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L’argentino Rafael Spregelburd è l’autore del momento. Coronato ancora agli ultimi Premi Ubu dello scorso dicembre nella categoria “Nuovo testo straniero” per lo stralunato quanto calibrato LUCIDO (messo in scena con bravura e lodevole sobrietà di mezzi dalla compagnia costanzo/rustioni), assai presente con articoli e interviste sui media specializzati oltreché su diverse testate giornalistiche nazionali, è giunto in questi giorni all’esordio sullo storico palco di via Rovello del Piccolo Teatro di Milano con LA MODESTIA diretta da Luca Ronconi. Un’eccentrica commedia scritta dal “teatrista” di Buenos Aires per il suo ciclo monstre intitolato EPTALOGIA DI HIERONYMUS BOSCH: ossia un diorama di sette opere drammatiche, ognuna corrispondente a un peccato capitale declinato in termini contemporanei e ispirate nel loro complesso a un famoso dipinto del pittore fiammingo, raffigurante su una ruota i proverbiali vizi. Da qui, pertanto, la presentazione della Modestia come corrispettivo odierno della Superbia. Un peculiare discorso drammaturgico, da cui Ronconi trae due ore e quarantacinque minuti di spettacolo orchestrati all’interno di un soggiorno dalle pareti colorate di luminoso verde, nonché disseminato di oggetti e arredi domestici sottoposti a una marcata condizione di mobilità effettiva o riflessa, in quanto destinatari e testimoni degli incessanti spostamenti e movimenti dei quattro eccellenti attori che animano la scena: gli affiatati Francesca Ciocchetti, Maria Paiato, Paolo Pierobon e Fausto Russo Alesi. I quali, in quello stesso identico spazio scenografico, devono altresì destreggiarsi nel passaggio a fasi alterne – ma senza alcuna soluzione di continuità – da una storia all’altra. Sono due, infatti, le pièce che il testo teatrale in questione mette in gioco a dispetto di qualunque riconoscibile unità di luogo e di tempo. Una vicenda si situa in un’Argentina su cui pare aleggiare sempre lo spettro di una dittatura e che vede il quartetto di protagonisti alle prese con un misterioso traffico di cassette video-registrate, unitamente ad altri intrallazzi torbidi quando non decisamente loschi. L’altra, invece, si svolge in un’epoca storica dai contorni diversi e in un imprecisato paese dell’Est europeo, minacciato dagli scoppi di guerra di vicini territori in conflitto. In questo caso il mistero concerne l’abbozzo di un romanzo dal presunto potenziale artistico ed economico, su cui ruotano le speranze di futuro migliore riguardanti due coppie di coniugi in crisi esistenziale e di sentimenti. Insomma, il qui e ora unico e irripetibile della messinscena teatrale si dirama in un binomio di narrazioni e di tempi distanti tra essi eppure intarsiati nel medesimo spazio scenico, dove dunque quattro interpreti fanno otto personaggi impegnati in un turn over di sdoppiamenti, da cui non può che derivarne pure una messa in discussione di quello che dovrebbe essere il loro statuto identitario, fatalmente compromesso da una siffatta moltiplicazione di elementi strutturali e drammatici. Un gran casino? Nient’affatto. Ronconi prende la drammaturgia combinatoria e frattale di Spregelburd per dispiegarne l’irregolare intreccio narrativo attraverso un uso segnaletico della scena, di cui mette in moto meccanicamente un arredo o un’intelaiatura per indicare il passaggio da una storia all’altra, oppure ricorrendo a un semplice mutamento di luce che il vivido verde dei fondali fa captare meglio. Inoltre, sfrutta con naturalezza le debite pause o sospensioni scritte nel testo affinché gli interpreti infilino con subitanea discrezione dei cambi di tono o d’espressione – finemente suggeriti a livello timbrico e/o somatico – in grado, ogni volta, di fare intendere il cambiamento di stato della rappresentazione. Sicché, vi sono dei segnavia per lo spettatore affinché possa seguire lo svolgimento delle storie assieme al decorso dei relativi misteri: tra cui, sotteso, c’è senza dubbio quello dell’essere umano contemporaneo, smarrito nel preteso spazio unificato dell’attuale Era globale di un tempo che persiste amleticamente a essere “fuor di sesto” (come rimarca, del resto, la dislocazione temporale sopra menzionata). Talmente e ancora “out of joint” che pure il suo correlativo spaziale, a un certo punto, non regge più e allora succede che all’improvviso – nel bel mezzo di un dialogo – una lampada a pedana si ribalta autonomamente colpendo una boccia piena d’acqua che si rovescia, mentre parte del muro di fondo crolla laddove, da una porta adiacente, erano uscite poco prima delle fiamme per l’incendio (domato) della cucina ubicata dietro le quinte. Incuranti di ciò, i personaggi tuttavia continuano la ridda delle loro peregrinazioni motorie, verbali e fra le frontiere dell’identità: entrando e uscendo di scena, sedendosi e alzandosi senza posa da sedie poltrone e divani, allungando le gambe e variando oltremodo le posture, spostando suppellettili e tavoli, dedicandosi a improbabili giochi coreani nonché allo stordimento giovanilistico e parolaio dovuto alla fumosa condivisione di uno spinello. Non c’è pace per questi esseri che, in verità, preferiscono continuare a perdersi nel loro labirinto inane di parole e intrighi oscuri privi di soluzione, piuttosto che assumersi l’impegnativa responsabilità di vivere appieno l’esistenza. Perché è appunto questo il loro peccato capitale di contemporanei disorientati e destinati perciò a soccombere o, al massimo, a sopravvivere mediocremente: la modestia. Affrontare cioè la vita al di sotto delle proprie più alte possibilità, senza mettere a frutto talenti o feconde virtualità espressive, comportamentali e di relazione con la realtà, il mondo e le persone. La modesta ambizione, ovvero, di lasciarsi solamente vivere con sostanziale passività invece di schiudersi – con liberante franchezza e decisione – alla luce di un’attivazione interiore, effetto della scintilla di scelte affermative di una propria verace e desiderante essenza. Probabilmente l’autentico antidoto e la positiva risposta, oggigiorno, alle forme mutevoli di svianti finzioni e fiction diffuse – in modo strumentale e coartante – dalle strutture di potere e di condizionamento sociale dell’ingannevole realtà presente. La “realtà” infatti “è sopravvalutata” ha sostenuto di recente Spregelburd; e forse Ronconi, nei modi sopra descritti, gli ha voluto dare ragione.

Foto Luigi Laselva

La modestia
di Rafael Spregelburd.
Traduzione: Manuela Cherubini.
Regia: Luca Ronconi.
Impianto scenico: Marco Rossi.
Costumi: Gianluca Sbicca.
Luci: A. J. Weissbard.
Interpreti: Francesca Ciocchetti, Maria Paiato, Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi.
Coproduzione: Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Fondazione Festival dei Due Mondi di Spoleto e Associazione Mittelfest, su progetto del Centro Teatrale Santacristina.

Al Piccolo Teatro Grassi di Milano fino al 5 febbraio (www.piccoloteatro.org).