Pin It

Quando un lavoro teatrale si presenta con un titolo che richiama la tradizione della drammaturgia classica occorre non solo, o non tanto, che questo spettacolo rispetti la tradizione d’arte a cui si richiama, ma che soprattutto porti in sé evidenti, seppure nei modi e nei termini che ogni artista liberamente ritiene, le tracce del dialogo intercorso con quella tradizione. Parliamo questa volta di “Troiane”, il lavoro che L’Accademia degli Artefatti, ha proposto nel teatro di Noto, in Sicilia, il 26 aprile scorso, in coppia con “Mikado” (traduzione di Pieraldo Girotto e Luca Scarlini): due atti unici tratti da “Spara! trova il trova il tesoro e ripeti”, la serie scritta dal drammaturgo scozzese Mark Rawenhill che sta segnando profondamente in questi anni l’attività della compagnia romana. E si tratta anche questa volta di una riflessione sulla genesi profonda del conflitto tra gli uomini (e soprattutto del conflitto che separa la civiltà occidentale dalle altre) e delle sue diverse modalità e implicazioni. Tuttavia, restando all’assunto precedente, perché richiamarsi a Euripide? Si badi bene: parliamo di Euripide, del drammaturgo e teatrante, dei suoi testi, della sua straordinaria capacità di dirci ancora di noi, del nostro essere uomini e donne oggi, non parliamo in nessun modo di qualsiasi neoclassicismo estetico e/o ideologico che nei secoli dalla drammaturgia classica è sgorgato. Non ce lo aspettiamo, non lo desideriamo e anzi consideriamo assolutamente sbagliata e artisticamente sterile qualsiasi forma di neoclassicismo. Ma, in questo pezzo degli Artefatti (pur partendo dal testo di Rawenhill), il dialogo con l’omonima tragedia euripidea, se c’è mai stato (la condivisione del giudizio di condanna della disumana crudeltà della guerra, certo), appare lontano, confinato nel titolo, superato con eccessiva frettolosità. Detto questo, lo spettacolo è importante e sa mettere le mani addosso al pubblico: è densissima la riflessione sulla ferocia umana e sull’incapacità, tutta occidentale, di capire le ragioni degli altri prima che queste si trasformino in disperazione e tragedia, è interessante l’idea di dare a ciò che accade una dimensione metateatrale, incorporando in scena un frammento, silenzioso e smarrito, di coro femminile e, al contempo, di giocare con l’inquietante presenza tra gli spettatori di un terrorista incappucciato che poco dopo, a sipario finalmente aperto, si farà saltare in aria, ma sopratutto è straordinaria la prova d’attrice di Francesca Mazza, capace di attraversare l’apparente semplicità basica e tagliente del testo di Rawenhill («…perché ci bombardate? Noi siamo i buoni, siamo il bene. Perché ci bombardate?») con una imponente gamma di sfumature interpretative che, davvero, valgono da sole l’intero spettacolo. Di diverso respiro è Mikado, il secondo pezzo visto a Noto: appena una diapositiva dichiara in scena un giardino innevato e una panchina. Poi un colloquio rarefatto, parole di domestica intimità, di semplicità estrema, tra due uomini di mezza età (Fabrizio Croci, Damir Todorovic) che a poco a poco svelano non solo il loro legame sentimentale, quanto piuttosto l’incapacità di assumere veramente l’uno la prospettiva dell’altro: l’importanza degli oggetti, il tempo, le aspettative, i desideri, le frustrazioni. Tra i due c’è la malattia: un cancro che ritorna in tutta la sua aggressività dopo l’ ennesimo ciclo di terapia e, soprattutto, c’è l’altro cancro, quello ben più feroce, spaventoso e pervasivo di una rabbia silenziosa e impaurita, sconosciuta a entrambi, eppure presente, devastante, capace di sfociare nella perversione, nel desiderio malato ed indicibile dell’uno che anche l’altro possa ammalarsi del suo stesso male. E infine il dubbio, o la domanda feconda se si vuole, se averlo pronunziato ad alta voce quel desiderio malato, sia catastrofe o catarsi.