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Freud e il caso di Dora è stato rappresentato per la prima volta il 17 febbraio 1979 al Teatro Due di Parma, con Marinella Manicardi e Gianfranco Furlò, regia spazio scenico films e costumi Luigi Gozzi, composizione spazio scenico Severino Storti Gajani, musiche Gabriele Partisani, elaborazioni fotografiche Paolo Petrosino, realizzazione films Andrea Pavone, produzione Teatro Nuova Edizione/Teatro delle Moline. E' stato finalista al Premio Mondello di Palermo 1979.

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Intervista a Luigi Gozzi
di Maria Dolores Pesce

Professore, se non sono male informata, lei ha fatto studi classici ed il suo maestro è stato Luciano Anceschi. A questo riguardo vorrei sapere da Lei quando è nata questa sua, se posso dire passione, questo suo interesse, la sua decisione, insomma, di lavorare per e con il teatro ?

La passione o interesse è cominciata all’università. Anche un po’ per caso; ai miei tempi infatti esistevano attività culturali promosse e organizzate dagli stessi studenti, io ho cominciato così. Nei primi anni cinquanta, avevo circa 20 anni, con i miei compagni di università. La passione forse era nata prima andando a teatro, mi ricordo che andai la prima volta a teatro subito dopo la guerra, avevo dieci anni e vidi l’ultima esibizione, credo, o una delle ultime esibizioni di Ruggeri nell’ENRICO IV. Io vengo da una famiglia musicale, non di professionisti della musica, ma con grandi interessi, con grandi passioni musicali, e così, fin dall’adolescenza, sono andato a moltissimi concerti. Anche i concerti sono spettacolo.

Però quando ha deciso di dedicarsi professionalmente al Teatro ?

Uscito dall’università ho continuato a fare qualche cosa per conto mio. Devo dire però del teatro che allora si poteva frequentare, a parte alcuni mostri sacri come il Ruggeri di cui sopra, oppure, lo ricordo con interesse ed emozione, un grande attore oggi un po’ dimenticato, che ha recitato molto nella nostra regione, Memo Benassi, devo dire che il panorama del teatro di allora, parlo del periodo dal 55 agli anni 60, era piuttosto triste. Mi ricordo che quando mi presentai a quello che lei ha già citato quale mio maestro, Luciano Anceschi, lui ci rimase male: come potevo occuparmi di cose di teatro! quasi fossero argomenti deplorevoli. E Anceschi era uomo e studioso di grande intelligenza e apertura e dal suo punto di vista forse non era del tutto in torto. La sua era una posizione che aveva una ragion d’essere, di fronte aveva un teatro spesso da mestieranti e anche poco interessante; io ricordo di essermi annoiato spesso a teatro anche a spettacoli con nomi famosi, per esempio Visconti che mi è capitato di vedere parecchio. Il teatro bisognava, come sempre, andare a cercarselo : in quegli anni Streheler e il Piccolo rappresentavano un buon punto di partenza; il Goldoni e poi il Brecht di Streheler, ma si poteva vedere Becket in Francia prima che (non) arrivasse in Italia, e vedere Barrualt e Vilar, o Marceau. Oppure il Berliner. O straordinari talenti (poi persi, non so come) quali Planchon e Marowitz. Con queste spinte, con questi incentivi, ho continuato, ho fatto un po’ il saggista teatrale (sul Verri anceschiano).

Agli inizi degli anni 60 lei ha partecipato alla esperienza della Neo Avanguardia con il cosiddetto Gruppo 63. In particolare è stato uno dei protagonisti del convegno costitutivo del Gruppo tenutosi a Palermo appunto in quell’anno. In quella occasione, insieme a Ken Dewey, ha allestito e diretto la rappresentazione di 11 atti unici 1), alcuni scritti per l’occasione o per l’occasione rielaborati da testi preesistenti, di altri partecipanti al Gruppo. A questo proposito vorrei sapere da lei come è nata l’iniziativa e, in particolare, se i testi erano stati scelti e già consegnati a lei anticipatamente oppure solo all’apertura del convegno ?

Preciso : non sono stato uno dei protagonisti del convegno del Gruppo 63. Ho messo in scena sette o otto, mi pare, delle 11 piccole pièces in un unico spettacolo che fu rappresentato a Palermo nel corso della prima serata del convegno. I canoni dello spettacolo, le procedure della messa in scena, furono sostanzialmente piuttosto rozze : mi fu affidata una serie di piccoli testi che io cercai di mettere insieme in qualche modo. E c’era senza dubbio qualche testo interessante e compiuto, c’erano tentativi stimolanti di usare in maniera inconsueta la scrittura drammaturgica. Però il teatro che seguì quello degli anni ‘65/’70 e, di seguito, che fu importante, e sarebbe bene ricordarsene più di quanto a volte non si faccia, non ha molto a che fare con l’esperienza del Gruppo 63.

Gli attori chi erano ?

C’era Piera degli Esposti e due ragazzi della mia compagnia di allora che poi hanno smesso. Le compagnie che io ho praticato sono state compagnie che nel tempo si sono fatte e disfatte, con persone che poi hanno preso, ciascuno, strade diverse. Anche quando hanno continuato brillantemente come Piera.

In Europa, soprattutto in Germania, esiste la figura del Dramaturg che o riscrive testi preesistenti, o scrive testi, “per” il teatro, che in Italia è assente. Lei intende una figura di questo genere ?

E’ vero in Italia è assente, totalmente. Anche se penso che non esista una strada sola per la drammaturgia. Il Dramaturg è una delle strade possibili, una delle strade che possono essere praticate. E forse non sarebbe male che questa figura fosse presente anche da noi, anche in modo professionale o ufficiale, come succede nei teatri tedeschi.

Certo c’è sempre stato da parte degli scrittori, degli accademici, un modo di rapportarsi al teatro un po’ troppo leggero, scarsamente impegnato, quasi che il prodotto teatrale fosse opera meno importante, meno impegnativa del romanzo o del saggio. Questa situazione, pur come dice Lei in fase di evoluzione e cambiamento, è stata ed è, diversamente da quanto è successo in Europa ove il teatro di regia cominciò ad affermarsi nel primo dopoguerra, nella genetica del teatro e della cultura italiana in genere e tende spesso a riproporsi e riemergere. Secondo Lei, anche come docente universitario, c’è una, o più cause, a fondamento di questo atteggiamento dell’intellettuale italiano nei confronti del teatro ? Possiamo tentare una analisi di un modo di pensare, a mio modo di vedere, inspiegabile sotto certi aspetti ? Come possiamo tentare di capire ?

E’ molto difficile individuare cause precise. Si può tentare di fare un elenco. Innanzitutto la condanna crociana. La cultura italiana nel primo cinquantennio del secolo è stata in larga parte di stampo idealista, e Benedetto Croce aveva espresso la sua condanna dell’attività scenica, dicendo esplicitamente che ciò che conta, che ha valore estetico è la drammaturgia; il resto, la messa in scena, non appartiene alla cultura. Certo le cose sono cambiate, ma ci è voluto del tempo. Quella che viene chiamata la cultura materiale, ad esempio l’arte decorativa o l’arte applicata a cui forse appartiene l’attività scenica non veniva presa in considerazione : chi se ne occupava, chi la studiava? L’accademismo italiano non prendeva in considerazione l’attività scenica, che è cultura materiale. Questa è una delle ragioni di fondo, poi naturalmente ci sono altre ragioni : la tradizione del grande attore, la scarsa diffusione della lingua, la lingua italiana che, nel dopo unità, stentava tanto a diffondersi, fino ai nostri giorni. Di qui il ritardo storico della nascita della regia italiana, la scarsa attenzione a fenomeni e personaggi di grandissimo rilievo. Si pensi a Pirandello che solo in Germania e in Francia ebbe il riconoscimento che gli spettava. E così in buona parte è successo a drammaturghi come Eduardo e Fo.

Lei insegna al DAMS di Bologna, precisamente Metodologia e Critica dello spettacolo. Quindi in un certo senso è riuscito a sintetizzare, mantenendole unite, le sue scelte culturali : da una parte la sua funzione accademica e di studio all’interno dell’insegnamento universitario, dall’altra la sua attività artistica, come regista, drammaturgo, impresario ed anche attore, seppure solo qualche volta. In lei dunque si è verificata quella sintesi che Lei, mi pare, auspica si diffonda maggiormente; in concreto che, in questo modo, venga superata anche la divisione attuale tra studi e cattedre, tra drammaturgia ed istituzioni di regia, tra studio e pratica del teatro. E’ difficile, per Lei, tenere insieme questi ruoli ? O, in altre parole, una qualche divisione le viene imposta dal contesto quando è docente rispetto a quando è uomo di teatro ?

Bisogna riuscire evidentemente a trovare un rapporto, un canale tra l’una e l’altra. Naturalmente il pubblico, gli altri, si presentano in maniera diversa facendo teatro e facendo il docente universitario. E gli altri sono sia quelli che hai davanti, sia quelli che hai al fianco e alle spalle, i colleghi, perché anche nel teatro esistono i colleghi e può andar bene questo orrendo termine burocratico. Evidentemente allora si può parlare di come è cambiato il DAMS, ma nel contempo bisogna parlare anche di come è nel frattempo cambiato il teatro. Il DAMS è una strana creatura, era all’inizio eterogeneo, cioè si era raccolto (parlo del DAMS teatro perché nelle altre sezioni le cose sono andate un po’ diversamente ) chi c’era dal teatro ufficiale (io allora ero assistente di Squarzina) e dal teatro non ufficiale. E si era messo insieme un gruppo di persone che sostenevano e praticavano diverse idee di teatro. E teniamo conto anche che gli studi teatrali e di spettacolo erano molto scarsi. Oggi la situazione è molto semplificata, c’è una maggiore omogeneità che è naturale, perché i nuovi studiosi e docenti vengono man mano formati sulla base di un certo indirizzo; e la cosa si va ripetendo nei nuovi DAMS, che giustamente dopo tanti anni vengono istituiti in altre università.

Tornando invece alla sua attività come regista, drammaturgo, impresario, mi risulta che Lei ha allestito più di trenta spettacoli nel corso della sua attività. Questi testi sono molto diversi l’uno dall’altro, ma tra questi ve ne sono alcuni, penso a “Il caso di Dora” o ad “Anna O”, con spiccato interesse a temi psicanalitici di stampo freudiano. Mi vuole dire qualcosa di più circa la scelta di questi testi, in particolare il perché di Anna O oppure di Dora ? Insomma perché e come la psicoanalisi a teatro ?

Pare che siano ormai più di quaranta gli spettacoli che ho allestito (non li ho mai contati) e l’ultimo, recentissimo, è stato L’ARMONIA UNIVERSALE su Mesmer, e gli inizi della psicologia dinamica, che è poi l’ultimo di quel ciclo di spettacoli, Dora e Anna O soprattutto, dedicati alla psicologia. Per tornare alla domanda, credo sia per due ordini di ragioni, la prima è un interesse alla esposizione di vicende e storie che trovo affascinanti, la seconda è che sono convinto che un certo di cultura, diciamo dell’area anche se non freudiana in senso stretto, sia uno dei modi più in realtà efficaci di esporre la realtà che viviamo. La ragione è poi una sola, perché credo che rappresentare queste vicende sia significativo, altre non lo sono. Altre non sono molto forti anche dal punto di vista della rappresentazione. Credo che la scena debba avere dietro un modello di luogo, di situazione al quale guardare : beh ! il modello, secondo me, al quale guardare è il divano psicoanalitico, uno dei modelli interessanti, che mi ha interessato, di nuovo uno di quelli nel quale il mio interesse poteva coincidere con quello del pubblico, diciamo, o degli “altri” ; un punto di incontro tra ciò che mi interessa, e ciò che può interessare che mi sta a sentire. Vera rappresentazione di quel nodo, di quell’elemento, la transferalità, la suggestione, quel tanto di ricerca del vero e dell’inganno infausto che è contenuto dentro questo nodo; altre verità, altre falsità non mi interessano, anzi credo che siano anche poco autentiche. Se ci occupiamo delle cose che già altri hanno assorbito, allora non scopriamo niente di noi. Se però la scena deve essere qualcosa in cui avviene questo processo di identificazione di un nodo importante, io dico che, sì, avviene secondo me, avviene tuttora. E allora su questo ho lavorato parecchio, ho fatto altri spettacoli che affrontavano più marginalmente il tema.

Ad esempio quali ?

Ad esempio ho fatto qualche anno fa uno spettacolo che si chiamava “Santità”, che è uno spettacolo su Santa Teresa del Bambin Gesù. Non era molto edificante/religioso, ma tendeva a cogliere l’elemento di genere della rappresentazione, nel luogo che poi era il convento. Poi, percorrendo gli ultimi venti anni, c’è stato un ritorno all’interesse per la drammaturgia, che forse, per alcuni anni ho praticato meno, e poi anche un diretto investimento mio nel fatto che ho deciso, e ci ho messo molto tempo, a fare il drammaturgo. Cosa che all’inizio, e non solo all’inizio ma anche per parecchio tempo, non ho fatto.

Quando ha cominciato ? In che anno ?

Nel 1974/75 come altra avanguardia italiana, ho affrontato Shakespeare e ho rappresentato un “Otello” del tutto particolare. E’ stato in quell’occasione che manipolando il testo shakesperariano aggiungendo, togliendo mi sono accorto che mi piaceva, mi interessava e così non ho più smesso, anche se ho messo in scena altri testi come ad esempio, subito dopo, Strindberg che io amo molto.

Pur amando così Strindberg, come mai non lo ha mai più messo in scena ?

Per ragioni così semplici che possono sembrare persino banali : avessi avuto uno Jean interessante avrai sicuramente fatto “La Signorina Giulia”.

Ho letto una sua intervista in cui Lei ha dichiarato che l’attore quando è in scena, paradossalmente, deve essere se stesso e deve lavorare, in particolare, sui suoi difetti. Mi vuol dire qualcosa di più al riguardo ?

Che debba essere sé stesso non c’è alcun dubbio, d’altra parte come farebbe ad uscirne; il sé stesso è una cosa larga. Chiunque decida di fare l’attore, di recitare è meglio non riduca il suo lavoro ad un insieme di stilemi o di formule, è un errore, è una limitazione se non altro. E’ più interessante cercare, attraverso le occasioni che si presentano, di ritrovare nel ruolo, nel personaggio (termine che non amo perché sempre intriso di psicologismo) sé stessi; e scoprire le proprie risorse come una continua esplorazione, nella quale vengono presi in considerazione anche i difetti, i limiti, le caratteristiche che vanno a costituire la persona.

E farne dunque, Lei diceva, un elemento scenico.

Non c’è dubbio che tutta questa esplorazione debba diventare un elemento scenico. Se l’attore è capace di esprimersi, e qui c’è un vero e proprio salto, se riesce, si apre un grande ambito di esplorazione che riguarda il sé. E in questa esplorazione l’attore non può non esplorare i propri difetti; ma non per emendarsene, ma metterli in gioco o in campo, e questo può essere anche esaltante. Naturalmente un attore non può ignorare che agisce sulla base di elementi di convenzione, ma questi elementi di convenzione devono essere a maglie sufficientemente larghe per consentire di metterci dentro tutto quanto l’attore riesce a ricavare da sé stesso, come propria risorsa, compresi i propri difetti. Altrimenti succede che nella crescita, nello sviluppo, nella storia di un attore ci siano dei blocchi, delle censure per cui una certa parte di sé, non viene fuori, non si esprime e l’attore è come se non riuscisse a mettere in gioco una parte di sé. Per questo è importante lavorare insieme più che si può e con continuità, anche se non è detto in assoluto, poiché possono essere sbagliati anche i rapporti eccessivamente lunghi. Ma comunque, credo, è poco produttiva la situazione dell’attore precario, una volta qua e una volta là.

A proposito di questo Lei ha una compagnia di attori fissa, oppure occasionale ?

Non ho una compagnia, ho avuto molte compagnie perché è difficile dare continuità a una compagnia. Le difficoltà maggiori sono di ordine economico, gli attori che lavorano con me, che spesso sono dei giovani, hanno ambizioni, vogliono, giustamente anche, guadagnare. Poi ci sono stanchezze (anche reciproche), abbandoni. Quello dell’attore non è un mestiere facile. Credo comunque che sia importante lavorare con gli stessi attori per lo meno per lunghi periodi e faccio di tutto per riuscirci.

Attualmente Lei ha una collaborazione ……

Ho una collaborazione con una attrice da tanti anni, Marinella (Manicardi) è anche mia moglie. Ho avuto attori che hanno lavorato con me per cinque, sei, sette anni; ora siamo in una fase di passaggio. Ho riunito alcuni ragazzi che mi interessano e vorrei lavorare un po’ con loro, poi vedremo, dipende da tante condizioni, curiosità e interessi. Tra l’altro è un brutto mestiere, ancora trattato male, molto male.

Ancora adesso, ancora questi pregiudizi….

Non so se si tratti di pregiudizi, è certamente oggi una attività poco valutata, e per la quale spesso si tiene poco conto delle reali capacità, per non parlare del livello culturale che è sempre più necessario. Ovviamente il giovane che un po’ annaspa per sopravvivere ha poca scelta, e tutto questo in un quadro di prove confuse, rinvii che non consentono un impegno più serio; e poi c’è la pubblicità, la televisione…

Nel teatro contemporaneo c’è dunque una scarsa possibilità, al di fuori dei circuiti pubblici, di trovare opportunità, finanziamenti e spazi. Oltre a ciò, credo, ci sia una certa difficoltà nell’interessarsi l’uno del lavoro dell’altro. Lei cosa ne pensa ?

E’ un atteggiamento largamente diffuso. Io credo che in gran parte derivi da una povertà di fondo; anche di mezzi, e questo è sbagliato. Da un continuo rincorrere le cose in una maniera un po’ costernata, un po’ eccessiva. Questo è un teatro povero, che spreca ma che è povero, e un po’ lo fanno più povero di quello che è. Poi ci sono le particolarità italiane e il fatto che non ci sia una storia del teatro italiano degli ultimi cinquant’anni; ci sono tante storie, diverse, quindi tanti ambiti che non presentavano elementi di osmosi, oppure erano scarsi. Tutto questo, con le ovvie eccezioni, nella sua generalità ha fatto sì che ognuno bada ai fatti suoi senza avere una visione più larga della situazione e delle prospettive.

Non è un po’ limitante, deprivante, tutta questa autoreferenzialità ?

Assolutamente, tanto è vero che ogni tanto qualcuno se ne accorge e prova a correggere il tiro, ma il difetto rimane vivo e operante.

Infine, vuole farsi da Lei una domanda ? C’è qualcosa che vuole puntualizzare, qualcosa che non le ho chiesto o che Lei vuole aggiungere ?

Abbiamo fatto una strana chiacchierata che è andata da tutte le parti, a Lei il compito di raccoglierne i diversi elementi. D’altra parte che siano abbastanza sparsi a me non dispiace, perché dà l’immagine della situazione variegata per non dire confusa che noi oggi, da un certo punto di vista, non possiamo non vivere. Io penso che viviamo non riuscendo a mettere in gioco, a trattare un sacco di cose; non trovando, in altre parole, il modo, il canale per riuscire a dirle. Questo, al di là di problemi a volte contingenti, ma anche per inattitudine; io questo lo soffro abbastanza. E’ come se ci fosse intorno molto di non detto (mentre naturalmente altre cose, altri argomenti vengono ripetuti incessantemente). Io per esempio posso fare le scelte che voglio, più di tanti altri, da questo punto di vista, faccio molta fatica, ma sono abbastanza libero. Però ho notato che ci sono degli argomenti, o dei nessi, dei significati, che poi non sono misteriosi o difficili o stravaganti, ma anzi abbastanza affioranti che è difficile dire, che è difficile fare entrare nelle cose che si fanno : spettacoli, scritti o discorsi. Lo dico anche perché Lei diverse volte mi ha chiesto perché certi filoni di ricerca, perché certi argomenti ritornanti. Certo uno ha una sua storia, procede da un punto all’altro, però questo è anche restrittivo. Non gli è consentito buttare tutto all’aria. Detto con altre parole mi piacerebbe cambiare molto di più e mi riesce profondamente difficile. La difficoltà viene un po’ dagli altri, un po’ anche da me stesso. Prima ho detto una cosa che vorrei correggere, non mi piace la coerenza, ad un certo punto mi annoia, non vorrei annoiarmi da solo.
Le interviste sembrano non dover finire mai ed in effetti, paradossalmente, non finiscono; ancora di più questa con Luigi Gozzi.
Ci siamo messi in cammino, io affiancando per brevi momenti un più lungo cammino. E’ il teatro come luogo di conoscenza, luogo in cui non si rappresenta un qualcosa ma lo si cerca.
Lo cerca il regista, lo cerca l’attore e lo cerca il pubblico. Nella scena si prova la sintesi di un comune interesse che può fondarsi solo sulla conoscenza – meglio sul tentativo di, sullo sforzo di – di sé stessi.
Ecco che il problema del rapporto tra scrittura e scena può inquadrarsi nella eccessiva ricerca di finitezza, completezza della scrittura letteraria, attraverso la quale l’intellettuale non si mette in gioco, spesso non cerca ma sa, o crede di sapere.
La scrittura deve dunque aprirsi alla problematicità dell’incontro con gli altri, nella scena. I modi che Luigi Gozzi ha cercato sono diversi, sparsi come dice lui, a noi il tentativo di seguirne e scoprirne il percorso.
Ritorna tra questi, ancora una volta, il tema, anzi il problema del Dramaturg, come soggetto, in questo caso, che spinge, opera verso la riapertura del discorso – sia esso testo letterario o soggetto specifico – attraverso la sua rappresentazione; attraverso la sua messa in gioco sulla scena, nell’incontro con gli altri, il pubblico.
Anche l’attore, nelle parole di Gozzi, va forzato a mettersi in gioco in quanto sé stesso, in quanto elemento imprescindibile nello sforzo di conoscenza, nel viaggio “alla scoperta” che, credo, è il Teatro quale lo pensa Luigi Gozzi.
A lui non piace la coerenza, lo annoia, infatti, nella misura in cui è limite, ostacolo, alla scoperta, al buttare all’aria ciò che siamo e sappiamo per scoprire, appunto, ciò che siamo e sappiamo.
Luigi Gozzi ha creduto in dramma.it fin da quando è comparso sul web. Questa novità di rendere disponibili a tutti i copioni dei drammaturghi italiani gli piaceva molto. E gli piaceva anche che ci fosse uno spazio, davvero alla portata di tutti, dove chi scrive per il teatro fosse protagonista. Segnalava instancabilmente a tutti i suoi studenti la libreria di dramma.it e la raccolta di saggi, articoli e recensioni. Riteneva questo sito così utile che talvolta, parlando di questa risorsa che sfruttava nella sua attività parlava di: "era dramma.it". E Luigi Gozzi è spesso intervenuto direttamente con collaborazioni, consigli e sostegni di diverso tipo alla nostra attività. Le cinque edizioni del convegno "Scrivere per il teatro" (tra il 2000 e il 2004), organizzate dal suo Teatro delle Moline, hanno rappresentato altrettante tappe fondamentali per la crescita e l'affermazione di questo sito. Per questo, adesso che non c'è più, dramma.it vuole dedicargli uno spazio particolare. E lo fa sia nel modo più consono alle sue abitudini, cioè segnalando come dramma del mese il suo testo più noto, sia ospitando il ricordo ed il ringraziamento di alcuni suoi amici.

Grazie Luigi

da Marcello Isidori
Luigi Gozzi non è più tra noi. Il fondatore del Teatro Nuova Edizione (Teatro delle Moline) di Bologna, il direttore artistico, il drammaturgo, il regista, il professore universitario ma soprattutto l'amico, ci mancherà terribilmente. Quello che ha lasciato nel cuore, nell'anima e nel cervello di chi ha avuto la fortuna di conoscerlo non morirà mai. Grazie di tutto...

da Maria Dolores Pesce
Poco più di due anni orsono abbiamo festeggiato, insieme a Luigi e a Marinella, i trent’anni del Teatro delle Moline, luogo fisico e luogo drammaturgico in cui Gozzi ha tentato e voluto coltivare e sviluppare la sua passione per il teatro. Ora, da pochi giorni, Luigi se n’è andato. Queste poche righe non vogliono essere la cronaca dell’omaggio che chi l’ha conosciuto, per una vita o per pochi momenti, gli ha reso il 23 settembre proprio nel luogo in cui più ha lavorato, né tanto meno vuole o può essere un semplice ricordo “celebrativo”, non solo perché credo che Luigi ne avrebbe riso e mi avrebbe deriso, ma soprattutto perché per me, come per chi gli era prossimo o più vicino ancora, il senso della sua perdita è troppo intimo, o il dolore ancora troppo recente, per trovare spazio in uno scritto. Al contrario vogliono essere l’occasione per parlare ancora una volta, e non sarà l’ultima ne sono certa, della drammaturgia, anzi delle drammaturgie di Luigi Gozzi, del suo modo di concepire il teatro, il fare teatro, della sua capacità di intercettare sulla scena i testi che amava e del suo particolare rapporto con gli attori, con l’idea stessa della professione attoriale che costituiva, credo, una peculiarità delle sue messe in scena. L’occasione per parlare di lui non come se fosse vivo, ma perché la sua impronta, la sua qualità artistica e umana in quelle sono vive e vitali. In tutto questo si scioglie la mia esperienza personale, il mio rapporto con Luigi Gozzi che dall’iniziale ruolo di studentessa e “discepola” si è man mano arricchito ed articolato fino a diventare, non solo scambio reciproco, ma qualcosa di assai simile alla, anche se ho pudore a scrivere la parola, amicizia. Allora, poiché l’intimità di questo rapporto mi appartiene e ne sono gelosa, credo sia giusto per ribadire ancora una volta a tutti chi era Luigi Gozzi e, molto semplicemente, cosa faceva nel teatro e per il teatro, riproporre alcune considerazioni che ho sviluppato nella celebrazione, lui vivo, di due anni fa. Luigi Gozzi non voleva ringraziamenti e io non gliene farò, ma credo di aver molto imparato nel contatto con il suo teatro. Un teatro costruito su “una scrittura scenica che, a mio parere, ha la sua cifra prevalente nella capacità di disperdere il testo, di dissolverlo nascondendolo nel transito/peripezia degli attori sulla scena, transito tanto rigorosamente studiato quanto apparentemente spontaneo. Una cifra dunque che sa interpretare in maniera profonda la particolarità della scrittura scenica, che non sta, lo ha insegnato anche l’esperienza del Gruppo 63 che Luigi ben ricorda, nella rigorosità sintattica, apprezzabile nella sola lettura, ma nella sua capacità fisica e cinetica del transito in scena, nel suo fondersi nel e con il corpo degli attori. Questo fa del teatro di Gozzi, in questi trent’anni di esperienza alle Moline, un teatro mai neutrale ma che richiede, anzi impone, prima agli attori e poi al pubblico una presa di posizione che diventa complicità e si attiva nel momento stesso della messa in scena, quando, lo dice Gozzi stesso, il drammaturgo abbandona la sua creatura, quasi non ne fosse più madre ma levatrice, sul corpo dei suoi attori e agli sguardi del suo pubblico. Molti pensano che questo particolare rapporto con il suo pubblico sia facilitato dalla stessa struttura fisica del teatro delle Moline, che qualcuno ha definito una oscura bomboniera, sorta di stanza di suggestioni inconscie, per la vicinanza materiale tra pubblico e attori, io credo invece che, tale modalità, esista all’interno delle drammaturgie di Gozzi e che il fatto che il suo teatro non disponga a tempo pieno di spazi più ampi, non sia merito di Luigi ma colpa del modo in cui il teatro è organizzato in Italia.” Non penso di poter aggiungere nulla a quelle recenti parole sull’attività teatrale di Luigi Gozzi che già da tempo combatteva con la sua malattia, e per chi volesse riconoscere e ripercorrere quella storia consiglio il bel testo “TRENT’ANNI DOPO: IL TEATRO DELLE MOLINE” edito nell’occasione e stampato da EDISAI di Ferrara. Ma non solo, mi piace qui segnalare anche l’ultima fatica di Luigi Gozzi “per” il teatro, e cioè “L’Almanacco 2005” da lui curato e dedicato a “Il teatro del racconto”, per le edizioni Portofranco de l’Aquila dirette dal fratello Alberto. Per quanto mi riguarda, però, voglio ancora una volta coltivare la sensazione della sua vicinanza, viva e vitale, e per questo concludo riproponendo un colloquio/intervista (pubblicata qui a sinistra), a suo tempo pubblicata sulla rivista PAROL On Line, concessami, sono ormai svariati anni, da Luigi all’inizio della mia peripezia di studiosa innamorata del teatro. Questo è infatti un ricordo che voglio concedermi a lungo.

da Giuseppe Manfridi
Debbo qualcosa a Luigi Gozzi, è questo qualcosa è molto. Davvero molto. Gli debbo una bellissima regia del mio ‘Zozòs’; gli debbo la pubblicazione di ‘Giacomo, il prepotente’; gli debbo tanta curiosità esegetica per il mio lavoro, e alcune tesi di laurea che su di esso ha assegnato presso la sua cattedra. Questo è quel che gli debbo in termini assolutamente egoistici. Come uomo di teatro, come lettore, come spettatore, gli debbo né più né meno il suo teatro, che frequento e conosco da quando mi sono affacciato al mondo della drammaturgia. Un teatro ardito, esplorativo, geniale. Ai suoi testi torno spesso, e nella mia libreria hanno il posto riservato ai libri da tenere costantemente sotto mano. Poi, di là da ogni reverenza culturale, rimane forte il ricordo di un uomo esemplare che ho potuto avvicinare in spicchi di quotidianità sufficienti a farmi rimordere dal pensiero che, stando lui a Bologna e io Roma, la nostra confidenza non ha potuto tradursi in una costante occasione di confronto per le nostre reciproche vite. Ma gli ho voluto bene e glie ne voglio. Tutto ciò che gli ruotava attorno meritava tanta considerazione quanto affetto. Quel teatrino, innanzitutto. Quella gemma che è il Teatro delle Moline. Poi, i suoi compagni di lavoro, tutti irretiti da lui, e la sua splendida complice in tutto, Marinella Manicardi. La scomparsa di Luigi Gozzi mi lascia con ciò che mi ha dato, e col rammarico di quanto poco io abbia potuto contraccambiarlo.

da Paolo Puppa
Ti ho voluto bene Luigi, da sempre. Anche quando avevi la salute, e le tue gambe funzionavano a pieno. Ti vedevo muoverti tra le penombre del teatrino fasciato di nero, alle Moline, una calletta nel cuore della Bologna d’antan, tra aromi di ristoranti a buon prezzo e la polvere sollevata dalle macchine di passaggio. Parevi un alchimista medievale, alle prese con alambicchi, astruserie luminotecniche, strategie del tuo repertorio simbolista-surrealista rivissuto colla cadenza ironica del neopositivismo laico e disincantato del gruppo ’63. E i giochi linguistici, i calembours di cui eri maestro in un umor inventivo e saturnino, lasciavano zampillare di continuo motti e moti di spirito. La tua biblioteca era vasta e senza confini o gerarchie interne. Da lì, prelevavi spunti per le tue drammaturgie alla seconda potenza, con spostamenti ludici e luddisti, dal Freud dei casi clinici al Lombroso delle febbri criminali, dal Mesmerismo ai ricettari dell’Artusi, dal Goldoni mentitore dei Mémoires giovanili al Pagliarani rielaboratore di copioni scientifici. In più, alle spalle di questa metadrammaturgia professorale, riverberava quella tua propria, dove pulsioni private, ossessioni, speranze e indignazioni si stemperavano in un dialogismo o monologismo dai ritmi raggelati e carichi di un algido ressentiment contro la società e contro la vita, un’entropia di senso recuperata dalle prime avanguardie e ricollocate in un territorio ‘post’. Il tutto però sempre mantenuto in un poco italiano understatement, arte della sottrazione in cui eri ormai un autentico modello di riferimento per autori, giovani o maturi. Vicino a te palpitava e vigilava la tua compagna, una giovane Ninfa Egeria dalle singolari affinità col tuo esserci nel mondo, Marinella Manicardi, alla cui voce scandita tra note passionali e registri beffardi, tendevi ad adeguare la tavolozza registica e scritturale. Ho partecipato per anni, con entusiasmo, a certe serate magiche alle Moline, quando ancora si sperava in qualche modo nella centralità della ricerca sperimentale e nel diritto della stessa ad essere protetta dalle Istituzioni. Poi è arrivata la malattia, di difficile diagnosi all’inizio, con cui hai convissuto e lottato con sobrietà vietandoti, almeno in pubblico, qualsiasi cedimento emotivo, e non rallentando la produzione di meneur du jeu scenico e di commediografo. Fin che hai potuto. Ma negli ultimi tempi ci siamo allontanati uno dall’altro. E allora ti ho amato ancora di più, proprio per non poterlo manifestare. Mi ripromettevo però, appena avessi trovato l’opportunità, di andarti a stanare e provare a riabbracciarti, pur consapevole della difficoltà del tuo carattere di ‘rustego’ felsineo, incattivito giustamente colla sorte che si era divertito a bloccarti progressivamente la libertà del corpo. Invece, ecco la notizia che te ne sei uscito di scena, quasi in punta di piedi. Una delle mie insistite perorazioni con te, ricordi?, era quella di aiutarti a raccogliere i tuoi tanti copioni, in un’opera editoriale esaustiva, perché non si disperdesse negli archivi del teatro o nei faldoni privati il tesoro delle tue invenzioni, che univano per miracolo un’insolita stratificazione culturale a una leggerezza di timbro, un’agilità ariosa quasi mimetica dello sporco conversevole. Anche perché le tue battute se ne stavano volentieri nella bocca dei tuoi interpreti, e chiedono oggi, sussurrando la richiesta secondo il tuo stile, di essere salvate. Lo chiedono con caparbia umiltà. Forse sarebbe l’ora di pensarci a realizzare questo nostro debito con te. Ciao, vecchio mio.

da Daniela Pandolfi
Ma non è solo per affetto, caro Luigi, che non è facile sentire che non sei più su questo assurdo pianeta….(sempre che ciò sia vero e corretto: mentre ti scrivo, qui, quel tuo sguardo ironico mi balugina un po’ dappertutto...). Forse anche un pò a causa tua, mio caro Prof, ci siamo voluti illudere che i tuoi malanni fossero sotto controllo, pur conoscendo l’enorme fatica che ti poteva costare questo farti ritrovare, nel tempo, ostinatamente lucido, attento, concentrato su progetti energici e sempre un po’ più intelligenti tra quelli intelligenti. O, se preferisci, ritenuti tali (e con un divertito sorriso di resa) da persone che un po’ più intelligenti sono sempre state. Marinella al tuo fianco, la costanza dell’affetto e dell’affinità con le tue figlie, i tanti amici intorno a te, lasciavano pensare che, malgrado tutto, la tua esistenza fosse avviata su un percorso combattuto, ma sgominabile… Questo è quanto soprattutto è stato possibile pensare. Arriva come un colpo basso questa tua scomparsa a fine estate, accompagnata da un autunno precocissimo, che annuncia senza incertezze la fine di un clima. Il tuo clima temo: irripetibile. Si è sentito, lì alle Moline, sotto al tuo ritratto, accanto a Marinella commossa e ospitale, in mezzo ai tuoi cari serenamente disposti, ai tuoi amici amabilissimi e speciali, si è sentito, che lì c’era una forza di affetti inaffondabile. Una compagine di sentimenti che voleva accompagnarti, fosse ben chiaro, dovunque ti stessi avviando…..Una situazione mai vista: sognata, leggendaria…Che razza di persona può mai suscitare tutto questo? Un regalo per chiunque ne fosse partecipe, davvero una speranza sulle possibilità di esistenza del “bene” in questo mondo malmesso…Ma anche si è sentito, come un punto di sospensione, come un interdetto.. Paradossalmente il tuo ritratto al meglio ti ha fatto onore in modo rovesciato…Come restituire la felicità dello stato di vibrazione impresso al gruppo dalla tua presenza, il suo potere di coinvolgere, stupire, costringere a sorridere, con un muto sguardo, un cenno impercettibile della testa, una domanda spiazzante, che lasciava indovinare una mole inusitata di informazioni critiche, propositive, emozionanti…e sotto a quelle la tua latente bontà? Scopro così che l’istantanea non ti pertiene: spiacenti, Barthes, desolati, maestri delle camere chiare, il fascino di questo signore qui è sempre stato un fascino mobilissimo, anche quando alla sua figura atletica toccava di reagire agli assalti della malattia: un signore grande, un gigante, un po’ irrigidito? Regale. Un po’ piegato? Spalle assertive, capo scattante, sguardo implacabile e giocoso… Perché il rapporto ribaltato quantità-leggerezza, immobilità-movimento è un rapporto che ti riguarda, Luigi, in un modo che tuttavia dà esultanza e commuove: è un modo di indicare un cammino ben oltre i limiti convenzionali, che dei limiti tiene conto solo per misurarsi con quelli e fare di meglio e di più. E’ soprattutto per questo che di te ricordo con gioia il momento degli esami al Dams di Bologna e le prove a teatro. Un privilegio queste ultime, spettacolo nello spettacolo, quando l’affiatamento e l’affinità con Marinella producevano sotto i miei occhi estasiati mille ipotesi ravvicinate, fotogrammi fugaci di possibili interpretazioni, dietro ognuna delle quali c’era la costruzione fulminea di tutto un orizzonte. Fulminea: l’ho gia detto almeno due volte, non so prescindere da questa velocità pensando a te. E forse a te con Marinella, pronta, vivacissima, percettiva: un capitale inestimabile la vostra lunghezza d’onda. Ma degli esami al tuo fianco conservo un ricordo vivo e personalissimo di cui ti ho anche scritto. “ Te l’ho sempre detto, ma anche adesso, quel che rimpiango di più è quel tuo “sapere” divertito e divertente, fatto passare più con l’ironia che con la severità corrusca, tra colpi di tosse e nuvole di fumo. Atmosfera di levità dal gusto calviniano. Ho scoperto con te che il professore più amabile in cattedra è quello che continua lì la sua regia. Sdrammatizza, con fare distratto e curioso, (dov’è la tesina dov’è? Ma guarda le mie…ops… senza filtro, boh! Una penna…cough cough) la tensione dello studente angosciato. Oppure fulmina sulla porta con sguardo sornione (mumble) l’ingenuo/a che se la svigna credendo di essersi conquistato l’esame con poco sudore. Non ho ancora trovato un modo più sottile per aprire un varco al senso di responsabilità rimosso”. Ma non sei soltanto questo fantastico insegnante Luigi. Proprio qui, su questo sito dal quale ti saluto, c’è un tuo lascito importante e geniale, dal quale sono rimasta saggiamente scossa..tu lo sai…”Le tue 60 Avvertenze: ancora una volta leggerezza e nostalgia: ricordo nitido delle tue lezioni. Scivoli con naturalezza sulla complessità complessa senza esitazioni e mi porti in cordata sull’Everest, mentre di mio ho solo faticosamente risalito il Cimon della Pala. Non ho parole per dirti grazie per la grandezza e il divertimento. Ricordo di essere scivolata su due agganci seri: “ il comico è fondato sulla mancanza di retroazione “. (Oh perbacco sono ancora lì che mi dibatto nel vuoto, mi manca tutta la terra sotto ai piedi). Azzardo maldestramente: vuoi dire che il comico si fonda su qualcosa di più o meno bonariamente irreparabile? Sul genere gaffes o conflitto di frames? Help, aiuto, sos. E poi : “ipotassico e paratassico”. Mai sentiti. Rimossi? Consulto (nel segreto più assoluto e pavido) il vocabolario e approdo a risultati eccellenti sul solido terreno delle “subordinate e coordinate”……Mi godo finalmente l’orizzonte che si formatta sotto i miei occhi: ho appena letto una garanzia d’acquisto fraudolenta che tutela il venditore (e non l’acquirente) con un balletto di passi di vuoto sintattico…Hai dato voce all’indicibile con una battuta sola …..Ecco qua che da ultimo nel tuo testo appari tu in persona. Ti sei fatto aspettare per sessanta avvertimenti, lasciando intravedere qua e là frammenti di te (un braccio michelangiolesco con dito indice opportunamente indicatore, uno sguardo acuto fra le nebbie, una barba serica e noncurante, michelangioleschi anche quelli, ma tu mancavi. Invece, finalmente, eccoti qua). ….Ma anche qui…proprio nella nota deliziosa e maledettamente intelligente dei bambini che giocano al calcio, scivolo giù e vedo sul fondo di uno strapiombo i miei piedi che cercano un appiglio…Mi dai da pensare su ciò che mi dai da pensare…. su ciò che mi dai da pensare e mi sento Topolino inseguito dalle scope nell’ “apprendista stregone” di Disney”. Con affetto Luigi e a presto, in qualche modo che si darà da sé...