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Ultima settimana di spettacoli per il Wonderland Festival organizzato con ammirevole piglio costruttivo da un valoroso staff, guidato da Davide D’Antonio e Giovanni Zani, presso lo Spazio Teatro Idra nel bel centro storico di Brescia (www.residenzaidra.it/wonderland). Uno spazio che, nonostante le limitate dimensioni dei locali interni, è stato risistemato in maniera ottimale per contenere un centinaio di spettatori, offrire residenza creativa (o semplice alloggio) agli artisti ospiti e dare mirata accoglienza a un pubblico da interessare ai linguaggi della contemporaneità teatrale, virata “tra fiabe e nuove creatività”. Infatti, è dalla fine di gennaio che questa rassegna dà modo a diverse compagini, perlopiù di giovani, di esprimere il loro immaginario intorno a drammaturgie rivolte a una reinvenzione in termini di fiction fantastica e irregolare di quella stessa fiction tremenda e occlusiva che è diventata la nostra realtà. Nel caso in cui s’è imbattuto chi scrive, si è trattato di una nera distopia scenica intitolata VIRUS e interpretata dalla compagnia CapoTrave guidata da Luca Ricci. Spettacolo del 2010 e tuttavia meritevole di essere recuperato in primis per le sue implicazioni tematiche (di cui dirò fra breve) e, in seconda battuta, in quanto tappa significativa di una storia che – giusto in questo periodo – vede il gruppo indiziato al centro di una felice frenesia produttiva. Recente, difatti, è il successo del primo studio condotto sulla pièce di Enda Walsh MISTERMAN alla rassegna romana Trend diretta da Rodolfo Di Giammarco; mentre ha appena visto il via l’anticipazione primaverile dell’ormai prestigioso festival Kilowatt, manifestazione che Ricci & Co. organizzano ogni estate a Sansepolcro (AR) dal 2003 e dove presenteranno l’anteprima della loro novità NEL BOSCO sabato 28 aprile. Concluso il preambolo, urge ora tornare a VIRUS. Ambientato nell’oscurità dominante di uno spazio contraddistinto da un paio d’architetture di tubi metallici in primo piano, ha per protagonisti due uomini – in tute da lavoro – relegati in un apocalittico underground dove finiscono manciate di ratti morti. Gli animali sono i pestiferi residui di un’epidemia esplosa nel mondo in superficie, nonostante le notizie diffuse da una radio parlino piuttosto di scenari d’ottimistico bengodi e bella vita. Quello che vediamo, però, è chiaramente in contrasto con quanto afferma tale invisibile “voce del padrone”, dall’alto di un apparecchio radio sovrastante significativamente la quarta parete. I topi iniziano a comparire un po’ dappertutto: per terra, allorché la luce di una torcia permette d’ispezionare parzialmente il buio della scena; nell’aria, in cui piombano giù da un tubo collegato con l’esterno; anche dentro un vassoio ricoperto in cui vi dovrebbe essere, semmai, un corroborante pasto. Pure il tappeto sonoro che sottostà all’intera vicenda promana atmosfere thriller e di suspense, frammentato com’è di rumori di passi, cambi di frequenza e campionamenti musicali. Nessuno è al sicuro: neanche la strana coppia riparata in un simile bunker (presumibilmente, in maniera coatta), dove appare addetta a raccogliere e a fare il computo di tale spazzatura, annotando delle cifre su un lavagna stante sul fondo e avente davanti una carrucola su cui scorrono di frequente dei pesanti sacchi. Diversa è la condotta dei due al cospetto di quanto accade. Uno sembra sbattersene delle operazioni di raccolta e calcolo, è piuttosto una sorta di scimmia in gabbia che talvolta s’inerpica sulle sbarre della sua struttura – sita a destra – e tende spesso agguati al suo vicino, aggredendolo, scrivendogli recisi messaggi, recapitandogli sorci e sputandogli in faccia umori virtualmente ammorbanti. L’altro ha un atteggiamento più riflessivo ma non meno apprensivo: osserva ed esamina, raccoglie e prende nota; si trova a doversi difendere e a rintuzzare i colpi del suo vicino; ogni tanto prova a scrivere parole d’amore a un’amata lontana su una piccola lavagna collocata dentro la propria impalcatura situata a sinistra. Parole scritte col gesso, soggette alla cancellazione e che durano fatica a comporsi e a protrarsi in un seguito. Perché è come se fossero divenute una materia fragile, di cui è andata perduta una parte considerevole di memoria, di senso e significato, unitamente a un certo uso. I due non parlano mai, del resto. Da loro provengono solo sospiri e ansiti, gridi attutiti durante le loro colluttazioni fisiche seminascoste nella densa penombra. L’atto stesso della scrittura intima sembra avvenga in virtù di un soprassalto interiore, figlio della disperata necessità di dare sfogo a una speranza che rimanga viva e aperta grazie proprio alle capacità di comunicazione ed espansione intersoggettiva insite nella parola scritta. Esclusi i pochi interventi della voce radiofonica, si è dunque in un contesto di complessiva deverbalizzazione che dà anche la cifra di uno smarrimento e di una struggente mancanza, ulteriormente rimarcati dall’assenza dell’elemento femminile. La donna è soltanto evocata per un attimo attraverso una proiezione video sulla piccola tabella dell’uomo che ha tentato di lasciare per iscritto la persistenza del suo non estinto sentimento. A sostanziare ciò è Pietro Naglieri, il quale sorveglia la propria gamma di emozioni sottopelle con misurata ansietà, compenetrandosi con il fosco dinamismo animalesco e minaccioso di Simone Faloppa. Entrambi opposte tensioni di una medesima intensità, in un gioco teso di chiaroscuri in cui manca proprio il soggetto davvero altro – l’autenticamente diverso – ad alterare, e quindi a scardinare, il vizioso circolare di questa accoppiata maschile votato a una cupa chiusura su di sé. E l’Altro, il Diverso di cui c’è assenza – resa palpabile, come detto, da un’evocazione di somma discrezione, visivamente sussurrata e allusa nella sua mancanza – è appunto la Donna. Ovverosia, simbolica figura depositaria dell’ancestrale mistero inerente la ricezione e la creazione di nuova vita umana; latrice e custode, perciò, di una dimensione dischiusa a un’esistenza futura tutta da crearsi nel colmo delle sue migliori potenzialità. Allora chi riesce a serbare nel proprio animo il pur debole, ma chiaro, riverbero di un simile orizzonte di feconda carica immaginativa e al contempo spirituale può ancora salvarsi, trovando vitale slancio verso una possibile via d’uscita da una condizione di oppressione. E questo grazie al pensiero dell’alterità. L’uomo delle lettere d’amore conquista così, in un pregnante ribaltamento di posizioni, il lato destro lasciato vuoto dall’antagonista e comincia a scalare l’impalcatura ascendendo verso il grosso tubo da cui piovono giù i ratti. Sporco di luce, è pronto ad attraversare il pernicioso condotto. Al di là forse c’è un mondo di morte e desolazione; al di là, tuttavia, si può affrontarlo scopertamente per riaffermare e ridare corso a rinnovate prospettive di liberata Vis esistenziale.

Foto Paolo Lafratta

VIRUS
Ideazione, drammaturgia e scena: Lucia Franchi e Luca Ricci.
Regia: Luca Ricci.
Collaborazione alla drammaturgia e interpreti: Simone Faloppa e Pietro Naglieri.
Voce: Marco Fumarola.
Ambiente sonoro: Fabrizio Spera.
Materiali plastici: Katia Titolo.
Realizzazione scena: Luca Giovagnoli e Stefan Schweitzer.
Organizzazione: Laura Caruso.
Produzione: CapoTrave (www.capotrave.it).
Coproduzione: Kilowatt Festival (www.kilowattfestival.it).