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In siciliano spesso si dice “sugnu do’ paisi”, “ sono del paese”, come a sottolineare la fondamentale e radicata provenienza di chi lo afferma. Il paese è l’emblema delle radici, delle origini, soprattutto per chi proviene dal Sud, da quella Magna Grecia che ci lega indissolubilmente a sé, per quanto si possa scappare altrove. Quando si legge sui cartelloni “CANTIERI TEATRALI KOREJA “ si immagina già il viaggio in Salento. Non parliamo di semplice patriottismo meridionale, ma di una particolare poesia, di un approfondito lavoro sulla lingua e sul movimento, sulla memoria, che lo spettacolo IANCU, UN PAESE VUOL DIRE, presenta dal 12 al 15 gennaio al teatro Elicantropo di Napoli. Protagonista uno stupefacente Fabrizio Saccomanno, interprete “reale” di un testo scritto a quattro mani con Francesco Niccolini. Tra sorrisi e commozione, l’attore, volto da antico greco, si fonde con la sua terra, in una difficile e faticosa interpretazione in cui tutto il suo corpo diventa scena. “Iancu”, bianco, è il palcoscenico, iancu è il protagonista, iancu è il cielo illuminato da una pistola lanciarazzi, ianca è la pietra della terra del Sud, di quel Sud non vulcanico, ianca l’immaginazione e la mente su cui si disegnano gli acquerelli di questo particolare racconto. Su una sedia, àncora, appiglio, origine, il nostro protagonista è incollato, legato. Mani, viso, braccia, si muovono disegnando nell’aria e nei nostri occhi il suo lungo racconto. Nell’agosto del 1976 un famoso bandito si rifugia nelle campagne di un paese del Salento, mobilitando tutta la comunità. Quel paese che, per lunga parte dello spettacolo, viene descritto nei minimi particolari. Luoghi, case, vie, palazzi, ma soprattutto personaggi. Dalla guerra al dopoguerra, dagli anni ’60 alle rivolte degli anni ’70, alle partenze degli emigranti verso il Nord. La Storia dell’Italia degli ultimi 50 anni del ‘900 viene descritta attraverso un microcosmo osservato dagli occhi di un bambino. Ogni abitante del paese ha un soprannome, l’ingiuria come viene comunemente chiamata, un nomignolo, sia esso positivo o negativo, che identifica all’interno della comunità la storia e la vita di ogni persona. Una parola che racchiude un’intera vita. La descrizione realistica e minuziosa di questi personaggi sembra all’inizio perdersi nei meandri di caratteri e caratteristiche grottesche: un tocco di quel disordine verghiano quando si comincia a leggere I Malavoglia. Ma poi, improvvisamente, nomi e luoghi restano impressi nelle menti degli spettatori, quasi conoscessero da sempre quei personaggi e quelle vie.  L’attore utilizza un aggrovigliarsi continuo di racconti, tessendo dei legami indispensabili per far capire come si vive in un paese. Il racconto appare a tratti elementare, come quello di un bambino, a tratti profondo, pungente, duro, malinconico. Mentre si ascolta, si sale e si scende, si corre, si salta, si torna indietro e ci si riaggancia a quello raccontato prima. Le parole viaggiano velocissime, come le biciclette dei ragazzi del paese, di quelle gang che si formano e che si combattono per tutta la vita, ritrovandosi poi ad essere più amici di prima. Improvvisamente il palco bianco si colora di ogni possibile immaginazione, si aprono gli squarci  che ci conducono tra le vie del paese, come se riprendessimo tutto con una telecamera,  regalando  ad ogni spettatore la possibilità di immaginare liberamente le scene e i luoghi in maniera diversa. In effetti l’aggancio alla cinematografia ci fa ricordare Tornatore con i suoi “Nuovo Cinema Paradiso” e “ Malena”, ma la lingua è quella salentina. Una lingua che scivola veloce e prepotente e che, se a tratti sembra italianizzata, scorre invece su binari poeticamente e musicalmente dialettali. Pura canzone linguistica che fa amare sempre di più le differenze  della nostra Italia. La lingua non appare scelta ma consuetudine; nessun altro modo è plausibile per esprimersi.  Vengono recuperati giustamente modi di dire, proverbi ed epiteti, preghiere ed usi che traggono le fondamenta dalla  mitologia ed epica greca. Il titolo di questo spettacolo è profondo: un paese vuol dire tante cose. Ma riuscirà a farlo? Riuscirà a dirlo?  Chi non lo vive e non lo ha vissuto non comprende la teatralità profonda di questa realtà. I bambini del paese avrebbero dovuto mettere in scena una recita in piazza e la frase da pronunciare era: “un paese vuol dire non stare soli”. Nel bene e nel male, ovviamente. La recita non si fece più, il paese cambiò. Ma tra ricordo e lingua, il legame alle origini non è ancora perduto.

foto Lucia Baldini

IANCU, UN PAESE VUOL DIRE
Teatro Elicantropo Napoli
12-15 gennaio 2012
Cantieri Teatrali Koreja
Stabile d’Innovazione del Salento
IANCU, un paese vuol dire
uno spettacolo di Koreja
progetto di Fabrizio Saccomanno
testo di Francesco Niccolini e Fabrizio Saccomanno
con Fabrizio Saccomanno
scenografia Lucio Diana
foto di Lucia Baldini
regia Salvatore Tramacere