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Chi è K? Uno come noi o altro da noi? Quello che accade a K potrebbe accadere anche a me domani? A voi che leggete, ora? Forse. Dico forse perché una delle caratteristiche della scrittura di Kafka è proprio l’ambiguità, il senso di sospensione, l’incertezza, la stessa incertezza che tormenta l’uomo oggi, in una società liquida sempre più frenetica che lo spinge continuamente alla ricerca di comunità, spesso virtuali per vincere solitudini, paure e frustrazioni. Questi aspetti della scrittura di Kafka sono ben rappresentati nella messa in scena de Il Processo di K di Bruno Fornasari. Oggetti, personaggi più o meno conosciuti, luoghi e non luoghi, tutto scorre velocemente come in un film, con continui cambi di scena, una trasformazione da un oggetto all’altro, da un luogo all’altro, da una persona all’altra, come tante scatole cinesi. L’unico che in questa folla cerca di rimanere se stesso, cerca risposte che tuttavia non riesce a trovare, è il protagonista prigioniero di regole invisibili di cui nessuno conosce l’origine. Unica certezza il controllo. Il processo di Fornasari è ambientato nella realtà odierna dei servizi telematici e del customer care, dove il controllo dei dati e la percezione del quotidiano sono continuamente condizionati da soggetti quasi immateriali, di cui non si sa niente, invisibili, che dettano le regole e fanno del singolo uomo un dato: non più persona ma consumatore, fruitore, non un individuo ma un semplice numero all’interno di uno schedario gestito da ignoti.  La complessa organizzazione, alla base del processo in corso, spinge Josef K ad entrare in contatto con un mondo grottesco, fatto di body scanner pensanti, priveé erotici e attese infinite al numero verde. Il protagonista si affida senza speranze a chi non può aiutarlo, un cugino desideroso di soffiargli il posto, un avvocato, che in realtà è un truffatore senza scrupoli, un hacker appassionato di Gigi D’Alessio, K cercherà inutilmente di venire a capo, di capire, di smontare le accuse false e il misterioso sistema burocratico che lo vuole condannare. Ma intanto il dubbio sulla sua onestà sulla sua rettitudine piano piano s’insinua. K vive, come forse molti di noi oggi, nella dipendenza telematica. La preoccupazione iniziale del protagonista, infatti, non è tanto il fatto di avere estranei in casa, ma di non poter comunicare con il mondo, il suo cellulare non funziona, non può accedere ad internet è questo il suo primo dolore e il secondo cercare di capire. Tutto scorre velocemente lo spettatore è immerso in un grande ipertesto si aprono continuamente nuovi file, nuove finestre in cui perdersi e disperdersi…effetto sicuramente voluto. Nel finale, la quarta parete rimane un po’ incerta, siamo arrivati proprio alla fine o la follia può andare oltre? Applausi convinti, comunque, perché gli interpreti sono tutti all’altezza della prova, agili e decisi a meravigliarci. Ognuno di loro, a parte il protagonista, deve confrontarsi con tre, quattro ruoli, entrare e uscire da un personaggio all’altro, veri atleti della scena, soprattutto Alice Redini, che recita alcune scene pattinando. Torniamo a casa. Per le strade c’è ancora un po’ di neve. Torniamo pensando ai nostri piccoli processi interiori: perché ho detto quella cattiveria, non dovevo andare via sbattendo la porta, potevo fare così, potevo regalare un sorriso, potevo, potevo…monologhi un po’ kafkiani di coscienze vigili e dubbiose. Meglio così: “Di tutte le cose sicure, la più certa è il dubbio”, diceva  Brecht, lui conosceva bene Kafka.

Teatro Filodrammatici, Milano.
8 febbraio/4 marzo 2012
IL PROCESSO DI K
di Bruno Fornasari
ispirato a Il processo di Franz Kafka
con Tommaso Amadio, Alex Cendron, Dario Merlini, Matthieu Pastore, Alice Redini
disegno luci Andrea Diana
scene e costumi Erika Carretta
assistente alla regia Umberto Terruso, Marta Belloni, Vanessa Korn
regia Bruno Fornasari
produzione Teatro Filodrammatici