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Classe 1980, Marco Calvani è un regista e un drammaturgo che ha all’attivo importanti commissioni e numerosi riconoscimenti internazionali. Dal 3 al 13 maggio è stato in scena al Teatro Vascello di Roma con il suo “Penelope in Groznyj”, uno spettacolo ispirato al mito classico dell’Odissea, scelto per rappresentare la tragedia della guerra in Cecenia. La pièce, che ha debuttato al Kunsthaus Tacheles di Berlino nel 2009,  conferma l’interesse dell’autore per un teatro che nasce dall’urgenza di dare voce, di rendere universali, come il mito, storie particolari. Come nelle altre sue opere, il drammaturgo cerca di costruire un teatro che possa essere un «microscopio della propria epoca», per «ridare voce a chi l’aveva perduta». A un mese dal festival di Spoleto cui parteciperà con “Roba di questo mondo”, Marco Calvani ha risposto a qualche nostra domanda su “Penelope in Groznyj” e, più in generale, sulla sua drammaturgia.

In che modo il mito consente di raccontare la tragedia della Cecenia?
Purtroppo la guerra in Cecenia, la seconda guerra cecena, quella di Putin, è stata una guerra molto dura, brutale, l’apoteosi del male perpetrato senza alcuna distinzione su uomini, donne e bambini, un calpestìo “gratuito” della dignità umana. In un certo senso utilizzare il mito per raccontare questa brutalità mi ha - ci ha - consentito una libertà di espressione notevole. Innanzitutto ci ha “difeso”, ci ha permesso di raccontare una realtà così lontana da noi sia per vaghezza di memoria storica sia per mancanza di esperienza diretta. In secondo luogo, il mito omerico di Penelope applicato alla crudezza della realtà cecena ha permesso un ampliamento ed un’universalizzazione della tematica. Dopotutto io volevo raccontare attraverso la guerra cecena l’orrore e la terribile natura di tutte le guerre, dove terrore e orrore sono all’ordine del giorno, dove la situazione di emergenza altera brutalmente qualsiasi ruolo, convenzione formale, ogni rapporto ed ogni gesto.

Chi è la Penelope protagonista della tua pièce?
La Penelope che appare in scena ha ben poco di omerico: donna sola, moglie di un ex-ministro sospettato di collaborazionismo, viene rapita e torturata dai russi. È insidiata da un Antinoo folle, demoniaco, che ha come unico obiettivo la distruzione della popolazione civile. L’aspetto più omerico della mia Penelope sta nella donna che non si arrende mai, in quella figura femminile astuta e sofferente che non smette mai di sperare. Nonostante i soprusi, l’attesa di un uomo che tutti danno per disperso, nonostante una terra, la sua, devastata e violentata, lei dice: “Si sono presi molto di me ma non la mia anima e le sue ferite”. Una donna integra dunque che si eleva a rappresentazione di un popolo la cui natura indipendentista è più forte di qualsiasi affronto. I proci che invadono la sua casa e si cibano dei suoi averi, dunque, non sono altro che i russi invasori e tiranni in un paese che a loro mai, comunque, si concederà.

Da dove nasce l’urgenza di parlare della guerra in Cecenia?
Dall’aver letto e riletto i libri della Politkovskaja. Più entravo dentro l’orrore vivo di quelle pagine e di quei racconti, più nasceva l’angoscia e la strana vergogna di sapermi all’oscuro e di scoprirmi ignorante. Ma non ero il solo. Purtroppo ero stato ben educato a quell’ignoto, complice il silenzio di molta della stampa internazionale e di tutte le cancellerie del mondo, specialmente quelle europee che per dovere istituzionale o per sola vicinanza geografica avrebbero potuto e dovuto intervenire. Senza aver deciso niente di preciso, ho sentito che avrei potuto usare la sola cosa che ero in grado di fare per raccontare e per ridare voce ad un popolo che l’aveva perduta.

La tragedia della storia supera ogni immaginazione. Che linguaggio hai scelto per portarla in teatro? Qual è lo spazio concesso alla fiction?
Ho usato un linguaggio più lirico rispetto ad altri miei lavori. L’impianto della tragedia classica sosteneva questa mia ambizione e allo stesso tempo mi imponeva una sfida. Volevo accostare alla crudezza della vicenda e dell’azione scenica una parola più evocativa. Inoltre mi sono affidato tantissimo al linguaggio del corpo dei miei 16 attori che, dall’inizio alla fine dello spettacolo, vivono ogni sera sulla pelle l’abuso ed il dolore di essere spogliati (anche letteralmente) della loro dignità. Le ancelle (nella mia versione sono delle giovani studentesse), ad esempio, sono in scena dall’inizio alla fine in un climax di annientamento emotivo e fisico esclusivamente suggerito dai loro corpi: inizialmente giovani e belle; alla fine, inanimate, delle bambole spezzate dal futuro negato. Questa a mio avviso era la più efficace delle sintesi per suggerire le atroci ripercussioni che la guerra ha sull’essere umano, quei terribili colpi inferti ai diritti umani, che poi sovvertono qualsiasi regola e condizione. Alla fiction ho concesso quel limbo che vive tra il mito e la realtà. La fiction risiede nell’adattamento dei personaggi epici che si sono dovuti accomodare nella verità della situazione storica e geografica. In questo la dedizione, la passione e l’impegno di tutti i miei attori sono stati fondamentali.

Quali sono i modelli di ispirazione del tuo teatro?
Drammaturgicamente tutto il teatro britannico dei nuovi arrabbiati che ho conosciuto e vissuto grazie a Barbara Nativi, la mia prima grande “maestra”. Tra i tanti: Mark Ravenhill, Sarah Kane, Edward Bond; ma anche il teatro “passionale” di Emma Dante, quello imprevedibile di Robert Lepage, quello estetizzante di Bob Wilson, quello spiritoso di Alex Rigola. Ammiro e coltivo lo studio soprattutto degli autori che scrivono le loro storie più con l’esperienza del corpo che con quella puramente intellettuale e che amano confrontarsi direttamente con gli interpreti.

Che cosa pensi del teatro civile?
So a cosa ti riferisci. E ci sono esempi straordinari, in Italia e non solo, di Teatro civile. Eppure non credo in questa etichetta. Ho letto da qualche parte che hanno definito la mia Penelope come un classico esempio di teatro civile. Non mi dispiace, sia chiaro, ma il punto qui è un altro: io non saprei come altro identificare il ruolo del Teatro se non col suo essere “civile”. Non è forse lo specchio delle virtù e dei vizi degli uomini?  Il Teatro non diventa forse Arte quando acquista il diritto alla rappresentazione della realtà in cui si inscrive?  Io credo che il palcoscenico sia per sua stessa natura e fortuna un luogo da utilizzare per riflettere e far riflettere sulla memoria e sulla collettività, sugli accordi e i disaccordi del vivere comune. Il teatro è pur sempre, volente o nolente, una manifestazione artistica della civiltà. Il teatro “è” civile. Sempre. Tra l’altro credo che sia sempre stato (e forse mai come oggi) il regno della maggiore libertà di espressione. Walter Benjamin sosteneva la morte del Teatro. Beh, il Teatro non è ancora morto – grazie a Dio - è solo un po’ moribondo. In ogni caso, il Teatro dovrebbe proprio nella sua difficoltà a mantenersi in vita, riscoprire ancora una volta la sua primitiva ragione di esistere. La sua morte potrebbe allora diventare la sua ragione per sopravvivere, quando e se gli artisti ed il pubblico usassero il teatro come un microscopio della propria epoca, creando così una personale reazione. Più il Teatro sarà in grado di conservare questo obiettivo, più guadagnerà il diritto all’immortalità.

Ci puoi parlare dei nuovi lavori in programma e in particolare di quello che presenterai al Festival di Spoleto?
Al prossimo Festival di Spoleto presenterò un progetto nato dall’incontro con Neil LaBute, avvenuto due anni fa a Barcellona quand’eravamo entrambi ospiti e “professori” della Sala Beckett. È un progetto abbastanza singolare: abbiamo deciso di confrontarci scrivendo ciascuno un atto unico, partendo da un tema comune e concordato assieme, la Famiglia. A Spoleto dunque Neil dirigerà “Roba di questo mondo”, la mia pièce, che vedrà come protagonista Andréa Ferréol – per la prima volta su un palcoscenico italiano - affiancata da Alberto Alemanno; mentre io curerò la regia di “Incantevole”, la sua pièce, con Urbano Barberini ed Elisa Alessandro. Il prossimo anno, invece, il Teatro Metastasio Stabile della Toscana mi dedicherà una personale che vedrà la messa in scena di alcuni dei miei ultimi lavori (tra cui Penelope in Groznyj) e per la quale ho in preparazione anche un nuovo spettacolo attorno a “Dracula” di Bram Stoker.

Qualche parola per descrivere il tuo teatro.
Il mio è un teatro che vuole fare esperienza della vita reale. È un teatro che crede nel valore delle piccole cose, nel Bene e nel Male. Un teatro che racconta di ferite particolari con l’ambizione di farle diventare universali. Il mio è un teatro molto intimo, nasce dalla consapevolezza dell’individualità dell’esperienza e dell’importanza della condivisione. Per me il Teatro è un atto di denudamento, il disfarsi della propria maschera di ogni giorno, l’esternamento del proprio essere, non solo allo scopo di mostrare noi stessi. È un atto grave e solenne di rivelazione. Quello che mi interessa è l’istinto, il sentimento immediato, la sensazione nel corpo, l’azione: la sens-azione. Per me la scrittura drammaturgica e la creazione sul palcoscenico nascono e devono corrispondere sempre ad un’urgenza personale, ad un movimento legato alla specificità del momento. Un teatro che mira ad una estetica molto matematica ma che al suo interno, forse, non ha niente di bello da mostrare, se non l’anima di chi lo fa.