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Sbarca a Genova, al Teatro della Tosse dall'8 al 10 Marzo, uno dei maestri della 'provocazione' estetica, quel Rodrigo Garcia, drammaturgo e performer iconoclasta che con corpi nudi, musiche virulente ed animali in scena cerca di smascherare l'ipocrisia verminosa delle società occidentali, consumistiche e pubblicitarie che, dietro lo schermo di una finta libertà assicurata a tutti, nascondono una realtà di oppressione ed annullamento. Lo fa qui con questo suo “Muerte y reencarnaciòn en un cow boy”, ultimo dei suoi vascelli corsari che attraversano e danno l'arrembaggio da fine anni 80 alle principali piazze teatrali europee suscitando 'sempre' indignazione, ammirazione, critiche ed esaltazioni. Spettacolo spezzato in due parti apparentemente contraddittorie in cui la seconda, meditativa e sprezzante, sembra spiegarci l'inutilità della prima, distruttiva ribellione di un mondo claustrofobico in cui marcisce ogni colore e con ogni colore anche ogni nostra speranza di verità. Corpi nudi in lotta quasi trans-genica su musiche che feriscono consapevolmente, quasi espansione dei segnali di morte che molto più intimamente le iniziali immagini bergmaniane di “Sussurri e Grida” ci ricordano, con insondabili ed anche poco comprensibili esplorazioni di oscure cavità abitate da maschere viventi e animali. I corpi, in scena Juan Loriente e Juan Navarro, sono due cow boy, simbolo, molto più pregnante forse per un argentino come Rodrigo Garcia, di modernità che poi si assumono il gravoso (?) compito di spiegare perchè siamo falsi ed infelici. Attorno a loro simbologie machiste e pseudo-dominatrici, come il toro meccanico, le chitarre o i corni direttamente fallici, sinonimo un po' usurato del dominio dell'uomo sull'uomo delle società capitaliste, come anche il 'micino' predatore, molto simpatico comunque, chiuso in gabbia a spaventare piccoli polli già attrezzati alla catena di montaggio. Figlio di una argentina sofferente, ma forse troppo giovane per vivere dentro di sé la tragedia della dittatura, Rodrigo Garcia appare un po' prigioniero del suo personaggio, del suo ego drammaturgico, e così, troppo impegnato a smascherare, denudare, esplicitare la superficie violenta e volgare dei simboli del potere costituito, della società maschilista e capitalista, del patriarcato avviato ad annullare sé stesso in una agonia sanguinolenta, sembra dimenticare di rallentare il suo sguardo ed approfondire, domandare, scoprire ciò che ai quei simboli comunque ci lega, 'dentro', sia che li denunciamo e combattiamo, sia che vi aderiamo. Il suo teatro rischia così di diventare privo di 'vere' relazioni, da una parte con i suoi significati più profondi, che pure non sono del tutto assenti, e dall'altra con il pubblico, gli spettatori, la comunità, per quindi  confinarsi da solo, direbbe Grotowsky, nel dillentantismo che cessata la spinta della scoperta giovanile esaurisce sé stesso. Rischia cioè di rinnegarsi in una spirale autoreferenziale, in cui simbologie e metafore si confondono e si elidono reciprocamente, alla fine della quale ciascuno si accontenta ancora una volta di completare il suo compitino, Rodrigo Garcia di scandalizzare e noi di scandalizzarci (talora per finta o per dovere).