Pin It

A Genova sabato 3 dicembre, il Teatro Akropolis, in collaborazione con l'omonima fondazione e con il Museo Biblioteca dell'Attore, ha festeggiato il centesimo compleanno di Alessandro Fersen, filosofo, drammaturgo, studioso e uomo di teatro, di un teatro inteso, nel suo senso più ampio e profondo, come punto di convergenza di diverse e solo in apparenza inconciliabili riflessioni e pratiche artistiche, nel segno di una contingenza dai tratti spesso magicamente autentici e sinceri. A Genova, perché è stata la città di Fersen da quando bambino vi giunse, ad appena due anni nel 1913, con la famiglia dalla città natale di Lodz, polacca ma allora sotto l'impero zarista, fino al suo trasferirsi a Roma, erano gli anni cinquanta del novecento, e che quindi ha visto il formarsi ed il consolidarsi della sua idea di arte e di teatro, a partire dalla ormai quasi introvabile tesi di Laurea con il professor Rensi, antifascista poi espulso dall'Università, L'Universo come gioco, pubblicata dall'editore Guanda qualche anno dopo e mai più riproposta. Uomo profondamente radicato nel suo tempo, anche politicamente inteso fin dalla partecipazione alla resistenza e alla segreteria del CLN per la Liguria e Genova su proposta di Sandro Pertini, dal suo tempo non si è mai lasciato dominare, mantenendo una autonomia priva di compromessi, sia intellettuale che artistica, una libertà ed una diversità che forse gli è costata una buona parte della fama che lui, uomo comunque schivo e un po' orso come lo definisce la figlia, e le sue opere, sia filosofiche che letterarie o teatrali, ovvero la sua infaticabile attività di maetro e promotore di arte e teatro, avrebbe certamente meritato. Il compleanno di questo sabato tre dicembre chiude un anno di studio, non dico di celebrazioni termine che poco si confà alla natura dell'uomo, che ha visto importanti iniziative soprattutto a Roma, ove Fersen trascorse la seconda parte della sua vita anche artistica, e lo chiude non casualmente al Teatro Akropolis, i cui fondatori ed animatori, David Beronio e Clemente Tafuri, sono stati tra i pochi, a Genova in particolare ove il segno lasciato da Fersen e dal suo amico Emanuele Luttazzi sulla nascita del Teatro Stabile avrebbero meritato ben diversa considerazione, a recuperare fattivamente l'eredità artistica di Fersen e a recuperare soprattutto quegli aspetti innovativi della sua concezione del teatro, profondamente radicati e giustificati in una più ampia considerazione dell'arte e del mondo, che la sua formazione filosofica motivava. Era presente, ne ho prima citato alcune parole, Ariela Fajarajzen la figlia di Alessandro Fersen (quello è il suo cognome autentico) e presidentessa della Fondazione che ne cura il ricordo e soprattutto la valorizzazione dell'opera, attualissima peraltro, anche con il recupero dei manoscritti e dei numerosi inediti (Fersen sembra non essere stato molto nell'attenzione degli editori italiani). Tra l'altro, e credo significativamente, è stata lei la promotrice della donazione nel 2004 del Fondo Fersen al Museo Biblioteca dell'attore di Genova, che, grazie all'attività e alla passione di Giandomenico Riccaldone, ne sta curando la catalogazione ed il pieno recupero. È stato questo un incontro assai particolare perchè, al di là della breve proiezione del filmato di una recente lettura a Roma di alcune delle drammaturgie di Alessandro Fersen, è stato soprattutto, come una vera festa di compleannno, il luogo di uno scambio, quasi una trasmissione orale di antica memoria, di ricordi, per chi lo aveva conosciuto, o di impressioni, per chi non ne aveva avuto la fortuna, sull'uomo e sull'artista, scambio felicemente disorganico, un luogo di percezioni e comunicazioni dirette che forse rendono merito, meglio di tante paludate prolusioni, a Fersen uomo e artista. Uomo e artista, creatore e a lungo custode di un idea di arte e teatro per così dire ellittica rispetto alla tradizione italiana, sia accademica che drammaturgica, e per questo forse frettolosamente accantonata, proprio perchè poneva quesiti molto diretti, fino al cuore del senso ultimo del fare teatro oggi. A partire dalla sua idea fondante, antimetafisica e se vogliamo extradrammaturgica, quella di L'Universo come gioco, quella cioè di un presente non più concepito come punto di passaggio tra un passato razionalizzato ed un futuro conseguente, quindi un presente in sé inesistente, ma bensì vissuto come punto essenziale di scaturigine dell'uno e dell'altro, quindi come momento ineludibile di vera conoscenza e percezione del fondamento ultimo dell'uomo, che può ritrovare così una sua vera libertà. Da qui la coerenza del suo approdo al teatro ove nel verificarsi concreto della rappresentazione, la “presenza”, come elemento essenziale del teatro stesso, consente di recuperare un sentimento empatico e una esperienza di conoscenza diretta e stupita di sé, conoscenza che ha la sua sintassi essenziale  nel “gesto” dell'attore come manifestazione gratuita, in quanto irrazionale ma profondamente sincera, del contatto con nostro substrato interiore. Immediate le analogie con le tesi artaudiane della crudeltà o anche con l'insegnamento di Grotowski così legato alla performance dell'attore quale manifestazione della sua natura profonda, della sua autentica essenza umana. Ma paradossali, credo, anche le corrispondenze con un teatro considerato tradizionalmente come molto razionale o letterario, quello di Massimo Bontempelli e della sue  narrazioni sceniche alla luce del realismo magico. Poche brevi impressioni, queste mie, sull'opera di un artista e di un pensatore che merita molta più  attenzione, sia da parte mia, che credo manterrò, sia da parte della, a volte smemorate, accademia e drammaturgia nazionale.