Non si può mai sapere quando e come ti può venire l’idea buona per una nuova commedia. Da un episodio vissuto direttamente o da qualcuno che ce lo ha raccontato, da una notizia letta su un giornale, da un’immagine che ci è rimasta impressa nella mente, da una frase sentita dire in un’occasione particolare, da un sogno, da un ragionamento, da un litigio da un momento di riflessione...

Una cosa però è certa: nel momento stesso in cui l’idea ci viene in mente ci sembra di aver già in mano un copione meraviglioso. Ed invece non è così.
Non per essere retorico ma penso che l’idea è un germoglio che sbuca dal terreno. Se lo lasciamo li’ non crescerà mai da solo, va coltivato. Ancora più importante è che non è detto che quello sia il germoglio giusto, che potrà diventare la pianta che immaginiamo. Nove volte su dieci si tratta solo di qualcosa che morirà nel giro di poco tempo. Comunque è necessario scriversi tutto, tutto ciò che ci sembra una buona idea, nel quadernino (o blocco note) che teniamo sempre a portata di mano e che ci dovrebbe seguire ovunque.
Il fatto di scrivere nero su bianco ci crea già il primo scompenso generato dal fatto che un’idea rimane bellissima finchè resta nella nostra mente, nel momento che cerchiamo di tradurla in qualcosa di scritto smette di essere pura idea per diventare un appunto, in qualche modo s’involgarisce, perde di fascino e soprattutto comincia a prendere le distanze da noi. Riletto qualche ora o qualche giorno più tardi quell’appunto comincia a darci un po’ fastidio perché ci sembra diverso dall’idea originale. Man mano che passa il tempo potremo accorgerci che quel “germoglio” è banale, difficilmente coltivabile. Potrebbe alla fine cessare del tutto di interessarci e di darci stimoli a lavorarci sopra. Fino a che non decidiamo che si è trattato soltanto di un illusione. Ma se al contrario, superata la delusione iniziale, quell’appunto si arricchisce di particolari nuovi, prende possesso della nostra fantasia e ci continua a ronzare in testa per parecchio tempo, allora, forse, siamo sulla strada buona e vale la pena di andare avanti. Sarà tutto abbastanza spontaneo, non dovremo faticare molto a capire che da quel momento in poi le idee che ci verranno saranno sempre nutrimento per quel germoglio in crescita. Ci sarà poco spazio per distrazioni o per strade diverse. Questo non vuol dire che l’idea originale non subirà trasformazioni, tutto ciò fa parte della sua evoluzione, della sua crescita.
Inutile dire, a questo punto, che dovremo appuntarci tutto sul quadernino e che ogni volta che lo faremo ci sembrerà di banalizzare ciò che avremo in mente.
Fermiamoci su questo punto, che è poi il punto cruciale. Chi scrive, in fondo, non fa altro che esprimere se’ stesso. E’ questo è ciò che vorrebbero fare tutti, ognuno a suo modo. E lo scrittore non può far altro che esprimere se’ stesso attraverso il “mezzo” scrittura. Proprio perché la scrittura è il mezzo non potrà mai identificarsi perfettamente con ciò di cui costituisce soltanto il mezzo. E mediare qualcosa significa sempre, in qualche modo, storpiarla, falsarla, tradirla.
Ho parlato prima di “idea originale”. I greci la chiamavano “archetipo”. Ognuno di noi ha un archetipo dentro di se’, anzi è un archetipo. Le idee “buone” non sono altro che indizi di questo archetipo, cioè dell’essenza di noi stessi. Le idee che muoiono, invece, sono probabilmente solo falsi indizi. Se è difficile per noi stessi capire qual’è il nostro archetipo, o meglio che archetipo siamo, figuriamoci se è facile esprimerlo in ciò che scriviamo in un quadernino per mezzo di appunti frettolosi anche se meditati ! In ogni caso scrivere serve senz’altro a conoscerci di più e se il grado di conoscenza di noi stessi, o meglio del nostro archetipo, è buona, potremo più facilmente scartare le cattive idee (i falsi indizi) e riconoscere quelle buone, quelle su cui vale la pena di perdere tempo.

Il successo di tanti scrittori credo sia dovuto essenzialmente a tre fattori :
1)     L’aver capito che archetipo sono.
2)     Riuscire ad esprimerlo con efficacia.
3)     Scrivere in un determinato contesto socio-culturale nel quale il loro archetipo è lo stesso della maggioranza o di una buona parte delle persone che vanno a teatro o che leggono narrativa.

A tale proposito mi viene in mente l’esempio di “Look back in hanger” di John Osborne. Si trattò di un successo di pubblico enorme. Il testo non mi sembra un capolavoro e John Osborne non ebbe più lo stesso successo con nessuno degli altri suoi lavori. Ma la commedia esprime con secca efficacia la rabbia di una generazione delusa che aspirava a ribaltare i vecchi schemi dell’Inghilterra tradizionalista del dopoguerra. Quando la scrisse, Osborne, aveva 27 anni. Era un perfetto sconosciuto. Ma ebbe la capacità di esprimere con fedeltà il proprio archetipo, e soprattutto ebbe la fortuna di condividere il suo archetipo con centinaia di migliaia di persone della sua età.

Alcuni sostengono che scrivere di getto sia il modo migliore per non tradire l’idea iniziale. Lasciarsi trascinare dalla passione mentre si scrive può essere un’esperienza eccitante ma non porta, in genere, a grandi risultati. Per usare una metafora è un po’ come se ci si illudesse di poter correre nell’acqua come si riesce a correre sul terreno. La scrittura non è il luogo ideale per far correre le nostre idee, la nostra essenza, il nostro archetipo, tutte cose che si trovano più a loro agio nella nostra mente, nel nostro essere. Questo perché la nostra mente non è qualcosa di concreto, soggetto a regole e a vincoli come lo è la scrittura. Ed in particolare la scrittura drammaturgica. Se vogliamo il racconto o il romanzo sono qualcosa di maggiormente libero, nel quale è talvolta possibile lasciarci trasportare dall’istinto. Nella scrittura di un testo teatrale si è sottoposti ad una grande serie di limitazioni. Pensiamo al fattore spazio-tempo, al numero dei personaggi, alla necessità di usare espedienti e trucchi per rappresentare alcuni elementi come il pensiero, le emozioni, le storie ed i caratteri dei personaggi. Per questo è necessario far crescere la nostra idea non subito nel testo scritto ma prima sul quadernino degli appunti. Perché è lì che potremo creare, tra tanti elementi che ruotano attorno all’idea originale, qualcosa di omogeneo e coerente, che abbia in se’ un armonia non più “ideale” ma letteraria, che abbia, in altre parole, una struttura narrativa, o meglio, drammaturgica. In ultima analisi è nel quadernino che dovremmo allenarci a correre, alla meglio, nell’acqua. Perciò è bene smettere di illudersi che la pianta che nascerà rappresenterà noi stessi e l’idea che ci ha messo in moto. Ciò che conta è che le assomigli il più possibile.
La cosa più importante è che l’allenamento deve essere buono e lo sarà solo se avremo materiale sufficiente per scrivere una commedia. Questo significa che se il prodotto finale dovrà pesare 1 kg, per produrla  non ci basterà 1 kg. di materia prima (appunti). Per scrivere una commedia di quel peso è necessario disporre di almeno 30 kg. di ottima materia prima, priva di scarti. E si, perché quando ci sembrerà che con 40 Kg di appunti saremo finalmente pronti ad avviare il processo produttivo, ci converrà rileggere attentamente il nostro quadernino, e controllare bene la materia prima. Gli scarti saranno tanti : cose che non c’entrano niente, idee incontrollabili, inutili o perfino dannose, appunti scritti in momenti talmente particolari che risulteranno, rilette a distanza di tempo, incomprensibili perfino a noi stessi. Del resto è bene non cadere nell’errore di cercare di utilizzare un appunto solo perché si tratta di un’ottima idea. Se quell’appunto è inutile per i fini che ci proponiamo è bene lasciarlo perdere fin dall’inizio perché tanto, se saremo coraggiosi, elimineremo questa “idea meravigliosa” durante o alla fine del processo produttivo.
A qualche ecologista potrebbe sembrare perverso un processo produttivo che sprechi così tante risorse. Che fine fanno i ventinove kg di materiale utilizzati per produrre un solo Kg di prodotto finale?   Vanno sprecati ? Niente affatto. La nostra commedia o qualunque cosa scriveremo sarà tanto più solida e convincente, e quindi tanto più simile alla nostra idea originaria, quanto più avrà sostegni invisibili. Una battuta, una scena, una situazione o un dialogo comunicheranno al lettore o allo spettatore il nostro archetipo solo se sono giustificate e sorrette da una serie di elementi invisibili nel testo ma di cui si percepisce l’esistenza perché da essi provengono e sono generati. In altre parole ciò che il lettore o lo spettatore vede deve essere la punta di un iceberg la cui parte nascosta, enorme, sostiene quella emersa che non si limita quindi a galleggiare sulla superficie dell’acqua rischiando inabissamenti alla prima onda di critiche o perplessità.
E’ qui che il cerchio si chiude definitivamente. L’archetipo, elemento perfetto nella nostra mente, dapprima si depaupera e banalizza nella sua trasformazione in appunto. Successivamente si arricchisce di altri appunti e idee che lo nutrono e fanno crescere. Poi subisce una sublimazione finale attraverso la scelta di ciò che diventa testo e ciò che invece, in modo impercettibile, serve a sostenerlo, acquistando di nuovo un peso “ideale” e non “fisico” come quello del nostro quadernino fitto di annotazioni.