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Napoli Teatro Festival Italia 2012. Anche quest’anno presenti. Non potevamo mancare, ovviamente. Mentre il Festival inizia con THE MAKROPULOS CASE, visto due giorni dopo dal debutto, abbiamo optato per una conoscenza ormai nota al Festival: Davide Iodice. L’estate napoletana, finalmente calda, si apre anche quest’anno con gli appuntamenti del Festival. Ci si rivede dopo un anno, ci si incontra,

si raccontano le novità, ci si organizza sulle date e i giorni in cui ci si può incrociare a teatro. Dall’8 al 10 giugno in scena al teatro San Ferdinando di Napoli UN GIORNO TUTTO QUESTO SARÁ TUO, spettacolo contenuto all’interno del Napoli Teatro Festival Italia 2012.  Parola d’ordine: la memoria. Davide Iodice ama lavorare attraverso laboratori particolari, profondissimi, speciali.  Ricordiamo qualche anno fa, sempre in occasione del Festival, il lavoro svolto con i senza tetto “tradizionali” e molti “nuovi” poveri inimmaginabili. Oggi Iodice lavora con padri, madri, figli e figlie. È inevitabile riportare sulla scena un’analisi di un nucleo fondamentale nella vita di ognuno di noi, sia esso positivo che negativo, che per molto tempo è stato osservato attraverso le lacerazioni edipiche. Genitori e figli invece costituiscono il fondamento della storia personale ma anche di una Nazione. Ecco perché sulla scena non troviamo solamente attori poco professionisti che raccontano le loro storie personali, ma tasselli di una storia più ampia che è quella della nostra Italia. Il risultato potrebbe correre il rischio di cadere nel banale patetismo, nel patriottismo ormai esageratamente sfruttato, nella commozione voluta per accalappiare l’applauso. Nonostante questi elementi si ritrovino inevitabilmente nel corso dello spettacolo, quando si raggiunge un livello di esagerazione che potrebbe diventare “stucchevole”, lo spettatore viene invece riportato all’attenzione, alla curiosità, alla sorpresa visiva. Si sceglie di presentare i personaggi sulla scena aperta, seduti su poltrone. L’impressione visiva è quella di immagini senza tempo, che si muovono nella semi oscurità del palco, anime- contenitori di storie; tutto questo mentre gli spettatori si siedono in platea. La scena viene illuminata da abat-jour e lampade varie che evidenziano, di volta in volta,  dei luoghi particolari, rendendo la luce morbida, ricca di chiaroscuri, come se ci trovassimo davanti a dei flashback. L’utilizzo di particolari e numerosi oggetti collega le storie ai protagonisti, riempiendo notevolmente il palco.  Anche i suoni appaiono  elementi fondamentali e vengono amplificati, ripetuti, sottolineati, poiché i binari della memoria viaggiano anche attraverso l’udito e l’olfatto. Nonostante possa apparire tutto fortemente realistico, in realtà lo spettacolo è ricco di allegorie e simbologie. Dal pagliaccio  triste che diventa cantastorie e portavoce, all’uomo-cane, simbolo della fedeltà e del legame inesorabile, alla morte rappresentata dall’uomo senza volto vestito da nazi-fascista, alla gallina, simbolo antropologico fondamentale della religiosità campana. La scena appare come una grande scatola cinese da cui fuoriescono scene sempre diverse, personaggi complessi, brandelli di vita. C’è qualcosa che unisce tutto questo: della stoffa. Mentre il rumore della macchina da cucire riappare incessante in alcuni momenti, grandi teli fuoriescono dalla botola o avvolgono la scena. Prima quello nero, poi quello rosso, poi il tricolore. La storia dell’ Italia che non c’è più, perché questo è quello che proviamo vedendo questo spettacolo, viene narrata dagli Italiani di un tempo, da quelli che hanno vissuto la Guerra Mondiale, i bombardamenti ( peraltro rappresentati sapientemente con boati che accompagnano l’accendersi e spegnersi delle abat-jour), gli attentati, fino all’ultima scena, il black bloc che lancia l’idrante. Davvero un genitore oggi può dire “un giorno tutto questo sarà tuo”? I ricordi, la memoria e ciò che è stato. Ma non parliamo solo della banale idea “ un tempo si viveva meglio”: non è sempre stato vero. Ecco l’eredità contemporanea. La memoria scorre anche su fili che avvolgono il palco: tre vecchie appaiono sulla scena, tessono i fili come le Parche di memoria classica, anche se visivamente ricordano le streghe del Macbeth shakespeariano. La scena finale viene affidata ad una madre anziana, che viene avvolta dal figlio nel tricolore, quel pezzo di stoffa che la donna ha cucito nel corso dello spettacolo  e che sembra ancora un po’ storto. “Lo aggiustiamo?”, dirà il figlio alla madre. Questa nostra Italia potrà essere aggiustata? Gli spettatori appaiono commossi, la signora dell’ultima scena anche, gli altri attori ricordano il signor Giuseppe, uno dei padri che per un malore non è riuscito a debuttare. Tra musiche emozionanti, ombre che ricordano i dipinti di Magritte, accenni alla marionetta di inizio ‘900,  avremmo preferito un finale meno lungo, in cui la nascita dell’albero della vita rimanesse accennata dalla madre ex sessantottina che invitava i compagni di scena a piantare alcuni elementi della natura e a sperare ancora. (foto di Francesco Squeglia)

L’apertura del Napoli Teatro Festival 2012 viene affidata a Robert Wilson, uno degli artisti più celebrati al mondo.  In rigorosa prima nazionale, l’opera riprende il testo del drammaturgo boemo Karel Čapek. THE MAKROPULOS CASE, in Italia conosciuto come L’AFFARE MAKROPULOS, è in scena dal 7 al 9 giugno preso il  Teatro Mercadante di Napoli. Tre giorni di repliche, un tripudio. Ebbene sì, l’atteso lavoro di Wilson, nonostante la difficoltà della lingua polacca, riempie il teatro e scatena gli applausi. Come capita spesso, l’idea di  un lavoro nasce per caso: Wilson si trova a Praga, incontra la sua amica attrice Soňa Červená, lei gli propone il testo di Čapek, storia ormai in disuso e poco rappresentata. La storia, legata al cognome Makropulos, è conosciuta ai più attraverso l’opera lirica e il libretto di Leoš Janáček,  compositore ceco di inizio ‘900,  ricordato per il suo fortissimo pessimismo che influenzò la resa dei personaggi. Il testo di per sé rappresenta un’approfondita analisi della vita, degli interrogativi dell’uomo, del suo essere, esistere e vivere.  Čapek crea il VĚK MAKROPULOS  nel 1922;  l’opera nasce, quindi, dalle mani di un autore proveniente dal territorio austro-ungarico. Tutti elementi che ricompongono pezzo per pezzo il substrato culturale del testo originario. Che peraltro Wilson rispetta ma che rende con un allestimento geniale. Lo stesso regista afferma che le sue scelte cadono spesso su testi molto diversi tra loro proprio perché tenta una rielaborazione scenica che vada completamente in contrasto con le precedenti. Vediamo allora cosa c’è di nuovo. L’allestimento prevede due schermi con sottotitoli in italiano e inglese: l’utilizzo della lingua ceca fornisce sonorità sconosciute al pubblico italiano. La durezza della lingua straniera si unisce alla particolare recitazione e allo studio sul movimento che caratterizza gli attori provenienti dal Teatro Nazionale di Praga. Un pannello con lettere luminose accoglie la platea. E ed M si moltiplicano sul fondo nero: Emilia Marty. Questo è il nome con cui conosciamo la protagonista, interpretata da una superba Soňa Červená. Ma non è il suo vero nome. Solo alla fine del secondo atto riusciremo a comprendere la molteplice identità di questa grandissima cantante che ha girato il mondo, acquisendo sempre più fascino. La sua età? Più di 300 anni. Il tema dell’elisir di lunga vita non è una novità ma qui è interessante pensare in quale periodo storico il testo sia stato scritto. Il golfo mistico presenta l’orchestra dal vivo, in cui non ritroviamo di certo l’opera lirica ma un’ironica rappresentazione di stralci di opera, di musica da cabaret, di dissonanze alla Schoenberg e di suoni propriamente applicati alla gestualità di ogni singolo personaggio.  La giovane figlia di Makropulos, medico dell’Imperatore, è costretta a soli 16 anni, a bere la pozione inventata dal padre, poiché l’Imperatore vuole prima testarla su qualche essere umano. Costretta a vivere in eterno tra fama e fascino, svelerà alla fine intrighi, documenti, figli, pronipoti, e spiegherà le sue innumerevoli identità con una constatazione semplicissima: come avrebbe spiegato al mondo intero una vita che dura da più di 300 anni senza cambiare neanche un’identità? Tutti i personaggi sono collegati tra loro: perno fondamentale è Kristina, giovane cantante che lavora nella compagnia di Emilia Marty. Il padre della ragazza lavora per l’avvocato che si occupa del caso “Makropulos” poiché due ramificazioni della famiglia pretendono l’eredità. La ragnatela di enigmi lega tutti i personaggi, ma non appena ne muore uno la finzione si sgretola.  Gli attori indossano abiti atemporali, colorati, quasi fossero di cartapesta, ricordando a tratti le scene del mago di Oz o del film “La fabbrica di cioccolato” degli anni ’70. Ognuno di loro ha una maschera mimica particolare, ognuno  si muove saltellando, indietreggiando, danzando, caricando alcuni gesti e movenze che rappresentano univocamente la loro personalità. Questi personaggi dalle voci artefatte, appaiono come figurine da cartoon,  sagome uscite fuori dai libri animati, quelli per bambini, marionette del teatrino, pedine di una dama. Sembra che un artefice più grande stia dirigendo i fili di questi esserini. Il gioco della vita diventa ironia che pervade i gesti, la mimica, i suoni, la musica. Quest’ultima accompagna ogni singolo gesto dei personaggi, ma soprattutto i suoni onomatopeici riproducono  il cigolio della porta, lo squillo del telefono, ricordando i film muti e i primitivi effetti sonori fuori campo, con un tocco di cabaret mitteleuropeo. La scena, apparentemente vuota, non ha nulla di realistico. Viene sviluppata in verticale, in altezza, con pile di libri e documenti che si alzano dal pavimento come enormi fisarmoniche, costruzioni di legno e scale, come venature di una scena da smontare sulla quale vive la cantante protagonista, botole che salgono e scendono come ascensori, carrelli e fili d’acciaio, tutto scorre dal basso verso l’alto e viceversa, scandendo le entrate e le uscite dei personaggi.  Ancora una volta la vita umana diventa metateatrale: la farsa delle molteplici identità, la finzione, il mistero, la cantante fuori scena nella scena reale. Ma c’è di più. Il personaggio dell’uomo con il bastone, alto, vestito di nero, con cappello e lunga treccia, è il passepartout scenico per eccellenza: introduce gli atti e le scene, recita le didascalie, porge gli oggetti agli attori, dà indicazioni attraverso gesti, commenta, affianca, diventa ombra. Un coro racchiuso in un unico personaggio, che diventa anche portavoce dell’autore e colui che  dirige i fili di queste marionette. Una volta scoperto che la divina Emilia Marty altro non è che la figlia del famoso medico Makropulos, una volta saputa l’esistenza dell’elisir di lunga vita, quali interrogativi nascono tra i personaggi? Divulgare al mondo intero l’esistenza di una pozione di lunga vita o tenerla nascosta? Farla bere a tutti o solo ad alcuni eletti, creando “un’aristocrazia di eterni viventi?”. Emilia Marty, adorata e amata dal mondo intero, distrugge il mito della vita eterna:  vivere per oltre 300 anni significa sopravvivere nel corpo ma aver perso l’anima già da tempo, significa stancarsi di tutto perché dopo 300 anni ci si stanca anche di amare. Tra nuove sperimentazioni novecentesche e nuovo teatro di regia, il testo di Čapek approfondisce gli interrogativi dell’uomo di inizio secolo. Ma Robert Wilson ritorna a far riflettere anche l’uomo del secolo successivo.

Il Napoli Teatro Festival Italia 2012 presenta in scena anche autori campani, come il caso di Vincenzo Borrelli, autore, regista e protagonista dello spettacolo TOMMY…NON APRO!!! in scena dal 10 al 12 giugno presso Galleria Toledo. Borrelli, come sottolinea in un intervento  a fine spettacolo, lavora da 14 anni con i ragazzi, dirigendo un’accademia teatrale nella provincia napoletana, precisamente a S.Giorgio a Cremano, in cui i lavori nascono da elaborazioni laboratoriali e sociali. Si parla infatti di esperienze condotte con i diversamente abili, i reclusi dell’isola di Nisida, i ragazzi del rione Traiano, della periferia, con le Asl, con i centri di igiene mentale, ma anche con i ragazzi “normali”. Un teatro fortemente sociale, ma anche e soprattutto realistico e intimista. Tommy è un adulto mai cresciuto. Quando era ragazzino si rinchiudeva in uno sgabuzzino, la madre lo cercava,  da qui nasce il titolo dello spettacolo. Lì creava il suo mondo, i suoi incontri. Tutti i ragazzi hanno un luogo immaginario o reale in cui amano costruire un mondo migliore di quello esterno. La famiglia di Tommy non sembra provenire dal degrado delle periferie, né dalla povertà. Genitori sicuramente poco presenti. Il ragazzino viene iniziato al sesso attraverso un amico più grande che lo costringe a masturbarlo. Il padre, che Tommy descrive bellissimo e irraggiungibile, preferirà le ragazzine e le amiche del figlio piuttosto che la moglie. Tutto questo crea Tommy  e la sua contorta crescita.  L’allestimento scenico è fondato su una buona idea di oscurità e chiusura: il pubblico segue il racconto attraverso la sagoma di una porta, da cui si affaccia il Tommy adulto, in preda a tic, ansie e ricordi. La tendenza dello spettacolo sembra quella di una seduta psicanalitica in cui il protagonista viene costretto a raccontare dolorosamente, ma poi ci si accorge che forse è un internato in un istituto di igiene mentale. La porta non è solo quella dei ricordi, dello sgabuzzino, della cella, ma è soprattutto  l’entrata nella sua vita e nelle profondità della  sua mente. Il forte realismo su cui si basa Borrelli spesso fa storcere il naso poiché il pubblico si abitua ad un monologo profondo, violento, un confronto con se stesso che ci porta per mano dentro la sua psiche. Non ci spieghiamo però la descrizione prolungata della  masturbazione dell’uomo e del suo alter ego ragazzino davanti ai giornaletti porno, o l’utilizzo di fumo tra la platea per descrivere il ricordo di un film di guerra visto con il padre al cinema, forse uno dei pochi momenti felici con il genitore. Il taglio introspettivo che si dà all’inizio al racconto si perde in questo eccessivo realismo che potrebbe essere solo accennato, proprio perché distoglie lo spettatore dalla profondità della vicenda.  L’idea di rappresentare le due facce e le due età di Tommy, quello adulto scuro e dalla voce grossa, quello ragazzino biondo, mingherlino, con gli occhi azzurri, sembra disorientare inizialmente il pubblico: insomma, non si assomigliano per niente e vista la linea di realismo che si segue ci chiediamo perché. Poi il protagonista chiarisce l’idea: quando era ragazzino avrebbe preferito essere bello, biondo e con gli occhi azzurri, o almeno poteva immaginarsi così. L’incontro-scontro tra realismo e simbologia sembra non prendere un percorso decisivo e si alterna continuamente. La sensazione finale è che l’autore non prenda una posizione concreta e lo spettacolo sia ancora in fieri o rimanga a metà. Probabilmente la molteplicità di casi che ha conosciuto e studiato lo porta a mescolare le varianti che la storia di ogni persona può assumere. Ma questo dà un’eccessiva molteplicità che è difficile racchiudere in un unico protagonista. Nel suo intervento post spettacolo Borrelli, oltre a sottolineare che il racconto è per fortuna solo in parte autobiografico, presenta il fratello Marco Borrelli, autore delle musiche, e alcuni dei ragazzi in scena con lui, membri della sua accademia. Conclude dicendo che spesso coloro che soffrono sono proprio i “normali”. Per fortuna non è sempre così, nonostante anche il teatro si stia ostinando a dare una descrizione eccessivamente pessimistica del nostro tempo, come se fosse una scelta ormai “di moda”.

Il titolo EXILS ci fa subito intuire di cosa parleremo. Ma non avremmo mai immaginato di vedere un allestimento scenico surrealista e inquietante. Parliamo dello spettacolo presentato all’interno del Napoli Teatro Festival Italia 2012, nell’ambito Città in scena/Cities on scene, il progetto europeo sul tema della città. Partners Il Teatro Stabile di Napoli, il Théatre national Bruxelles, Odéon- Théatre de L’Europe di Parigi, Teatrul National Radu Stanca di Sibiu ( Romania), Teatro de La Abadia-Madrid, Folkteatern- Göteborg (Svezia). Questi Paesi collaborano alla realizzazione di uno studio sull’identità europea contemporanea; già in passato il Napoli Teatro Festival aveva presentato spettacoli nati da un profondo studio sociale e culturale sugli Europei di seconda generazione, analizzando anche la loro lingua, sia quella d’origine che quella acquisita. EXILS, attraverso  cooperazioni artistiche tra numerosi Paesi e teatri, esamina quella parte di Europei- stranieri, esuli di guerra o immigrati, che subiscono lo sradicamento dalle origini e una collocazione in un ambiente straniero che non sarà mai “naturale”. Il giovane regista Fabrice Murgia presenta in scena non solo il ragazzo di colore, medico ed esule, ma anche i giovani europei in preda a crisi d’identità ed esistenza. Si frantuma così il mito dell’Europa unita che  20 anni fa regalava il miraggio della mescolanza di lingue, culture e popoli, ponendo di nuovo l’attenzione sugli stranieri che giungono sulle coste italiane e non solo, attraverso viaggi, torture, sacrifici immani, morti. Il miraggio di prosperità che offriva l’Europa è caduto da tempo, ma emigrazione ed immigrazione rimangono temi costanti anche sulle scene teatrali. Murgia non intende analizzare la questione attraverso un punto di vista ormai desueto:  televisioni e giornali, la vita quotidiana e le mescolanze etniche delle nostre città ci hanno abituati a comprendere il livello raggiunto. Qui non viene  analizzato solo il viaggio, ma soprattutto l’arrivo e l’evoluzione della seconda vita degli esuli. La visione lugubre di EXILS rende , attraverso poche frasi e  una grande sperimentazione scenica, il concetto di “assenza”: il non essere degli esuli stranieri che non saranno mai più abitanti della loro terra d’origine ma, nello stesso tempo, non saranno mai naturali abitanti della nuova terra. Emblematica la frase “ i nostri figli saranno sempre stranieri in terra straniera”. Il cancro della contemporaneità, ecco come viene definita questa situazione, a cui il regista non dà una soluzione né una fine. L’allestimento scenico prevede una chiusura del palco anche sul proscenio, attraverso un telo di plastica trasparente: questo permette agli attori di muoversi in un “contenitore scenico” in cui viene iniettato continuamente del fumo. In questo modo si gioca sulle ombre  e sugli effetti delle luci che il fumo rende innaturali, lontane, oniriche. I protagonisti affiorano, si intravedono, si muovono in un mondo ovattato, dove la chiusura del telo-schermo e una pedana girevole permettono agli attori di cambiare posizione e scena in pochissimi secondi.  La sensazione è quella di cine-teatro, in cui i suoni, le musiche, l’installazione video sul fondo in cui si proiettano in presa diretta gli attori, danno la sensazione di una fusione visiva tra realtà e irrealtà. I colori sono solo accennati, sembra di osservare dall’esterno un limbo metropolitano o un girone dell’inferno, il tutto coronato da un’atmosfera da apocalisse. I protagonisti non sono, non riescono ad “essere”, si perdono tra la nebbia, tra la solitudine, nell’abbandono e nello sradicamento feroce dalle radici. Nessuno può far nulla, sono incompresi e inascoltati. Uno di loro vive con un fantoccio identico a se stesso: il suo essere che non esiste, che è fisso, morto. La lingua è il francese, dalle sonorità sfuggenti, sospirate, scivolate, accentuando il surrealismo scenico. Ma anche qui, il francese parlato dal ragazzo di colore, si presume africano, è completamente diverso, ed approda poi nella sua lingua naturale, con cui si conclude lo spettacolo. Le luci della platea si accendono improvvisamente e ritornano le musiche in sottofondo, le stesse che ci avevano accolto 15 minuti prima dell’inizio dello spettacolo. Come dire: il dolore sotterraneo degli esuli, la vita che continua. Nel foyer del teatro la mostra di oggetti e fotografie MOVING CITIES BRUSSELS in cui vengono immortalati  i numerosi esuli multietnici della città di Bruxelles. Ma ciò che colpisce sono gli oggetti, apparentemente insignificanti: ognuno un pezzo di radice della propria terra.

Atmosfere completamente diverse quelle dello spettacolo L’ANGELO DELLA CASA, ispirato alla vita della poetessa americana Emily Dickinson. In effetti il titolo completo appare nel testo scritto da Antonella Cilento: L’ANGELO DELLA CASA, OMAGGIO A EMILY DICKINSON. L’ideazione e regia è affidata a Giorgia Palombi, che ritroviamo in scena nei panni di Vinnie, la domestica, accanto a Susanna Poole, sua partner in numerosi laboratori e studi teatrali sulle donne ( ricordiamo per esempio quello nelle carceri),  Giancarlo Cosentino e la protagonista Giovanna di Rauso nei panni della Dickinson. Il Napoli Teatro Festival prevede diverse location ma quest’anno, come accennato in precedenza, si abbandonano le ambientazioni della Napoli sotterranea del 2011, per sfruttare invece luoghi all’aperto dell’intera città. L’ANGELO DELLA CASA viene ambientato all’interno dell’Orto botanico di Napoli, luogo di per sé magico e suggestivo, ancor di più se coronato dall’arte teatrale. Gli spettatori vengono introdotti in un percorso di grande impatto visivo e sensoriale: felci, alberi secolari, laghetti e viottoli ci immergono subito in un’atmosfera diversa. L’immaginazione stavolta galoppa, senza lo sforzo che la mente e gli occhi si impongono quando ci si siede in platea, in un teatro chiuso. Gli uccelli e la fauna del luogo danno il tocco di grazia. Una voce canta tra gli alberi: Emily e la domestica Vinnie hanno appena fatto il bagno in un laghetto.  Sbirciamo attraverso gli alberi, come se si aprisse tra la vegetazione uno squarcio temporale. Andiamo un po’ più avanti e scorgiamo un tavolo: un uomo, Austin fratello di Emily, che attende la sorella per la colazione. Noi spettatori sembriamo invadenti, è vero, ma forse un po’ tutti  ci saremmo trovati più a nostro agio con crinoline, gonne e abiti dell’epoca. Austine ed Emily corrono, fuggono divertiti, quasi avessero scorto i visitatori curiosi provenienti da un’altra epoca. E finalmente ci accolgono nella loro casa. La serra dell’Orto botanico diventa palcoscenico, con la sua naturale architettura, le sue vetrate altissime, il suo biancore. Unico elemento del nostro tempo, gli aerei che decollano dall’aeroporto vicino, ma gli attori adottano un escamotage per non infastidire il pubblico: rimangono abbagliati, ipnotizzai ogni volta che quella macchina volante passa sulle loro teste. E tacciono. Piccolo trucchetto per non  distrarre gli spettatori e non far coprire la voce degli attori dal rombo degli aerei. Emily è interpretata da una superba e commovente Giovanna Di Rauso, che ci fa conoscere un’immagine della scrittrice completamente diversa dalla tradizione letteraria. Chiusa nella sua casa bianca, nei suoi abiti bianchi, dimostra un intelletto straordinario, un’arte poetica speciale, un’intelligenza poco conosciuta alle donne di quell’epoca. Ma vive volutamente segregata. Nascono ombre sulla sua sessualità e bisessualità, nasce curiosità sulle sue parole che attraverso la poesia denunciano il mondo e la vita. Il suo modo di essere fa scalpore ma non viene compreso a fondo. Pazza, eremita, definita da alcuni “il mito”, tutte  caratterizzazioni che la salvavano dal mondo esterno, che in qualche modo giustificano la sua vita. Amori vissuti, abbandonati, rinunce, scelte, decisioni, lacrime ( vere!), tutto questo era Emily. La poesia del luogo reale e la bravura della protagonista appassionano il pubblico con una caratterizzazione fortemente romantica e ottocentesca, completamente lontana dalle sperimentazioni del Festival. La nudità di Emily, la sua sensualità virginale, vengono continuamente annaffiate da tantissime parole e versi. Come quelli scritti in numerose lettere che tutti cercano, che tutti vogliono. Secondo le biografie,  la ragazza si rinchiuse nella sua camera- bozzolo, non ne uscì neanche dopo la morte dei genitori. Solo dopo la sua morte la sorella scoprì le lettere nascoste di Emily, cucite con ago e filo, conservate in un raccoglitore. Lo spettacolo ripropone questo elemento ma lo fa in una maniera insolita: un bozzolo di plastica da cui l’attrice fuoriesce, spaccandolo, nella prima scena. Quasi una nascita da un utero-protezione, ma anche una prigione. E  proprio lì dentro, a fine spettacolo, verranno ritrovate le sue lettere.

La drammaturgia inglese ritorna sulla scena del Napoli Teatro Festival Italia 2012. Parliamo di SUMMER (foto di Francesco Squeglia), testo dell’autore inglese Edward Bond, portato in scena, dal 14 al 16 giugno al Teatro San Ferdinando di Napoli, dal regista Daniele Salvo, con la traduzione di Salvatore Cabras e Maggie Rose. Bond esamina la condizione umana, avvicinandosi alla lezione brechtiana. La guerra e l’olocausto si ripresentano anche in questo testo, ambientato nella Jugoslavia post bellica. Parliamo ovviamente della II Guerra Mondiale e del rastrellamento nazista. Nonostante i riferimenti al mondo slavo non siano espliciti all’interno dello spettacolo, il luogo e il tempo di questa storia sono fortemente simbolici, come monito ed insegnamento per le generazioni future. Quest’ultime compaiono all’interno della storia attraverso Ann e David, interpretati rispettivamente da Selene Gandini e Elio D’Alessandro, i figli di due donne vissute durante l’occupazione nazista. Due condizioni sociali diverse, la cui differenza in passato veniva sottolineata notevolmente. Le protagoniste sono Xenia e Marta, nei cui panni si ritrovano le ottime attrici Elisabetta Pozzi e Melania Giglio. Xenia, figlia di una famiglia borghese, e Marta, la domestica della sua famiglia. Davanti alla villa della ricca famiglia si stende un tratto di mare su cui sorgono delle isole. Proprio lì i nazisti deportavano la popolazione locale fucilandola e rinchiudendola in lager, avvenimento sempre negato e camuffato dai tedeschi. Quando questi rinchiusero anche Marta, Xenia riuscì a farla liberare. Tutta la vita di Marta si svolge, quindi, su pesanti interrogativi: perché salvare solo lei e non tutti coloro che erano in quella baracca? Perché il potere di una giovane ragazza può influire sui Tedeschi? Tutta la storia si basa sull’ipocrisia e la falsa gentilezza di una vita intera, sulla distinzioni  di classe, sulla morte, sul potere. Piano piano i cassetti della memoria si aprono e lì  sono sepolti rancori, odi, dolori profondi, rassegnazione. La famiglia borghese di Xenia, nome peraltro significativo e molto vicino al greco Xenos (nemico straniero) e da cui derivano i termini xenofobia e xenofobo,  si rivela  dalla parte dei tedeschi. O meglio. L’ipocrita gentilezza dei genitori di Xenia permette ai nazisti di essere ospiti delle loro cene e della loro villa, in cambio, a quanto dice la donna, di notizie preziose da svelare ai partigiani. In realtà il terrore della guerra e della morte costringe tutti alla codardia. Marta non ha mai digerito tutto questo. Entrambe le donne hanno ricostruito la loro vita, Xenia sposandosi in Inghilterra, Marta appropriandosi della villa dei suoi ex padroni. Il “luogo –non luogo” dove due mondi si incrociano è proprio la terrazza che si affaccia sul mare, luogo di conversazioni e litigi,  di osservazione sul mondo in cui confluiscono passanto e presente, luogo in cui si scorgono perfettamente quelle isole  L’allestimento scenico prevede una piccola ringhiera da cui si affacciano gli attori, la platea diventa il mare, le luci blu tingono di riflessi il palco, i suoni ci fanno “sentire” gli odori e la brezza marina. La quiete dopo la tempesta. Marta si sta spegnendo in una gravissima malattia, il figlio ne descrive accuratamente e violentemente i sintomi, con quella freddezza che ricorda le atroci sperimentazioni scientifiche naziste. Il tempo corre su un orologio che scende dall’alto e che non ha lancette. Le molteplici porte che si aprono e si chiudono sembrano le stanze della mente e dei ricordi: si aprono per parlare, si serrano per non vedere. Due manichini spogliati, uno maschile e uno femminile, scheletri senza volto, rappresentano l’umanità. Le due donne portano in scena una profondità altisonante da tragedia greca, elevando tutto il racconto su un piano superiore al realismo apparente. E proprio come la tragedia greca, in un punto della storia che si protrae lungamente, quando le due donne non arrivano ad una soluzione, perché soluzione non esiste alle grandi tragedie dell’umanità, un tedesco, interpretato da Luca Lazzareschi, in vacanza sulle isole, si trasforma in deus ex machina. Xenia e l’uomo si incontrano proprio al di là del mare, come se quel luogo fosse risolutivo. L’ entrata in scena del tedesco è inaspettata, corre tra la platea, sale sul palco, invade le sonorità e le atmosfere create fino a quel momento con un fastidioso accento tedesco, sorprende il pubblico che non capisce il collegamento, racconta alla donna  cosa successe su quell’isola, non riconoscendo la ragazza bianco vestita di tanti anni fa e confermando i legami tra la famiglia di Xenia e i tedeschi. La visione nazista della guerra è difficile da comprendere, forse impossibile. Il lavaggio del cervello e l’esaltazione di  quella parte di storia fa storcere il naso, sempre, ancora.  Ma la descrizione del tratto di mare con i cadaveri galleggianti dell’isola, fa davvero rabbrividire. Li scorgiamo , li immaginiamo realmente tra la platea. Il tratto di mare che unisce passato e presente si sporca, si anima di morte.  Il passaggio all’elemento che evolve il racconto è brusco, velocizza improvvisamente una storia che sembrava non voler volgere mai alla fine, perché rallenta continuamente i meccanismi rimanendo impigliata tra passato e presente. Xenia capisce davvero il passato? Marta muore, ma solo dopo un incubo in cui intravede Nazisti seduti alla tavola della villa, intenti ad ubriacarsi, a fornicare, mentre un uomo dalla testa di cane nero e il corpo in uniforme si aggira per la scena. Le maschere deformi e angoscianti dei Nazisti  ricordano l’ironia caricaturale dell’Ettore Petrolini di inizio ‘900, ma in una forma  surreale , violentemente ironica, terribile. Marta muore in quell’estate, da qui il titolo. Xenia dice “ mi dispiace”. Il turista tedesco riparte, lasciando biglietti e fiori per Xenia. I giovani la mandano via dalla terrazza. La vita di gentilezza apparente continua. Un simbolismo fortissimo.  E ancora una volta questa “bontà” stucchevole non servirà a nulla. Nulla potrà essere cambiato.

Una della novità di questo Napoli Teatro Festival Italia 2012, oltre al focus sulla danza israeliana, è anche quello sulla nuova drammaturgia argentina. All’interno del cartellone del festival presenti diversi nomi, come Daniele Veronese, Romina Paula, Claudio Tolcachir.  Tra gli incastri di orari e spettacoli ci siamo imbattuti in due produzioni inedite del giovane trentacinquenne argentino Tolcachir : TERCER CUERPO e EL  VIENTO EN UN VIOLìN, in scena dal 15 al 17 giugno, rispettivamente al Ridotto del Mercadante e al Teatro Mercadante di Napoli. In realtà il Festival presenta una triade firmata dall’argentino, aggiungendo anche LA OMISIòN DE LA FAMILIA COLEMAN, il primo testo presentato nel 2005 dal regista e dalla sua compagnia, Timbre4, attraverso il quale esplode il boom teatrale firmato “Tolcachir”. Negli ultimi anni Buenos Aires diventa una fucina di produzioni drammaturgiche, utilizzando non solo le sale cittadine, ma anche piccoli luoghi, strade, salette, interni, appartamenti, tutti gli ambienti che compongono le nervature di una città, atti ad accogliere una performance teatrale. Ecco perché Tolcachir ama da subito Napoli, città conosciuta durante una vacanza. Anche i suoi due spettacoli vengono ambientati in interni. Il riferimento al mondo esterno è dato dal telefono, elemento che ci ricorda la Nuova Drammaturgia Napoletana di un nostrano Annibale Ruccello. Ma qui i meccanismi tematici sono diversi.  La chiusura degli ambienti non sembra essere serrata: entrate, uscite, porte immaginarie. Tutto questo c’è. Ma la presenza di innumerevoli oggetti, suppellettili e mobili, ingolfa la scena, lasciandola con pochi spazi per muoversi, poco respiro. Lo spazio scenico viene riempito in ogni angolo, i mobili vengono posizionati con angolazioni diverse e l’impressione che si ha è che un’esplosione abbia scaraventato sul palco tutto quel materiale. Il disordine apparente della scena compare anche nei racconti, che in realtà sono legati, nel cuore profondo, da trame fittissime, e anche nella lingua, resa  attraverso naturali sonorità velocissime e sciolte. Lo spettatore deve rielaborare questi legami complessi per giungere al significato profondo della vicenda e al suo relativo insegnamento. Questo implica un doppio livello di interpretazione: da un lato quello superficiale, dall’ironia fortissima, che appare piacevole e scorrevole al pubblico, dall’altro, uno più profondo e complesso in cui scopriamo cosa vuole comunicarci l’autore. La recitazione appare poco artificiosa, molto naturale, a volte con accenni di improvvisazione sul testo.
In TERCER CUERPO (foto di francesco squeglia) l’ambientazione è geniale: apparentemente un ufficio, con mensole, scartoffie, telefoni, scrivanie e cancelleria varia. Ma quel luogo risulterà contemporaneamente bar, consultorio, casa di una coppia di conviventi. Basta spostare una sedia e il gioco è fatto. E sempre più spesso tutti gli attori, con storie diverse ma collegate, sono presenti contemporaneamente in scena. Il tema fondamentale è la ricerca dell’amore: sia quello di una donna che vuole avere un figlio ma è abbandonata dal marito, sia quello di una coppia in crisi in cui lui ama un vecchio, quest’ultimo collega di lavoro della prima, sia la ricerca di attenzione di una terza collega che perde la casa e vive segretamente in ufficio. La trama è complessa e si stringe sempre di più, fino a quando ogni attore pronuncia una frase che sembra essere la risposta di un'unica grande conversazione creatasi da singole: le parole di ogni dialogo si sovrappongono. Il meccanismo linguistico e testuale genera riso nel pubblico, ma in realtà porta ad un’attenzione costante che viene smorzata dall’ironia e da rallentamenti, a volte eccessivi, della storia, come per esempio la lunghissima scena della scrittura della lettera commemorativa che ricorda le gag italiane degli anni ’80. Ad inizio e fine spettacolo gli attori parlano e si abbracciano come se non avessero il pubblico di fronte, atteggiamento inaspettato per noi spettatori italiani. In EL VIENTO EN UN VIOLìN la trama testuale è meno stretta rispetto a TERCER CUERPO, ma anche qui i fili del racconto si annodano nell’immagine finale di una famiglia allargata. Se nel precedente spettacolo, la ricerca dell’amore portava a riflessioni più astratte, qui la storia è ben delineata. Due donne legate da amore omosessuale vogliono a tutti i costi un figlio. Una di loro, Celeste, svampita e malaticcia, è la figlia di Dora, anziana governante della famiglia di Darìo. La madre del ragazzo, ricca e iper protettiva, svela il motivo del suo angosciante amore-odio per il figlio: Darìo è un gemello che ha strozzato il fratellino con il cordone ombelicale durante il parto. La storia si infittisce: le due ragazze e Darìo si conoscono ad una festa. Celeste decide che lui potrebbe essere il padre di suo figlio, le due lo costringono con la violenza a ingravidare la ragazza. Da qui l’interrogativo: chi crescerà e terrà il figlio? E l’interrogativo rimane fino a fine spettacolo, quando si scorge Darìo che dorme nell’angusto appartamento con le due ragazze, Dora e il bambino appena nato. Ma affiorano anche argomenti contemporanei: coppie di fatto, diritti, doveri. Appaiono più in profondità altri temi fondamentali: la famiglia, il rapporto madre-figli ( qui se ne presentano ben 3 tipologie),la volontà di creare vita  utilizzando meccanicamente l’uomo per soddisfare comunque il desiderio di un amore profondo tra le due ragazze. Anche in EL VIENTO EN UN VIOLìN la recitazione appare volutamente naturalista, a tratti amatoriale, con inserti di improvvisazione. E anche qui il telefono, il cellulare e tutto ciò che proviene dall’esterno modifica continuamente la storia. E ancora ritroviamo un rallentamento fortissimo della vicenda nella scena che divide primo e secondo atto, in cui l’atto sessuale tra Darìo e Celeste, con presenza ossessiva e minacciosa dell’altra ragazza, riempie ossessivamente parecchi minuti dello spettacolo. Poi improvvisamente le due ragazze si tengono per mano, scambiandosi parole d’amore: il pubblico non nota più Darìo che compie il suo meccanico atto sessuale ma vede la generazione della vita. Il pubblico e la critica napoletana appaiono entusiasti del percorso argentino presentato al Festival. Applausi scroscianti a fine spettacolo. Del resto, non si può negare, ottimi attori e trame particolari. Noi aspettiamo l’evoluzione della nuova drammaturgia argentina, per capirne a fondo i meccanismi e le novità, sperando di poter vedere anche i lavori di Daniel Veronese e Romina Paula.

Il 24 giugno il Napoli Teatro Festival Italia 2012 conclude la sua prima parte, quella estiva, in attesa del rientro napoletano e delle novità teatrali che verranno presentate dal  25 al 30 settembre.
In conclusione abbiamo avuto modo di vedere tre spettacoli, TAKING CARE OF BABY, IL TEATRO IN CUCINA: SARTÙ e l’atteso WONDERLAND, in attesa di recuperare, durante la stagione invernale, la visione di THE SUIT di Peter Brook ( 3 giorni di repliche in sold out!), spettacolo evento con cui il Festival chiude prima della pausa estiva.
TAKING CARE OF BABY E IL TEATRO IN CUCINA sono due produzioni italiane.
La prima, in scena al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli dal 18 al 20 giugno, è una creazione dell’Accademia degli Artefatti, per la regia di Fabrizio Arcuri.
Il testo è quello di Dennis Kelly, drammaturgo inglese contemporaneo, che presenta il caso di una giovane donna accusata di aver ucciso, a distanza di tempo, i suoi due figli. L’idea di base è quella di costruire un mondo in cui le telecamere, lo scoop giornalistico e televisivo, scandiscono le vite di una famiglia. Il tema di fondo recupera il concetto di occhio indagatore a cui siamo sottoposti tutti e a causa del quale le maschere pirandelliane si “induriscono” ancor  di più sui  volti della società contemporanea.
La ragazza, sottoposta ad interrogatori e ad interviste per comprenderne i meccanismi psichici e la madre, candidata ad elezioni politiche, che “giocherà” sulla vicenda della figlia per creare una palese e arrogante pubblicità, il medico che costruirà un’ipotetica malattia sul comportamento della donna, quasi avesse colto un’importante scoperta scientifica. In questo mondo di apparenze terribili nessuno si chiede mai se la ragazza abbia davvero commesso gli omicidi o sia innocente. Il perno della vicenda è questa giovane Medea che a noi Italiani ricorda sicuramente il caso di Cogne, ma anche molte altre vicende simili. La costruzione scenica prevede la presenza di telecamere a braccio, mobili o a spalla, di video sul fondo con inserti di scene registrate, di una postazione di fonici e regia direttamente su un lato del palco, e di un piccolo palchetto in fondo alla platea in cui la giovane donna viene ripresa da una telecamera, durante gli interrogatori, permettendo agli spettatori di seguire il tutto sul video in scena. Lo spettacolo sembra essere uno studio “tele-cine-scenico”, in cui la televisione e le inquadrature appaiono preponderanti in tutta la vicenda, ma soprattutto appaiono invadenti. Gli spettatori non solo vengono costretti a seguire gli attori tra i cameramen posti sulla scena e in continuo movimento, ma si ritrovano proiettati anch’essi sui video di scena attraverso telecamere invisibili. Una sorta di metateatro di nuova generazione dove l’installazione video diventa il rapporto tra realtà e irrealtà. Il pubblico appare, però, distratto già a metà spettacolo, infastidito dalle eccessive due ore in cui gli interessanti e articolati  meccanismi scenici non tengono gli spettatori incollati alle poltrone. La storia di perde, il testo non sostiene l’attenzione, soprattutto nelle lunghe alternanze di domande e risposte da interrogatorio. La gente si alza a metà spettacolo ( scelta comunque non condividibile nonostante lo spettacolo non piaccia). Gli investimenti dispendiosi di questo lavoro, compresa la novità della colonna sonora firmata dai Subsonica, il cui cantante si scorge seduto in platea e mescolato agli spettatori, non attraggono il pubblico. E neanche noi.
Un plauso va comunque alle ottime attrici Isabella Ragonese e Francesca Mazza.
Altra produzione italiana è IL TEATRO IN CUCINA: SARTù. Non potevamo mancare anche quest’anno. La trilogia della cucina creata in diretta sulla scena,  tra realtà e irrealtà, anche quest’anno si concentra su una ricetta prettamente napoletana. Il Sartù, una sorta di timballo di riso ripieno e cucinato nel sugo, di derivazione franco-angioina, diventa il simbolo dell’unione dei personaggi. Ambientazione defilippiana, all’interno di un condominio, per la cui rappresentazione viene preso in prestito il cortile dell’Accademia delle Belle Arti di Napoli. Pubblico all’aperto, tra gli odori di cipolla e ragù, l’esito dello spettacolo, in scena dal 20 al 21 giugno, per la regia di Roberto Azzurro, divide gli spettatori. Applausi immancabili che però, come si sa, nascondono comunque commenti differenti. C’è chi apprezza la semplicità e piacevolezza di questo spettacolo, dopo le elucubrazioni mentali delle sperimentazioni del Festival, c’è chi non apprezza e lo definisce “pieno di luoghi comuni”, c’è chi assapora il vero buffet finale, ovviamente a base di sartù. In effetti ci troviamo d’accordo con ognuno di questi commenti. Lo spettacolo appare leggero, comico a tratti, ben strutturato nell’affiatamento degli attori, molti dei quali conosciutissimi a Napoli. Manca quel fondamento antropologico che avevamo trovato nella “puntata precedente”, cioè in RAGÙ, spettacolo andato in scena durate il NTFI 2011. Mentre la creazione del famoso sugo napoletano si mescolava alla passione partenopea e alle tradizioni più antiche, qui il meccanismo è diverso. La portinaia, interpretata da una stupenda Gea Martire, diventa il perno delle storie amorose dei condomini: coppie, sposini, single incalliti, speranzosi, traditi, depressi. Tutto gira attorno all’amore e al cibo, connubio infallibile e sensualissimo per noi Italiani, soprattutto quelli del Sud. L’odore del sugo la domenica mattina tra le scale e i vicoli ( se vi trovate a Napoli constaterete la verità di questa immagine!), il pentolone che bolle continuamente, la portinaia, maga Circe del ragù a cui attingono con un pezzetto di pane tutti i “malati d’amore”. Fino a quando giunge la tragedia: tutte le ricette cominciate in ogni casa non possono essere portate a compimento perché l’erogazione di gas viene interrotta. E di domenica!
La tragedia si risolve con una collaborazione di tutti i condomini, dopo che la portinaia entra in trance e decreta il verdetto da Sibilla Cumana. Tra il musical, la commedia napoletana, i film degli anni ’60 e l’immagine, persistente nelle nostre menti, di una Sophia Loren che sarebbe caduta a pennello all’interno, i condomini aggiungono tutti i  condimenti che hanno a disposizione e realizzano il SARTÙ. L’unione fa la forza e i luoghi comuni incombono, è vero. Il regista però sottolinea il suo progetto di un teatro genuino, senza effetti speciali, ma ricco di fantasia. Ma è anche vero che a volte un sana semplicità condita di realismo non fa male. A volte. Per chi ancora se lo chiedesse, il buffet finale a base di sartù era ottimo!
Da un fatto di cronaca al sartù partenopeo, il realismo quotidiano viene trasformato completamente nell’atteso lavoro di Matthew Lenton, WONDERLAND (foto di Francesco Squeglia), in scena presso il Teatro Sannazzaro di Napoli, dal 22 al 24 giugno. Presenza conosciutissima al NTFI, Lenton ci aveva già sorpresi con INTERIORS, in scena nel 2009. Anche lì ci eravamo trasformati in spettatori di interni familiari. L’utilizzo di pannelli trasparenti ci faceva sbirciare all’interno di case, da cui non provenivano suoni o parole, ma in cui gli attori conversavano e parlavano come se si trovassero davvero all’interno della propria casa.
Anche quest’anno Lenton ripropone la stessa scelta ma stavolta il tema è forte. Lo spettacolo, che è stato vietato ai minori di 18 anni e consigliato solo ad un pubblico adulto, recupera il titolo della famosa fiaba. Alice c’è e anche il Bianconiglio. Ma cos’è il wonderland? Dove si trova?
Anche qui Lenton sceglie di rendere visibile un interno familiare attraverso un pannello trasparente, ma stavolta oltre a noi spettatori, a sbirciare troviamo anche il Bianconiglio della favola, in dimensioni giganti. Inquietante, surreale, angosciante, lo spettacolo tratta il tema del mondo sessuale, che sia virtuale, come quello on line, o dei film porno. E tutto questo entra nelle nostre case attraverso il televisore, internet, webcam. Ma soprattutto tutto questo entra nelle nostre menti come ossessione, stile di vita, immaginazione, cancro che  si ciba dei rapporti interpersonali e brucia la routine. Lenton mescola diverse sfumature delle ossessioni contemporanee, presentando una realtà che alla fine lascia un profondo alone di incompiutezza, di inutilità, di non concretezza.
Alice è un’attrice porno: o meglio, la ritroviamo davanti alla telecamera, durante vari provini. Quale donna interpretare? La bambina impaurita o la Lolita provocante? Questo mondo è davvero un “wonderland” o nasconde paure, aggressività, violenza? Realtà e irrealtà si mescolano continuamente, lasciandoci volutamente sfuggire le redini del viaggio. Gli spettatori non riescono a capire quale sia la vera realtà, cioè quella scenica della rappresentazione, e quella virtuale delle immagini proiettate su video, fino a quando le due si mescolano definitivamente con l’apertura del pannello trasparente che mette in comunicazione l’interno, l’esterno e noi. L’idea del Bianconiglio che parla come coscienza perversa all’interno della mente di John, il marito modello e abitudinario, è inquietante e sessualmente perversa. Sbircia come un demone fuori dalla finestra e immaginare di essere osservati da un coniglio bianco gigante, simbolo di purezza infantile, accende meccanismi psicologici che turbano gli spettatori. Ecco perché lo spettacolo è adatto ad un pubblico adulto, oltre alle scene di nudi e di azioni sessuali che vengono mimate realmente ed esplicitamente sulla scena. Il progetto di Lenton, partito appunto nel 2009, proseguito nel 2011 con SATURDAY NIGHT, e giunto quest’anno a WONDERLAND, prevede delle tappe in cui gli spettatori sono trasformati volutamente in “voyeur”, guardoni che devono specchiarsi con la realtà di tutti i giorni, in cui anche loro sono invischiati. Si guarda gli altri, ci si sorprende, ci si ritrova dall’altra parte del vetro.
Lo spettacolo, rigorosamente in inglese con sottotitoli, scatena il pubblico, accende gli estimatori della sperimentazione e del lavoro lentoniano, fa storcere il naso dei più pudichi. Tra recupero dei significati arcaici delle fiabe, in cui la sessualità è uno dei temi costanti e poco compreso dai lettori, e trasposizione di un’ Alice nel paese delle meraviglie che viene portata ad esiti metaforici ed allegorici innovativi, siamo felici di aver concluso questo viaggio all’interno del Festival con Matthew Lenton, sicuri che non ci avrebbe delusi.
La conclusione della sessione estiva del Napoli Teatro Festival Italia 2012 non è netta: si protrae con un nuovo concerto di NOA, il 25 giugno, presso il sito archeologico Pausylipon di Coroglio, nuova location di quest’anno, e con le PASSEGGIATE A CAPRI,  dal 29 giugno al 10 luglio, in cui Capri e Anacapri ospiteranno spettacoli, incontri culturali e anche il Premio Malaparte.
Tutto questo per chi del teatro non può farne a meno neanche d’estate.

Arrivederci alla seconda parte del Napoli Teatro Festival Italia 2012, dal 25 al 30 settembre.