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Ha il coraggio dei silenzi e della scena vuota il teatro di Pippo Delbono, che scardina ogni grammatica, proponendo uno spettacolo totale, da attraversare ogni volta. Come nella tragedia greca, lo spettatore entra nel dramma, alla ricerca di una catarsi con cui tornare a casa. “Dopo la battaglia”, che ha debuttato a Padova a maggio ed è passato da Roma (dove lo abbiamo visto) con una tournée che lo porterà tra poco in Francia, è un passaggio dentro l’esperienza. Il pubblico è condotto attraverso il dolore, l’isolamento, il delirio, la paura, l’urlo, per poter alla fine arrivare a guardare oltre, in una condizione “postuma”, di riconciliazione e superamento. Al termine di uno spettacolo di quasi due ore senza intervallo (ma sarebbe impensabile qualsiasi interruzione), l’autore-attore-regista ligure dedica l’opera a Bobò, il sordomuto analfabeta che ha vissuto cinquant’anni sepolto in un manicomio e che è diventato l’icona vivente del suo teatro. Con la purezza della non verbalità e il trasformismo per cui si identifica con il vestito che indossa, Bobò ha consentito all’uomo che ha affrontato il buio di ritrovare la luce, di risollevarsi, “dopo la battaglia”. Lo stesso accade allo spettatore, travolto da quello che nel programma di sala Delbono chiama un «teatro espanso», fatto di parole, corpi, musica, danza, immagini, luci. La scena, che sa essere tableau vivant ma anche spazio nudo, esplosione di colore e scatola buia, movimento e fissità, propone temi duri: dalla crisi economica e politica al vuoto della comunicazione, dal dramma delle carceri a quello degli ospedali psichiatrici, dalla guerra alla tragedia dell’immigrazione. Il pubblico è immerso in un’azione che non sembra mai rappresentazione e che lo investe con la fisicità dei corpi in movimento e con la violenza di immagini proiettate su uno schermo gigante. E se l’effetto cinematografico imita il filtro televisivo con cui siamo abituati a conoscere il reale, incapaci di farne esperienza fino in fondo, la parola poetica – di Alda Merini e di Dante Alighieri, di Pier Paolo Pasolini e di Rainer Maria Rilke – offre una risposta agli interrogativi più drammatici che quelle immagini propongono. In uno spettacolo composto di quadri, tra loro dialoganti, ma di fatto ben scanditi, la danza si rivela elemento unificatore. Che sia il balletto di Maria Agnès Gillot, o il Tanztheater di Marigia Maggipinto, la danza è l’unico modo per ritrovare uno squarcio di luce. Ed è nel suo fondersi con la musica, che “Dopo la battaglia” raggiunge i suoi momenti migliori: dal “Lago dei cigni” iniziale, in cui la perfezione geometrica e il movimento fluido sono accostati al grido di dolore, al “Va’ pensiero” in cui la scena immobile è tagliata solo dalla bandiera dell’Italia, agitata meccanicamente da Bobò, passando per il momento sublime del processo sulle note del “Macbeth”. Ma i ripetuti omaggi alla ricorrenza dell’unità – dalle bandiere alla musica di Verdi – sono smontati dal lamento dantesco (“ahi serva Italia, di dolore ostello”) e dalla presenza di Bobò, che non sa che cosa siano le celebrazioni, perché non conosce distinzione tra i giorni. Ed è nel silenzio di Bobò che il teatro di Delbono trova il suo linguaggio, per “urlare ai miei occhi, che smettano di fissare questo buio e per un minuto di vita riescano a vedere nel cervello piccoli fiori che danzano come piccole parole sulla bocca di un muto”.