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Specializzato in letteratura anglosassone, e dedito da anni a tradurre Molière, può essere giusto che dica del come e del perché mi sono arrischiato a tradurre Cechov. Nella pratica del teatro, una simile precisazione non sarebbe necessaria: dappoiché una legge alquanto assurda attribuisce ai traduttori quasi per intero i diritti economici che andrebbero all’autore

(ove questi sia morto da più di settant’anni), molti sono gli attori e i registi e addirittura i critici che si sono improvvisati traduttori. La conoscenza della lingua non è richiesta, superflua è giudicata ogni esperienza in proposito: basta allineare sul proprio tavolo le tre o quattro traduzioni esistenti di un dato classico, copiare a corrente alternata ora da questa ora da quella, e il gioco è fatto. Per quel che riguarda l’editoria, dove i diritti d’autore sono ben più misera cosa, il problema ovviamente non sì pone. E qui, dunque, una spiegazione è necessaria: se non è per soldi, perché?
Rispondo. Devo confessare anzitutto una particolare attitudine per le lingue straniere. Ho studiato in vita mia ben nove lingue; e quando — a intervalli ricorrenti — mi prende la voglia di studiare l’arabo, il giapponese o il cinese, solo l’avarizia del tempo mi persuade alla rinuncia. Naturalmente non è possibile sapere nove lingue, se non in modo teorico e limitato, e a seconda dei campi di interesse: un barman può parlare dieci lingue (cioè a dire: può conoscere in dieci lingue i cento vocaboli o frasi necessari al suo mestiere); e lo stesso può dirsi di un chimico, di un chirurgo, di un fisico nucleare, anche se di fatto a loro basta l’inglese; un letterato può usarne utilmente non più di due o tre, un poeta — rigorosamente — una sola. Io parlo, leggo e scrivo assai bene il francese e l’inglese, leggo il tedesco con la facilità di una lingua appresa da bambino ma poco coltivata in seguito, ho studiato il russo con costanza e applicazione per vari anni: altre lingue, come il gaelico, le ho studiate accanitamente, e abbandonate quando scoprivo che non mi piacevano abbastanza. Ma poche cose mi disturbano come il non saper leggere un’insegna in un paese straniero: una volta, in venti giorni in Giappone e quindici in Cina, ho imparato a decifrare un numero di ideogrammi assolutamente soddisfacente per essere un tizio che passava di lì.
Sulla base di questa particolare attitudine, si è sviluppato il mio mestiere di traduttore di opere teatrali. Questo mestiere è stato coltivato, e finalizzato all’altro mio mestiere di autore in proprio: poche cose sono utili, a chi si occupi di drammaturgia, quanto il convivere per un mese o più con un capolavoro per fornire la traduzione italiana: penetrarlo nei suoi elementi costitutivi, studiare ogni battuta nella sua concatenazione con il prima e con il dopo, constatare i rapporti tra linguaggio e psicologie individuali e come l’uno e gli altri si determinino a vicenda...
Ma al di là di questa finalizzazione, il tradurre mi è sempre piaciuto, il tradurre un capolavoro mi ha sempre entusiasmato. Ho tradotto in vita mia centocinquanta commedie e drammi, accumulando un’esperienza che credo notevole. La traduzione teatrale, per giunta, implica una particolare sensibilità per la dicibilità della battuta: e può anche succedere che la perfetta conoscenza di una lingua non sia sufficiente a una buona traduzione teatrale, proprio per difetto di un’adeguata resa teatrale. Le mie traduzioni, posso affermare tranquillamente, si distinguono anche per la presenza di questa caratteristica: esse sono sempre risultate gradite agli attori, che devono — come si dice in gergo — “ mettersi in bocca le battute”.
La frequentazione di varie lingue — anche se tutte appartenenti grosso modo ad uno stesso ceppo — esercita ad attingere la realtà delle “ cose ” al di là della loro formulazione lessicale o sintattica, che sempre possiede un margine di gratuità e di arbitrio. E' una piccola ginnastica da camera che, se praticata con costanza, aiuta a districarsi tra gli “ idola tribus ” di Spinoza o le “ seduzioni del linguaggio ” di Wittgenstein. Quasi tra parentesi aggiungo anche un’altra cosa: operare su una lingua di cui non si ha una conoscenza spicciola e quotidiana permette la raffinata esperienza di gustare le parole e le espressioni nel loro significato originario, etimologico, primigenio: non ancora guastato, cioè, da quell’uso e quell’abuso quotidiano che le trasformano in frasi fatte e in modi di dire. L’espressione italiana “Che peccato!”, ad esempio, ci è troppo nelle orecchie perché si possa pensarla nel terribile significato che ebbe al suo primo apparire; e la gettiamo via, come moneta di basso conio, anche se ci capita di non prendere un tram; ma se fosse uno straniero a doverla decifrare questo significato gli apparirebbe in tutta la sua originaria e non contaminata evidenza.
Tradurre, inoltre, non è attività così tecnica e artigianale da non coinvolgere psicologicamente: senza che ne sappia la ragione, per esempio, io ho registrato una fortissima resistenza a tradurre il Misantropo, ed ho tradotto invece con felicità e facilità il Don Giovanni, che avevo sempre creduto di odiare.
Last but not least, vi è e vi dev’essere la coscienza di che cosa è possibile tradurre dalle varie lingue che si conoscono. Per tradurre, incondizionatamente e qualsiasi cosa, non basta la conoscenza della lingua ma occorre anche quella della cultura e della storia che di quella lingua si sono servite. In italiano, ad esempio, la semplice frase “Questa alleanza non s’ha da fare”, reca con sé l’eco dell’analoga battuta manzoniana; “Spezzeremo le reni a Saddam” conserva il ricordo di uno slogan mussoliniano; e via dicendo. Chi si trovasse a dover tradurre queste battute dovrebbe saperne cogliere anche questo arrière goût, e dunque conoscere letteratura e storia d’Italia. Lo stesso vale per l’attualità: “gambizzare”, “leghista ”, “Ghino di Tacco”, “Mi consenta..” sono nomi e frasi entrati nell’uso in questi ultimi anni, noti solo a chi — per così dire — legge i giornali o ascolta la televisione in Italia. Denis Mack Smith potrebbe anche non conoscerli, senza per questo veder sminuita la propria conoscenza dell’italiano.
Questo grado di conoscenza io lo posseggo (più p meno) per il francese, per l’inglese (e - mi sia consentita l’aggiunta - per la lingua veneta). Il tradurre una commedia contemporanea dal tedesco o dal russo — che presentasse le possibilità di cui sopra — mi costerebbe tali prudenze e tali continue verifiche da rendermela assolutamente antieconomica e inappetibile.
Il caso di Cechov è un caso particolare. Chiunque si interessi professionalmente di teatro ne conosce i capolavori quasi a memoria, ne ha lette svariate traduzioni, sa perfettamente “che cosa” Cechov dice e vuol dire. Oltre tutto, abbiamo affermato in altra occasione  che l’espressione di Cechov passa e si sostanzia nella più rigorosa quotidianità del linguaggio. Non vi sono, per così dire, sottofondi o echi sotterranei, citazioni camuffate, ricalchi di stereotipi. Vi sono, sì, le implicazioni emblematiche dei personaggi e delle situazioni: ma questo è un altro discorso, e non impegna comunque il lessico e la sintassi della cosa detta. “ Fsià Rossia nasc sad ”, la celebre battuta di Ania nel terz’atto del Giardino dei ciliegi, significa letteralmente “Tutta la Russia è il nostro, giardino”: e non nasconde nulla che echeggi letteratura o storia (a parte il fatto che se anche lo nascondesse la traduzione non potrebbe che essere questa!): essa possiede delle implicazioni e delle suggestioni enormi, ma queste sono tutte nella “cosa ” affermata, non nel linguaggio: significa che ad Ania, che ha il mondo e il futuro davanti a sé, poco importa il vecchio giardino dei ciliegi; che quella bellezza può anche essere sacrificata di fronte alla possibilità di far di tutta la patria un giardino... Significa insomma centomila cose, esprimibili e non esprimibili; ma ciò non toglie che quello che Ania dice sia comunque esattamente questo: “ Fsià Rossia nasc sad ”: “ Tutta la Russia è il nostro giardino”.
Tradurre Cechov è dunque possibile — con queste corde di sicurezza — anche a chi possegga del russo una conoscenza libresca e scolastica. L’idea di provarmici è nata autonomamente, in occasione del celeberrimo allestimento strehleriano del Giardino dei ciliegi. Da un lato (e questa è la prima ragione), sulla constatazione dell’inadeguatezza delle traduzioni esistenti; non tanto perché fossero cattive traduzioni, quanto perché l’idea registica di Strehler trascurava l’elemento troppo locale, caratteristico, starei per dire folcloristico, del Cechov comunemente noto per puntare su una maggiore universalità, o vicinanza a noi, dei personaggi e dunque del linguaggio. Le traduzioni di Cechov si muovevano per lo più nell’ambito di una immagine stereotipa, ereditata dalle vecchie traduzioni dal francese, in quell’italiese (il neologismo credo sia di Gabriele Baldini) che era la lingua quasi ufficiale del teatro italiano: dove — per non fare che un esempio — i personaggi si danno un improbabile “voi”, che è quanto basta ad allontanare nella convenzione e nel romanzo quel che dovrebbe essere invece uno squarcio vivo e realistico di vita. Una seconda ragione era l’idea — abbastanza esatta e stimolante, anche se impraticabile e dunque subito abbandonata — di tradurre il Giardino dei ciliegi nella lingua veneta del ‘700. La lingua veneta è una delle lingue del teatro italiano, non fosse altro perché lingua del Goldoni; il Goldoni apparteneva al patrimonio più sicuro del Piccolo Teatro e della storia registica di Strehler, e — soprattutto — nella Venezia del Settecento (quale il mondo del teatro la conosce, cioè appunto attraverso le opere del Goldoni) si realizza una situazione sociale molto simile a quella della Russia nell’ultimo periodo zarista: con il progressivo esautoramento di una classe aristocratica ancora raffinata ma ormai sterile e parassitaria, e la graduale affermazione di un ceto medio borghese, con la sua concreta rozzezza e la sua voglia di fare. Alcune cose, in questa ipotesi, sarebbero state perfette: soprattutto, ricordo, il linguaggio dei servi, le differenze tra il “veneto” di Firs, di Varia, di Lopachin, e la “lingua” di Liuba e di Gaiev... E inoltre, mi richiamo a quanto detto nella prefazione sul teatro di Cechov come coronamento del movimento realistico iniziato da Goldoni e da Lessing: anche sotto questo profilo, molte sono le suggestive implicazioni che l’idea suggerisce... Ma, ovviamente, molte erano anche le controindicazioni, a dimostrazione che non si può sbatacchiare un’opera avanti o indietro di centocinquant’anni: il treno, per esempio, nella lingua del Settecento veneziano non esiste. E a teatro, e non solo a teatro, bisogna pur avere il coraggio di buttar via una bellissima idea quando anche un solo dettaglio la smentisce.
Zio Vania — opera ponte, in un certo senso prova generale del Giardino dei ciliegi — non presenta problemi maggiori. Essa non ha il rigore assoluto del Giardino dei ciliegi, e mai mi sarebbe venuto in mente di tradurla in lingua veneta: molte sono le allusioni a fatti locali e limitati, e lo stesso feroce e grottesco accostamento di elementi comici e drammatici ne fa un’opera non ancora perfettamente risolta: mi riferisco, ovviamente, a un ambito di qualità comunque eccezionale. Il discorso è analogo a quello già fatto. Anche qui, l’eventuale significazione universale passa e si esprime in battute di totale dicibilità e plausibilità quotidiana, senza uscire da quelli che sono i confini culturali e psicologici dei personaggi. Ma questa ipotesi urta alquanto contro l’immagine convenzionale e più diffusa di Cechov, e dunque risulta ostica al teatro italiano. In occasione di un allestimento di Zio Vania mi è accaduto di discutere con Gabriele Lavia sulle cinque parole con cui Sonia inizia la sua ultima battuta: “ Sc’to je dielat, nado jit! ”. Ovvero, letteralmente: "Che ci vuoi fare, bisogna vivere!" Gabriele Lavia, impegnato in una lettura pregnante, intensamente significativa e fortemente “mirata” dell’opera, non si rassegnava al fatto che la battuta di Sonia fosse “anche” e in prima lettura una battuta di assoluta banalità, formata di due frasette che sono quasi due intercalari: e che in italiano trovano il loro equivalente nel rassegnato stringersi tra le spalle di “Che ci vuoi fare”, e nel fatalistico e malinconico invito a constatare che comunque “Bisogna tirare avanti”. Per Lavia, il “Che fare” di Sonia doveva avere l’importanza lapidaria dello “ Sc’to dielat ” di Lenin, o dello shakespeariano “Essere o non essere”; e “nado jit” un forte o comunque eroico invito a vuotare fino in fondo l’amaro calice della vita: “Bisogna Vivere!”, con la “V” maiuscola. Io ribadivo la mia tesi: ogni e qualsivoglia significato doveva esprimersi attraverso e non “contro” la formulazione letterale voluta e proposta da Cechov. É in questo il fascino e la grandezza del mondo di Cechov: nel suggerire grandi cose attraverso i piccoli gesti della vita quotidiana. Trasformare quei piccoli gesti in monumenti di bronzo è molto facile ma molto limitativo.
Naturalmente, uno spettacolo è un esercizio autonomo, e il regista — autore dello spettacolo — può legittimamente deformare un testo ad immagine e somiglianza delle cose che intende dire. Quello che mi interessa far notare, e che giustifica questa nuova traduzione di Zio Vania, è che l’idea di Lavia — se non nel testo di Cechov — trova però le sue giustificazioni nelle traduzioni circolanti, non escluse — ahimè — quelle di illustri slavisti come Carlo Grabher e Angelo Maria Ripellino.
Prendiamo pure la breve battuta di cui sopra:
“ Sc’to je dielat, nado jit! ”.
Traduzioni italiane: “Che farci! Bisogna vivere!” (Grabher); “ Che fare? Bisogna vivere!” (Ripellino). Ambedue le traduzioni spezzano la battuta, rendendone “logica” la sequenza. “ Che fare ” può effettivamente essere un’esclamazione da accentuare con un punto esclamativo, o una domanda (retorica) da evidenziare con un punto di domanda. L’attore deve ovviamente raccogliere l’indicazione: spezzare in qualche modo la frase in due, differenziarne i due elementi: al primo rispondere con il secondo. Nella stesura di Cechov, la virgola non spezza la frase: è appena un respiro (forse solo una necessità grafica) tra due elementi che ripetono la stessa cosa, con banale superfluità: Sonia potrebbe limitarsi a dire “Che fare”, nel senso di “ Non c’è niente da fare”; o “ Bisogna vivere ” nel senso - più colloquiale in italiano - di “Tiriamo avanti”. Cechov vuole che dica tutte e due le cose, ma non ne fa un discorso articolato (domanda e risposta: problema e soluzione) bensì un’unica seppur ripetuta affermazione stereotipa. In italiano, naturalisticamente, potrebbe essere “ Che ci vuoi fare, bisogna tirare avanti”: traduzione che non mi dispiacerebbe affatto, anche se non ho osato proporla. Ma è significativo notare che anche qui le formulazioni più fedeli e pertinenti si troverebbero semmai nei nostri “dialetti”: nel vivo parlato del romanesco, del napoletano, del veneto, del milanese (il "Tiremm innanz" di Amatore Sciesa!), lo “ Sc’to je dielat, nado jit" di Sonia si calerebbe con più diretta spontaneità che non nell’italiano, sempre un poco composto e letterario.
Un altro esempio, laddove Vania aggredisce e incalza Serebriakov (traslittero semplificando la grafia: qui ciò che interessa è soltanto la punteggiatura):
“ Fsié vriemia — i v molodosti i tiepier — ià polucial ot tibià jalovania piatsot rubliei v god — nisc’censkiie dienghi! — i ti ni razu nie dogadalsia privavit mnie chot odin rubl! ”.
Letteralmente: “ In tutto questo tempo — e in gioventù e adesso — io ho ricevuto da te uno stipendio di cinquecento rubli all’anno — un’elemosina! — e mai una volta ti è venuto in mente di aggiungervi almeno un rublo! ”.
Traduzione italiana (Ripellino): “In tutto questo tempo, ora e quand’ero giovane, ho ricevuto da te uno stipendio di cinquecento rubli all’anno. Un gruzzolo da accattone! E non ti è venuto in mente nemmeno una volta di aggiungervi sia pure un solo rublo! ”.    -
La battuta quale è scritta da Cechov è una precisa indicazione psicologica e, per l’attore, anche tecnica. Vania parla qui sotto l’impulso di un’agitazione interiore che stenta a dominare: molte sono le cose che vorrebbe dire, ma queste cose gli si affollano alla mente alla rinfusa, scavalcandosi e sopraffacendosi l’una con l’altra: il filo conduttore del suo pensiero è questo: “ In tutto questo tempo ho ricevuto da te uno stipendio di cinquecento rubli e tu non hai mai pensato di aumentarrnelo ”. Ma mentre dice questo gli preme anche sottolineare due cose: l’enormità di “tutto questo tempo”, e l’esiguità dello “stipendio di cinquecento rubli”. Troppo agitato per dire queste due cose come ordinate postille, le getta nel fiume del pensiero principale, ospitandole in nicchie provvisorie e affrettate ("da giovane e adesso ” e “ un gruzzolo da accattone! ”), che Cechov realizza con adeguata punteggiatura. Di più: le due cose sono in crescendo, la seconda essendo chiusa da un punto esclamativo, che rappresenta un apice di irritazione e di scandalo, e che l’attore dovrebbe arrivare a dire al colmo della rabbia, rosso in viso, per completare poi la battuta quasi in debito di ossigeno.
Ma nulla di tutto questo è inferibile dalla traduzione citata: due virgole sostituiscono le prime due lineette (e “quand’ero giovane e adesso ” viene — chissà perché! —invertito in “ ora e quand’ero giovane”); dopo “ lo stipendio di cinquecento rubli ” un bel punto fermo invita l’attore a fermarsi, riprender fiato, onde pronunciare con la dovuta e composta forza “ Un gruzzolo da accattone! ”, dopo di che la frase seguente è un’altra frase. L’incalzante protesta di Vania è analizzata e scomposta nei suoi elementi costitutivi, regolarizzata in una punteggiatura corretta e formale da documento scritto.
Ultimo esempio, ancor più banale: le considerazioni di Sonia sul proprio scarso fascino, all’inizio dell’Atto terzo: quando una donna è brutta, tutti le dicono:
“ U vas priekrasnie glazà, u vas priekrasnie volosi ”... Cioè: “ Lei ha dei begli occhi, lei ha dei bei capelli...”.
Cechov usa — per occhi e capelli — l’identica espressione, certo a sottolineare la monotonia ripetuta di un complimento insignificante e di prammatica. Nessuno dice a Sonia “ Lei ha degli occhi dolci, lei ha dei capelli che sembrano seta ”... No! Il complimento è al minimo di legge: “ Lei ha dei begli occhi, lei ha dei bei capelli... ”; se Sonia continuasse direbbe “ un bel collo, delle belle gambe”, non certo “ un collo affusolato, delle gambe snelle”.
Questa semplice battuta è tradotta in italiano “Avete degli splendidi occhi, degli splendidi capelli ” (Grabher), oppure “ Lei ha gli occhi belli, ha dei bellissimi capelli ”(Ripellino). Ora, “splendido” può tradurre “priekasnie” in teoria, ma non nella concretezza di questo momento, dove a Sonia (e a Cechov) serve un complimento senza la minima fantasia verbale, la frase quanto più “frase fatta” possibile. Ripellino, poi, distrugge la monotona simmetria dei due complimenti, e per giunta distingue tra occhi “belli ” e capelli “bellissimi”. L’errore psicologico è evidente: “ bellissimi ” — invece del banalissimo “belli” —implica già un minimo di scelta, di riflessione; e Sonia potrebbe trovarvi quel minimo motivo di consolazione che invece non trova.
Eccetera, eccetera, eccetera.

La traduzione che ho proposto nasce insomma dal dubbio che Zio Vania sia stato spesso tradotto con poca cura, e che sia necessario proporre al teatro italiano una versione — mai dirò definitiva! — ma comunque più corretta, ragionata e rispettosa. Essa parte dalla convinzione che Cechov sapesse distinguere i vari gradi dell’aggettivo, e usasse la punteggiatura in modo perfettamente pertinente, e tale da non aver bisogno di correzioni o di aggiustamenti di sorta. Allargando un poco il problema, è forse pertinente notare che Cechov subisce nelle traduzioni italiane (non ho verificato quel che succede nelle traduzioni in altre lingue) la stessa sorte che subì il suo compatriota e quasi contemporaneo Mussorgskij: anche in questo caso (dal Boris ai Quadri di un’esposizione) il pensiero originale venne ripulito e corretto da Rimskij-Korsakov e da altri, e solo recentemente il ritorno alla pagina originale ha permesso di apprezzarne il valore autonomo e insostituibile. Il fatto che anche Cechov abbia bisogno di un certo tipo di restaurazione rientra dunque in una questione più vasta: forse, quella “ripulitura” ha rappresentato storicamente un pedaggio necessario ai “rozzi” russi per la penetrazione e la diffusione in occidente.
Infine: non vorrei che il calore che metto nelle cose che mi interessano desse un carattere aggressivo a queste pagine. Angelo Maria Ripellino è un illustre slavista: la mia e la sua conoscenza della lingua e della cultura russa non sono assolutamente paragonabili, e non è che io non mi senta in grave imbarazzo nel fargli le pulci. Tuttavia, esiste anche l’obbligo di arrendersi all’evidenza, e l’evidenza è quella che io ho cercato di evidenziare con brevi ma concreti esempi. Sento molto l’autorità di chi conosce un dato campo più di me, ma questo non mi impedisce la verifica; se la verifica dà risultati che contraddicono quell’autorità, cerco con accanimento dove “ io ” ho sbagliato; se malgrado l’accanimento le risultanze continuano a darmi ragione, non posso — come già detto — che arrendermi all’evidenza, o — più esattamente — farmi forte di essa.