Andare alla ricerca dei teatri vuol dire, tra le altre cose, tenere in  considerazione critica anche le personali predilezioni -  predilezioni e convincimenti che mutano -: per quanto mi riguarda, le pratiche di scrittura drammaturgica nella prospettiva del  rapporto di collaborazione tra testo linguistico e scena, e più in generale la trasmissibilità dell’esperienza. Per questa rubrica, alla fine di un altro anno di lavoro, ecco alcune riflessioni – rapide, ma spero non frettolose – che sottopongo all’attenzione dei lettori di Dramma.it  per il piacere di mettermi in gioco e di farmi coinvolgere in un auspicabile confronto a distanza. Temi: l’esperienza, gli errori, la metodica di lavoro e il sogno.

L’esperienza può essere trasmessa ad altri? Può essere comunicata un’esperienza che non ha linguaggio? Ci si può provare, a condizione che si abbia la volontà e l’abilità di mettere il cuore a nudo. Nel regno del cuore non si possiede nulla, tanto meno qualcuno. Non si ha nulla da insegnare, ma molto da imparare. Escludo dalle finalità delle mie creazioni artistiche la volontà di lanciare messaggi e di progettare il cambiamento del mondo. Scrivo quando mi trovo in uno stato di assoluta necessità artistica. Altrimenti leggo, vado a teatro, curo le piante dei miei giardini, faccio altre cose. Scrivo per ascoltare, per riempire un silenzio mentre se ne riapre un altro. Scrivo per fare di un’esperienza una nuova esperienza. Dopo la pubblicazione della trilogia di opere teatrali (L’ombra di Dio) ho sentito il bisogno di riflettere sui presupposti teorici della mia scrittura drammaturgica, sulla metodica adottata e sui risultati conseguiti, perché se molte cose le faccio in piena consapevolezza, molte altre le realizzo senza averne cognizione.  Ecco, mi sono detto, come uomo di scena più che di libro, nel fare un bilancio, seppure provvisorio, del lavoro creativo degli ultimi dieci anni potrò trovare nuovi stimoli per ripartire con un lavoro che non sia la ripetizione di quello realizzato in precedenza. Dunque, andare alla ricerca dei teatri vuol dire anche andare alla scoperta di quelli che mi appartengono e che pratico, e di quelli che mi appartengono ma che non conosco. Vuol dire ricominciare sempre daccapo. Ripartire ogni volta con nuove intuizioni e necessità. Ripartire, tenendo conto degli errori commessi. Partire e ripartire dagli errori non è facile. Non solo è difficile individuarli, ma è ancora più difficile accettarli e metabolizzarli, trasformandoli in fonte di energia vitale. Tuttavia, solo partendo dal riconoscimento dei limiti o degli errori posso tentare di far diventare il racconto un’esperienza nuova e trovare la forma migliore per raccontarla. Dopo essere stato per molti anni vittima dei rituali dello schematismo ideologico e del vano inseguimento dell’azione mimetica, che hanno comportato, tra l’altro, pompaggio di sentimenti e superficialità, posso dire che la scuola del grande teatro di tradizione mi ha consentito di diventare un tecnico capace di fare spettacolo, la scoperta del pensiero del corpo e dell’autogestione del processo organico fondato sulle azioni fisiche mi ha messo nella condizione di fare teatro.

Il lavoro sulle azioni fisiche applicato alla scrittura drammaturgica è, dunque, al centro dei miei interessi e dei racconti che scrivo utilizzando la metodica del frammento. Presupposti fondamentali: 1) il drammaturgo scrive per l’attore non per lo spettatore; 2) il testo scritto è autonomo rispetto allo spettacolo; 3) tra testo linguistico e scena esiste un rapporto di collaborazione che si concretizza in una sorta di tradimento per amore da parte dell’attore e del regista; 4) il movimento della creazione artistica va dal fare al dire, dalla cosa al come, dal materiale all’immateriale; 5) il luogo della creazione artistica è la contesa, dove regna l’irriducibilità di valori opposti e contrari. Riconosco il valore decisivo di alcuni principi che risultano determinanti ai fini della qualità dell’opera: polidimensionalità, sinestesia, simultaneità, indeterminatezza, flessibilità. Come ho accennato, rivolgo un interesse particolare alla tecnica della frammentarietà che considero  fondante del testo linguistico. Non è una novità, come non lo sono i principi appena citati: questi sono utili strumenti di lavoro, quella è una buona e vecchia regola. Ogni frammento ha un significato autonomo, ma anche un valore d’insieme, derivante dalla combinazione dei frammenti che costituiscono il testo teatrale. La concatenazione dei frammenti comporta un raffinato lavoro di montaggio e di distillazione della materia linguistica. L’approdo è un ordine accettabile, diciamo convincente, non assoluto e definitivo. L’ordine non è mai ragionevolmente chiaro, definitivamente chiuso: conserva elementi di caoticità. Cambiando l’ordine dei frammenti, cambia il senso della comunicazione.

Nel campo della scrittura drammaturgica non esiste, ovviamente, un metodo che vada bene per tutti gli scrittori. Il lavoro sulle azioni fisiche applicato alla scrittura drammaturgica è valido per me, ma potrebbe lasciare indifferenti molti altri drammaturghi, impegnati sul terreno fertile di un’altra metodologia. Dunque, la riflessione scritta che ho fatto dopo la trilogia ha incorporato pensieri, immagini, visioni, letture, incontri, ricordi, ma anche abilità e conoscenze, appartenenti alle scelte strategiche e alla mia storia personale, che ho integrato con un’esemplificazione sintetica ma complessa di scrittura drammaturgica in “presa diretta” , ovvero con la stesura di un testo linguistico nella prospettiva del teatro-musica, titolo La confusione. Ne discendono due considerazioni. La prima: tutte le metodiche di scrittura sono buone, a condizione che servano a dotare i testi linguistici di un carico energetico che colpisca il cuore e la mente del lettore prima e dello spettatore poi. La seconda: forse l’esperienza che non ha linguaggio non può essere trasmessa (penso all’arte dell’attore e all’autogestione dei processi organici), ma la metodica di lavoro riguardante la scrittura drammaturgica, sì, può essere trasmessa ad altri, ammesso ovviamente che desiderino condividerla.

Premesso che il libro (anche quello - La luce dell’ombra -, dedicato a Franco Rella,  sulla metodica di scrittura che prediligo) non ha per me valore di  oggetto, ma di esperienza capace di cambiarmi, coltivo un sogno. Mi piacerebbe che il lettore si perdesse all’incrocio tra la latitudine e la longitudine del mio racconto, che lo attraversasse come un luogo o un non-luogo incantevole e stregato, confortevole e maledetto, tenero e barbarico allo stesso tempo e che sentisse il respiro della vita che lo ha attraversato. E’ un sogno ambizioso e incerto, lo so, ma ogni volta provo a ri-farlo.