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Delicato, commovente, storico. Questo è Saverio La Ruina, o meglio il suo spettacolo ITALIANESI, in scena dal 24 al 29 gennaio al Teatro Stabile d’Innovazione Galleria Toledo di Napoli. Un po’ italiani, un po’ albanesi: sveliamo così la curiosità sul titolo e in parte la storia raccontata in scena. Ci sono vite e diari che la storia ufficiale tiene volutamente da parte, sia perché è “storia” e non può soffermarsi sulle piccole cose, sia perché sarebbe troppo doloroso e poco “ufficiale” parlarne. Nei giorni di celebrazione de “La giornata della memoria”, mentre le TV di tutto il mondo mandano in onda documentari storici, servizi e testimonianze sui lager tedeschi e sulle vite di numerosi ebrei, Saverio La Ruina ci ricorda vite mai conosciute o tralasciate. Ma si tratta comunque di storia. Non siamo qui per fare le veci degli storici o degli studiosi di storia contemporanea, ma per sottolineare l’importanza di un testo e di uno spettacolo  che  racconta un pezzo sconosciuto della storia italo-albanese. Il non-luogo di questo spettacolo è il confine tra Italia e Albania. Trieste viene solo accennata ma in realtà è un punto cardine di tutto il racconto. Alla fine della seconda guerra mondiale numerosi soldati italiani vengono rimpatriati dall’Albania. Nel frattempo però avevano creato famiglie, figli, vite profondamente radicate in quel territorio. Le donne albanesi e i figli “italianesi” furono costretti a rimanere in patria, con la promessa di una partenza ritardata rispetto ai mariti e padri italiani. Ma rimasero anche alcuni civili e alcuni soldati italiani bloccati dal nascente regime.  Il nostro protagonista lo descrive attraverso gli occhi di un bambino che nasce e vive in un campo di concentramento insieme ad albanesi e italiani. Il regime è un disegno nell’aria fatto con le dita, come quello di un quadrato, un recinto, un ring serrato. Ma in realtà il brulicare di vita che si crea all’interno è disarmante: i bambini organizzano partite di pallone, giocano, crescono, gli adolescenti si innamorano, gli adulti massacrati da lavori forzati e percosse cercano di dare una “normalità” nell’inferno. Saverio La Ruina è un italianese: figlio di una donna albanese e di un soldato italiano. Vivrà tutta la sua vita nella speranza di ritrovare il padre e la sua nazionalità italiana. Il titolo dello spettacolo, un ibrido come è la vita di queste persone, dimostra l’effimera speranza  di vivere in un Paese che è stato costruito in un sogno. Crescere con l’idea di vedere un’ Italia dai bellissimi luoghi, terra di cantanti e poeti, oggi ci fa sorridere amaramente. Il nostro italianese, dopo la caduta del Regime e la riapertura dei confini, nel 1991 arriverà in Italia, troverà il tanto desiderato padre italiano, gli presenterà il nipotino con lo stesso nome, resterà deluso dalla fredda accoglienza. E allora Trieste ritornerà ad essere un ennesimo passaggio verso la vecchia vita, l’Albania e i suoi ricordi dal color “merda” come quello dei campi, ricordi dolorosi ma solidi. L’Italia resta un sogno e rimane bella solo fino a quando rimane lì, nella mente. La poesia che La Ruina mette nelle sue parole rende il racconto di una dolcezza impalpabile, la timbrica e le sonorità della voce accarezzano le orecchie degli spettatori. L’intimità di una storia tanto personale è data dalla delicatezza, dall’entusiasmo di fanciullo che sembra non morire mai, incessantemente e caparbiamente speranzoso. Si sceglie di spezzettare il racconto tra passato e presente, in una serie continua di salti narrativi che sembrano farci saltare visivamente tra Italia e Albania. Il racconto scivola veloce e ricco di particolari, la scena è spoglia, non viene riempita da oggetti, tranne una sedia, e da piccoli movimenti fluidi. Questo permette di non distrarre lo spettatore che dipinge e costruisce nella sua menta, in maniera individuale, le immagini. Nonostante il  racconto ad incastro, caratterizzato da salti in avanti e indietro,  appaia come l’unico movimento costruttivo della scena, a tratti sembra stancare il pubblico, che è ansioso di sapere come si concluderà la storia. Sembra quasi che si tenda troppo la corda dell’attenzione in platea, rischiandone la rottura. Il protagonista conclude seduto sulla sua sedia, ripetendo le parole del padre, descrivendo l’Italia come terra di cantanti e poeti, con il tricolore sullo sfondo. I tre colori della nostra bandiera appaiono come tre scampoli colorati di stoffa, quei  colori che l’italianese aveva imparato a memorizzare grazie al suo maestro sarto italiano nel campo di prigionia. Se prima l’Italia si tingeva di mille sfumature, adesso il nostro Paese ci appare ridicolo. Abbiamo davvero perso il concetto e il desiderio di appartenenza?

ITALIANESI
Teatro Stabile d’Innovazione Galleria Toledo Napoli
24-29 gennaio 2012
di e con Saverio La Ruina
musiche originali  Roberto Cherillo
disegno luci Dario De Luca
organizzazione Settimio Pisano
produzione Scena Verticale
con il sostegno di MIBAC | Regione Calabria