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Luci al neon, pannelli bianchi e un’unica nota ossessiva accolgono lo spettatore. Immobili e assorti nelle loro fantasie asfissianti, nei deliri di onnipotenza, tre giovani aspettano che il pubblico arrivi. Buio in sala, e l’incubo ha inizio. La scena è subito invasa dai discorsi paranoici e aggressivi dei tre ragazzi che si fermano in un bosco per festeggiare la fine dell’anno scolastico, ma il bosco non c’è. La regia volutamente esclude la bellezza della natura, per mostrarci solo freddi giochi di legno, dove i giovani si arrampicano, saltano, corrono, per ostentare una forza che in realtà non hanno.  La loro mente è debole, i loro ragionamenti semplici, sono carichi di luoghi comuni schemi, motti. Sono prigionieri delle loro paranoie. Diffidenza, sospetto, manie di persecuzione sono i tratti che caratterizzano Keith, Anders e Ismael, esprimono modi di ragionare semplici, infantili, ogni cosa viene vissuta come un complotto, un tradimento. Immaginano di essere  geni incompresi, non sanno accettare l’idea della complessità e della variabilità di un mondo che muta continuamente.  Sono fermi a una natura primordiale e scelgono di ubriacarsi per scatenare la loro natura violenta sul diverso. Si legano a un’ideologia, quella nazista, perché gli permette di dar sfogo alle loro frustrazioni al loro bisogno di violenza. Si rifugiano nel mito della forza e della purezza. Invocano una natura semplice, ma la natura stessa non è né semplice, né pura. Vivono di fantasmi e illusioni, senza capire la realtà. Alla recitazione convulsa e tagliente degli assassini, si contrappone la razionalità, la pacatezza della vittima, un giovane coreano adottato da una famiglia della ricca borghesia svedese. Invano il ragazzo cerca di spiegare che i geni sono solo un caso, che la democrazia e la diversità di pensiero vanno coltivate come beni preziosi, ma non c’è ascolto. I tre giovano sono prigionieri delle loro stesse paure e nel finale il cerchio si chiude si torna alla scena iniziale: ciò che era stato solo immaginato è diventato un’orribile realtà.  Il testo tratto dall’opera del drammaturgo svedese Lars Norén vuole metterci in guardia da quelle che sono le componenti che producono razzismo: ignoranza, povertà, disoccupazione e populismo. I tre ragazzi sono, a loro volta, vittime di una società che non ha saputo dare valori e risposte adeguate ai tempi, di una politica incapace di indicare futuro. Ma attenzione, non pensiamo che questo male sia solo svedese, riguarda anche il nostro paese. Alla paranoia individuale, corrisponde spesso una politica paranoica, che vede negli stranieri quelli che tolgono il posto di lavoro, che rubano, che violentano le nostre donne…Quante volte abbiamo sentito discorsi simili, pronunciati da politici nostrani?  Marco Plini sviluppa in modo abile le visioni di Norén, la sua scrittura tagliente e attenta nel mostrare la violenza che può avvolgere ognuno di noi. Un testo crudo e  di grande attualità.  Alla fine applausi sconcertanti, perché il delirio è sempre in agguato. Il freddo dell’anima che non ci permette di riconoscere e difendere la bellezza dei gigli nei campi, può nascondersi in ognuno di noi. Regia e attori ci regalano emozioni che non si dimenticano. Da vedere.

Freddo
di Lars Nóren.Traduzione di Annuska Palme Sanavio
regia di Marco Plini
Scene e costumi Claudia Calvaresi.
Con Angelo Di Genio, Michele Di Giacomo, Alessandro Lussiana, Federico Manfredi.
Luci Robert John Resteghini.Suono Franco Visioli.
Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione.
Elfo Puccini, sala Fassbinder.
Dal 22 novembre al 4 dicembre
Martedi'/sabato 21.00, domenica 16.00
Intero 30 €, ridotto giovani/anziani 16 €, martedi' posto unico 20 €
Info e prenotazioni: tel. 02.0066.06.06, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. www.elfo.org