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Renata è stato rappresentato a Roma presso il Nuovo Teatro Colosseo, dal 28 marzo al 15 aprile 2007. Con Barbara Valmorin, Fabio Bussotti, Federica Bern, Regia Werner Waas, produzione RLG associazione.

Nota dell'autore
Ho scritto Renata in parte in un inverno di lavoro a Milano e in parte in primavera a Roma, camminando per le strade o seduto su qualche gradino o appoggiato alle macchine parcheggiate ovunque. A volte in qualche scintillante e silenziosa mattina lungo le rive del lago di Bracciano che tutti ormai conoscono perché è il posto in cui vengono a sposarsi le star internazionali. Io abito poco lontano. Avevo ragionamenti da fare ad alta voce e vibrazioni intime di cui volevo ascoltare le risonanze.
Ho usato situazioni, persone reali, personaggi come parti di sentimenti incompleti a confronto nel tentativo di mettere a fuoco, possibilmente senza fermarlo, un precario senso del tempo. Possibili rifrazioni fra una dimensione privata, degli affetti ed una pubblica, delle passioni civili, in un mondo che cambia in fretta. Uno parla e l'altro ascolta. O parla con l'assente. O parla al pubblico. Oppure sta zitto. Senso di estraneità, senso della posizione. Ideologia. Lutto. Solitudine. Un panorama di rovine. Un deserto. Futilità del lavoro, opportunità create dai fallimenti. Nessuna particolare nostalgia degli anni settanta, né degli ottanta o dei novanta, o del duemilasei che ci sta lasciando. Non è la mia storia. Ho spiato un po', ascoltato parecchi discorsi.
Nessun senso di contraddizione nel ritrovarmi spesso daccordo con tutti. Un certo smarrimento provocato dal tempo che passa.
Paolo Musìo

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Una recensione
di Andrea Porcheddu
da www.delteatro.it
Vedendo scorrere le diapositive di Mario Dondero, proiettate enormi sul fondo, con immagini di manifestazioni recenti e passate, con gente che "militava", che scendeva in strada, in Italia o in Francia, guardando i particolari di quei volti di persone qualsiasi eppure raggianti, veniva in mente il titolo di uno dei primi libri di Hoellebecq, Estensione del dominio della lotta. Non che c’entrasse nulla, con lo spettacolo che stava iniziando, ma una possibile riflessione sulla lotta, sulla partecipazione, sulla militanza era evidente sin dalle prime battute di Renata, testo di Paolo Musìo, andato in scena a Roma con la regia di Werner Waas e l’interpretazione intensa di Barbara Valmorin. Renata, infatti, è proprio lei, Barbara: l’autore lo dichiara apertamente. Attore di professione e di qualità, Musìo si è cimentato con la scrittura altre volte, ma qui raggiunge una maturità di tratto e di sguardo considerevoli: e si è ispirato proprio alla passione, alla verve artistica e politica della Valmorin nello scrivere questa pièce che è una strana commistione di verbosità tedesche, di volute filosofiche francesi e di intimità domestiche tutte italiane. Teatro di parola, senza dubbio, e forse anche "narrativo", dal momento che è facilmente rintracciabile una "storia". Una donna, alla morte del marito, si sostituisce a lui, veste il suo abito logoro, va all’ufficio dove da anni l’uomo lavora nell’anonimato, e lentamente scopre, forse per caso, una vita che non conosceva. La donna, Renata, si confida con il barista-filosofo che le porta il vino, e a lui racconta, spiega, con lui si lamenta e si imbestialisce. Donna aspra, forte, vivace e appassionata, che dovrà anche confrontarsi con una giovanetta, amica del marito, di cui non sapeva l’esistenza. E tra le due donne si instaura uno scontro generazionale, politico, umano. Tra la militanza della prima e l’apparente passività della seconda, infatti, si erge il conflitto. Il testo, si diceva, avanza per andamento ambiguo, alternando lunghi e compatti monologhi alla Müller o alla Botho Strauss, a considerazioni sul mondo che potrebbero essere di Koltès, a dialoghi svagati da film minimal-quotidiano. Grande fiducia alle parole, comunque, che - afferma uno dei personaggi - si costruiscono uno "spazio in cui stare". E la regia di Waas, in uno spettacolo che ancora necessita di qualche messa a punto, ha scelto di accerchiare il testo, di non lasciargli scampo, di non concedere alcun realismo o patetismo di maniera. Tutto si sposta in un piano astratto, fortemente ironico, in una "destrutturazione" che però non rifugge dalla commozione. E Barbara Valmorin, ben affiancata da Fabio Bussotti e Federica Bern, è così una presenza significante e significativa: lei stessa è segno-vita di quel che racconta, di quella memoria, di quel credere "a qualcosa che non si ritrova più". La lotta di classe resta come una delle cornici vuote che invade lo spazio scenico, il contesto entro cui guardare ("esiste un uomo se nessuno lo guarda?" si chiede la donna) in un slancio di nostalgia per quel mondo come avrebbe potuto essere. E la ragazza, spensierata, leggera e intelligente come tante ragazze di questi tempi, nega il peso di quella "lotta dei padri" che non ha portato a nulla. Solitudini neanche troppo rumorose, insomma, vite di marginalità borghesi e normali, esistenze che riversano nel dire rancori e amori. Sguardi perplessi su mondi sempre più lontani: il cinismo è in agguato, e il vino, a volte non basta a far compagnia. Una nota a margine merita decisamente il Nuovo Teatro Colosseo, che, ancora in via di ristrutturazione, ha aperto i battenti proprio con questo spettacolo. A pochi metri dalla vecchia sede di via Capo d’Africa, Ulisse Benedetti, storico e a volte discusso protagonista della stagione felice dell’avanguardia romana, ha trovato uno spazio per continuare il suo teatro. Il vecchio Colosseo diventerà un cinema o un supermercato, ma il teatro si è reinventato in questo nuovo, curioso e affascinante ambiente, con un ampio palcoscenico cui il basso soffitto dona la suggestiva claustrofobicità di una scatola magica.