Parlare del dialogo nell'opera drammatica è parlare dell'opera drammatica stessa, che non è concepibile senza la presenza del dialogo: elemento principale della storia detta, gridata o sussurrata da parte di due attori sulle tavole di un palcoscenico, o da un qualunque altro spazio usato per rappresentazioni. Si può fare spettacolo anche senza dialogo: con scenografie, musiche e canzoni, azioni mimiche

(anche se in questo caso non è escluso un accenno di colloquio per mezzo delle espressioni del viso e dei gesti). Si può fare teatro anche con un monologo, perché in questo caso c'è sempre la presenza immaginaria di un interlocutore muto che può essere la propria coscienza, il proprio passato, il proprio divenire o altro. Ma noi parliamo dell'opera drammatica che nasce quando l'attore incomincia a scambiare opinioni con il coro, e continua con Eschilo che mette in scena il secondo personaggio, e va avanti con Sofocle che mette in scena anche il terzo. Di qui nasce tutto il teatro che conosciamo, dai classici greci ai testi moderni, che utilizzano il dialogo per narrarci le loro vicende tristi o liete che siano, per commentare le stesse alla luce della loro morale o dei loro principi etici e religiosi.
Nell'affrontare il problema del dialogo non possiamo naturalmente trascurare quello del linguaggio che ne è parte sostanziale. Qui non ci sono consigli da dare, cioè non ci sono consigli che possano valere per tutti. In genere possiamo dire che il linguaggio nasce con l'idea stessa del dramma, con il carattere dei personaggi che in esso dovranno vivere. Proprio dalla loro natura nascerà l'incontro-scontro che illuminerà l'intera vicenda.
Facciamo qualche esempio concreto. Viviamo nella nostra epoca e vorremmo esprimerci in modo moderno e comprensibile da tutti. Un obiettivo facile da raggiungere, almeno in apparenza. Chi ci vieta di registrare i dialoghi veri che incontriamo nella nostra giornata al caffè, per strada, in ufficio, dialoghi costruiti con linguaggio "vero", "parlato", e qindi immediatamente percepibili da tutti? Questo sistema, però, ci riserverebbe un'amara sorpresa, perché in questo modo avremo sì raccolto una serie di dialoghi, ma non un solo dialogo teatrale degno di essere proposto a un pubblico di ascoltatori. Sul dialogo preso dal vivo, in altre parole, deve intervenire l'autore drammatico per renderlo teatrale, per dargli cioè il "taglio" necessario che permetta a un attore di interpretarlo e a un pubblico di ascoltarlo.
Il verismo a teatro come in letteratura esise, ed è stato in grado di creare opere pregevolissime, addirittura dei capolavori, ma sarebbe un errore pensare che l'autore abbia trasportato meccanicamente nel suo lavoro il "vero" raccolto intorno a lui. Una sapiente opera di trasfigurazione ha reso quel "vero" creazione autentica dell'autore, e non del bar, della strada, dell'ufficio, sollevandolo dalla piatta banalità, per trasformarlo in uno strumento idoneo per comunicare emozioni.
Nulla a teatro è più falso della verità riprodotta con esattezza. Un vero ubriaco in scena non può che suscitare noia e disgusto, mentre un attore che recita la parte dell'ubriaco è gradito e convicente.
Nella costruzione di un dialogo, poi, è indispensabile tenere presente la regola principale che presiede il colloquio teatrale: il conflitto. "Il teatro è conflitto" si dice di solito, e  mai come in questo caso è possibile esprimere una verità così assoluta. Si può arrivare a dire che non esiste una sola battuta teatrale valida che non abbia al suo interno tracce di una qualsiasi contrapposizione.
Non è necessario uno scontro violento fra i protagonisti del dialogo. Nel "Romeo e Giulietta" di Shakespeare, per esempio, il conflitto si stende lieve sotto il colloquio poetico dei due innamorati, diventa invece doloroso quando accenna all'odio che separa le famiglie Montecchi e Capuleti, o quando si tratta di trasgredire la volontà paterna o la morale corrente, mentre nell' "Otello", il sospetto e il furore cieco di un uomo che si crede ingannato devono lottare contro la passione amorosa per la propria moglie. Nell' "Edipo re" il protagonista combatte contro l'orrenda verità che nasce a poco a poco e si sviluppa nella propria coscienza, attraverso le testimonianze che si succedono. La Nora di Ibsen in "Casa di bambola" contrasta con la mentalità corrente per la propria libera realizzazione, mentre nel "Così è se vi pare" di Pirandello la contrapposizione si svolge entro e contro una società frivola, meschina e spietata.
Non c'è teatro senza dialogo conflittuale, e questo dalle origini fino ai nostri giorni. Una legge fondamentale che attraversa tutte le epoche e tutti gli stili dal dramma epico a quello pastorale, dai lazzi delle maschere della commedia dell'arte alle proposte della scena sperimentale.
Rileggendo queste righe ci accorgiamo di non aver detto nulla di nuovo, ma di aver ripetuto concetti e principi noti fino alla nausea a coloro che si occupano di teatro. Crediamo tuttavia che non siano stati inutili, a giudicare da molti testi, specialmente di giovani, che si accostano al palcoscenico con l'intenzione di poterci saltar sopra. Non si può andare per mare senza rispettare le fondamentali nozioni della navigazione, così non si può far teatro senza seguire le leggi che regolano tale genere di spettacolo. Ogni tentativo di portare una rivoluzione nel suo interno, in nome di una maggiore libertà espressiva è destinato a fallire miseramente se non si accettano le regole fondamentali che presiedono alla finzione chiamata teatro.
Niente di nuovo nelle nostre parole, dunque, come d'altronde dichiarava Molière nel "Don Giovanni": "Noi diciamo sempre le stesse cose perché le cose sono sempre le stesse". Rassegnamoci a queste ripetizioni. Il giorno in cui non serviranno più sarà un giorno felice per tutti coloro che scrivono, interpretano, ascoltano un testo teatrale.