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È passato molto tempo, moltissimo teatro e molta riflessione critica sulla sostanza stessa di ciò che il teatro è e può essere ancora oggi, ma fa sempre effetto trovarsi a leggere, stampate su libro, parole che prima, per anni, hai solo ascoltato nel buio di un teatro. Ancora oggi, in altre parole, il rapporto tra la drammaturgia della parola e quella della scena, semmai questi due ambiti possono essere separati, è denso di interrogativi, dinamiche e potenzialità espressive da esplorare. Parliamo in questo caso del teatro della compagnia “Pubblico Incanto” (Tino Caspanello, Cinzia Muscolino e, tra gli altri, almeno Tino Calabrò) e, a dieci anni dal debutto di “Mari”, spettacolo folgorante e amatissimo da pubblico e critica in Italia e in Europa (in Francia soprattutto), parliamo del volume “Tino Caspanello, Teatro”, edito proprio in questi giorni da “Editoria e spettacolo” di Roma per la cura di Dario Tommasello che offre ai lettori in postfazione un’acuta lettura critica dei testi scelti e, complessivamente, di questa straordinaria esperienza teatrale. Fanno effetto, a leggerle, le parole di Caspanello, perché questo drammaturgo (ma anche attore e regista) ha saputo costruire negli anni della sua elaborazione artistica un proprio e autonomo linguaggio teatrale il cui ingrediente primo e fondamentale è il silenzio. Il silenzio, con tutte le dimensioni che ad esso possono legarsi come naturale e strutturale espansione: vuoto, spazio, margine, attesa e attenzione, oscurità e luce ferma abbagliante, amicizia, mistero ineffabile, inquietudine, paura, rarefazione e dilatazione di oggetti e parole, ascolto, immobilità ed estrema lentezza, amore come gesto, accoglienza, possibilità di dare e ricevere un senso che vada oltre la velocità (e la superficialità) della comunicazione contemporanea. Ed in questa dimensione si colloca con chiarezza la parola, ogni parola, ch’è capace di restar sospesa in scena e lasciarsi ascoltare, percepire, capire nel suo significato più profondo: la parola che è lingua ovviamente (quindi cultura, società, tradizione teatrale, poesia se si vuole), lo è consapevolmente e lo è soprattutto nella dimensione della provincia. La provincia siciliana certo, in tutta la sua concretezza, e il dialetto particolarissimo e tagliente di un angolo di Sicilia nel messinese (è nel borgo di Pagliara infatti, duemila anime appena sopra Roccalumera, che questa esperienza artistica è nata e, sostanzialmente, continua a respirare e svilupparsi). Ma diciamo qui della provincia come dimensione profonda, separata, paradossale, eppure interna e “carnale” della cultura contemporanea, ineludibile richiesta di ascolto, autenticità e umanità che però, una volta acquisita come intelligente prospettiva sul mondo, del dialetto può anche fare a meno: solo quattro dei sette testi compresi nel volume sono infatti in dialetto (Mari, Rosa, ‘Nta ll’aria, Malastrada), mentre in lingua si leggono Interno, Sira, Fragile.
PAOLO RANDAZZO

Teatro
di Tino Caspanello
Editoria e spettacolo, Roma 2012
Pagg. 218 € 15,00
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