avvicinarsi e tendersi le mani per un reciproco scambio culturale.

Foto Ema Cima