Pin It

È uno spettacolo che non cerca l’identificazione del pubblico con i suoi personaggi attraverso l’evocazione di situazioni e sensazioni, ma che immerge lo spettatore dentro uno spazio teatrale che gli si costruisce letteralmente intorno. Andato in scena al Teatro di Documenti di Roma dal 29 marzo al 1 aprile, con la regia del giovane Nicola Ragone, “Eyes. Tragedia della vista” è una produzione della Compagnia Tiflos. In linea con i progetti artistici del regista, che lavora sull’intreccio di arti e linguaggi differenti, lo spettacolo mescola video-arte e danza, luci, buio, fumi, suoni, musica, urla, silenzi. I sensi del pubblico sono continuamente sollecitati, al limite della sopportazione, nel tentativo – come si legge nelle note di regia – di «rappresentare l’incomunicabilità che caratterizza il post-moderno».  E “Eyes” punta a questo risultato attingendo al codice del teatro della crudeltà, per costringere gli spettatori a reagire, senza rimanere indifferenti. Quasi rielaborando il concetto di catarsi tragica, lo spettacolo provoca sensazioni claustrofobiche in un pubblico che segue le tappe itineranti della pièce. Spostandosi da uno spazio all’altro, tra le grotte in cui è costruito il Teatro di Documenti, gli spettatori devono aprirsi un varco per guardare le scene, addirittura si cercano il posto a sedere, proprio come se il teatro si svolgesse indipendentemente dalla loro presenza. È talmente vero che mentre in una sala si assiste ad una scena, arrivano urla e lamenti che fanno capire che altrove sta succedendo qualcos’altro, che però non si può vedere. Il tema della vista è centrale, perché le tre protagoniste del dramma sono tre donne cieche, tre sorelle, che sono rinchiuse in manicomio. Imprigionate perché hanno ucciso il padre, colpevole di averle violentate ripetutamente, le tre ragazze sono condannate a morte e la sentenza sta per essere eseguita. Come nella tragedia di Edipo, cui “Eyes” allude inevitabilmente, l’incesto si lega ad una cecità nella quale è trascinato anche il pubblico, il cui sguardo è ostacolato e infastidito di continuo. Che di tragedia della vista si tratti è denunciato fin dal sottotitolo, ma il testo è una riscrittura dei “Ciechi” di Maurice Maeterlink, cui hanno lavorato Nicola Ragone, Donato Robustella e Giuliano Braga. Tra i meriti dello spettacolo va senz’altro segnalata la capacità della drammaturgia di piegarsi alle suggestioni dello spazio scenico, che è sfruttato nella sua complessità. La regia gioca con la compenetrazione degli spazi, che imitano l’ospedale psichiatrico e riproducono il labirinto della mente umana.  Sono sempre le note di regia a suggerire che la cecità e l’incomunicabilità rappresentata altro non sono che un’allegoria di «un sistema sociale incoerente e meccanico» in una «realtà distorta e immobile». Forse anche per questo motivo lo spettacolo si articola in percorsi differenti e gli attori si alternano a interpretare le parti, ogni sera calandosi in un ruolo diverso. Come se ognuno, interprete o spettatore, dovesse in qualche modo provare a respingere gli schemi precostituiti della società, per superare le barriere della comunicazione.