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Si è chiusa, il giorno della Festa della Repubblica, la stagione ufficiale del Teatro Stabile di Genova, con l'ultimo spettacolo della diciassettesima edizione della “Rassegna di Drammaturgia Contemporanea”, una mise en espace che sotto un unico titolo raccoglie tre atti unici dell'americano Ethan Coen, noto soprattutto per le opere cinematografiche a due mani con il fratello Joel, tre brevi drammaturgie con lo sguardo rivolto sul mondo del lavoro in grandi corporation, nell'ordine “Peer Review”, “Struggle Session” e “Homeland Security”. Si alternano sulla scena, segnata da una significativa porta e da semplici arredi mobili che quasi 'ballano' al ritmo della bella colonna musicale, sorta di session rock e jazz, i giovani attori dello Stabile, carichi anch'essi di ritmo talora irrefrenabile nel immergersi nei diversi personaggi. Sono Antonio Carli, Francesca Agostini, Emmanuele Aita, Lorenzo Terenzi, Giovanni Serratore, Damien Escudier, Gianluca Viola, Marisa Grimaldo, ben diretti da Matteo Alfonso che usa una sintassi molto musicale che ricorda Brodway e molto insiste sul comico e sul grottesco. Claudia Monti, infine, infine cura i movimenti scenici, quasi una coreografa. Riflessione ironica ed amara sulle relazioni personali sottomesse e piegate alle esigenze del 'capitale', sembra trasfigurare la rabbia in ironica alienazione che, soprattutto nella versione italiana di Luca Viganò, metaforizza in uno slang italiano solo apparentemente aspro ma virato sul più rassicurante registro comico, con risvolti espressivi talora fantozziani nella resa scenica e nella elaborazione attoriale, le angosce e anche le perversioni psicologiche indotte da uno sfruttamento che appare cieco e incomprensibile. Non alieno dal prefigurare talora una sorta di Happy End un po' avaro e un po' americano, lo spettacolo scivola via così agile e coinvolgente, sia per i protagonisti indotti talora a qualche eccesso di entusiasmo autoreferente, che per il pubblico che ha mostrato di lasciarsi volentieri travolgere dai ritmi di una messa in scena anche frenetica. Si perde peraltro in parte, quella che si intuisce essere l'aspra e angosciosa alienazione dei personaggi e anche la rabbia del drammaturgo, celata certo nel suo stile che tende all'ironia e al grottesco, ma non per questo meno amara e forse un po' travisata, nella trascrizione scenica, da percezioni più cinematografiche che drammaturgiche. Forse solo in “Homeland Security” la disperazione di perdersi in un mondo privo di riferimenti comprensibili e condivisibili trova spazio per emergere tra testo e sintassi scenica. Spettacolo interessante che conferma, ove ce ne fosse bisogno, la bontà della scelta di gettare uno sguardo attento ai fermenti della drammaturgia contemporanea, anche a quella italiana un po' dimenticata, che lo Stabile genovese potrà confermare, come già accaduto in passato, anche nel prossimo cartellone in abbonamento. Un buon testo, attori consapevoli e di buona qualità, non del tutto al riparo da un pò di cabotinage, ed una regia attenta, hanno dunque costituito un formula cui il pubblico ha risposto con un entusiasmo anche sorprendente.

Foto Patrizia Lanna