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Insegno storia del teatro all'Università di Venezia. Ogni tanto, specie di sera, scrivo commedie. All'improvviso, interrompo quello che sto facendo, e mi scappa di scrivere battute. Può sembrare romantico tutto ciò, e magari un modo stereotipo da sceneggiato televisivo, ma questa confessione è autentica. Posso dire che colla mano destra, da sempre, studio e produco saggi e volumi di storia della scena,

molto sveglio e lucido, almeno per quanto posaa essere lucido un profezssore universitario. Lo faccio da una vita. Colla mano sinistra, invece, metto su dialoghi. E non penso a corpi di attori, a scene specifiche, purtroppo e per fortuna. Invidio molto il sistema inglese, dove mi capita spesso di insegnare. Là, il playwright è sequestrato dall'Istituzione teatrale perché non faccia altro che scrivere per un determinato casting. E questa contiguità collo spazio materiale dello stage agevola indubbiamente l'oralità della scrittura, produce la sua naturalezza tanto vicina alla sala. Ma , e anche questo può sembrare romantico, si acquista libertà ulteriore senza una metrica precisa che ti condiziona. Nel mio curriculum specifico, il passaggio tra l'attività fredda di studioso, e quella calda di creativo è stato accelerato dall'attività di dramaturg, in quanto nel '91 ho iniziato a esercitarmi in questa direzione allorché lo Stabile della mia città, appunto Venezia, m'ha commissionato un copione per Alberto Lionello che tornava a recitare dopo due anni di sosta per una fastidiosa malattia ai ren, di cui poi sarebbe morto. E io, memore della "Coscienza di Zeno" per lui tradotta in palcoscenico da Squarzina e Kezich, ho raccolto materiali epistolari ricostruendo una giornata tipica di Svevo a Murano, mentra lavorava come chimico negli stabilimenti del suocero. Ecco, come adattatore e come studioso la committenza serve da volano, mi aiuta perché incalza alla consegna, in un certo senso appartiene alla mia identità di studioso. Al contrario, mettere sulla carta delle battute risponde a qualcosa da dentro. Io scrivo quasi sotto dettatura, come in una seduta spiritica. Non so cosa verrà fuori dalle prime battute, non so chi parla, non so cosa avverrà di quello che costui sta dicendo. A poco a poco si mette a fuoco una figura, e poco dopo qualcun altro (non sempre), mentre si delinea un contrasto, un'idea di conflitto. Ma la mia strategia si concentra per lo più sul ritmo grazie a cui immagini verbali si susseguono nella stessa bocca o tra una bocca e l'altra. Mi interessa, infatti, la balbuzie dei concetti, l'economicismo dei moduli espressivi, quello che potrebbe essere chiamato minimalismo. Una certa staticità, un'assenza di gesti importanti, una ruminazione che precede o segue delle scelte rinviate o fallimentari, questo è il territorio umano da me privilegiato. I miei saggi, i miei libri da professore vengono fuori lentamente, le mie commedie in poche sere, a volte in una notte buia e tempestosa, come direbbe il cane di Linus. E nondimeno, è inevitabile, tra le due attività corrono sottili legami. Da studioso della drammaturgia contemporanea, ho analizzato a lungo le categorie che tendono a caratterizzare la scrittura novecentesca, la difficoltà a individuare l'altro, la riluttanza se non l'incapacità di ascoltare, per cui sovente lo scambio interpersonale si risolve in alternanza di monologhi autistici, quasi una tacita convenzione tra l'io e l'altro da sé a turneare i propri momenti affabulatori. Se sono più di due, i personaggi, è assicurata la babele caotica delle "arie", in termini da melodramma, accumulando rumori e distrazioni reciproche entro un vaudeville metafisico da Cechov a Beckett e Bernhard. Qui, sagome rinchiuse nei propri stati egotistici si sporgono a confidarsi grumi onirici, velleità risibili, incubi privati, infastiditi dalle risposte o interruzioni altrui. Allo stesso tempo, non va sottovalutata l'importanza degli assenti, il risucchio operato dai morti che ci tentano e ci invadono e non ci danno tregua, si pensi quale bibliografia fondante all'asse espressionista siciliana da Pirandello a San Secondo. Quando mi rileggo (e non correggo quasi niente), quando riattraverso da studioso le parole depositate sul computer, ritrovo questi stessi schemi, divenuti metafore ossessive e miti-culturali e umorali- personali. In più, ed è un'esperienza recente, che risale a due anni fa circa, ho intensificato la serie di monologhi, o di atti unici monologanti, d'impianto fortemente narrativo. Ho scoperto che, nel caso mio, un monologo può essere intimamente più dialogico rispetto ad un dialogo. Costruisco una struttura in cui c'è qualcuno che ascolta e potrebbe intervenire, se volesse, qualcuno a cui il mio personaggio monologante direziona il proprio racconto-confessione-sfogo. L'io, allora, si inventa e si inventaria la costruzione di sé che meglio conviene al suo Narciso. Dicevo all'inizio di questa poetica elementare che non appena sento le prime battute del personaggio, non so bene chi sia colui o colei che sta parlando. Ebbene, posso aggiungere che non so bene, neppure alla fine, chi sia il personaggio che si congeda, al termine del suo sproloquio. Io mi devo fidare di quello che mi ha raccontato, ma non garantisco che la sua sia una una verità attendibile. Già Pinter, del resto, commentava in questi termini le chiacchiere dei suoi protagonisti. Non basta. Perché a mettere dei paletti nella nebulosa, altrimenti troppo dispersiva, utilizzo non di rado nomi antichi, miti arcaici celebrati da ruminazioni scolastiche o da circolazioni nell'immaginario depositato alle nostre spalle, da Penelope a Medea, da Filottete ad Egisto, da Dafne a Chronos. Li ha raccolti la Sellerio, nella collana diretta dall'amico Michele Perriera, col titolo "Famiglie di notte". Qui, ho notato quanto possa aiutare, non solo lo spettatore/lettore, ma lo stesso autore, cioè me in questo caso. Utilizzare storie precedenti, preconosciute, e dal mittente e dal destinatario, consente variazioni sul tema, un terreno in cui muoversi, che evita lungaggini per introdurre il nuovo, il chi è del Signor Rossi. Non si tratta di eseguire parodie dell'antico, di mettere i baffi alla Gioconda, che è un po' l'atteggiamento delle avanguardie, vedi il futurismo, né di scegliere l'opposto atteggiamento, un ritorno al passato di tipo filologico-conservativo, si pensi a D'Annunzio. No, più semplicemnte il mio è un abbassamento prosaico, un aggiornamento al terzo millennio che recupera lutti e angosce passate declinandole in contesti piccolo borghesi quotidiani. Medea, ad esempio,è una bulgara che legge i tarocchi in una tv privata, l'ingegner Eteocle si lamenta perché il fratello Polinice non rispetta i turni della villa a Cortina, Egisto mostra i bagni di campagna ad Oreste e spettegola agitato dalle ubbie della figliastra Elettra. Non scorre sangue nei miei monologhi, ma un refolo di paura, un sussurro e grido minaccioso incombe sul badinage sfrontato e patetico delle mie derelitte creature.