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Modena e provincia, assieme ad altre zone emiliano-romagnole, sono state al centro di tremende cronache e vicende dovute ai sismi che ne hanno tormentato le terre dall’ultima decina di giorni del mese di maggio (ma lo sciame di scosse continua, nonché l’apprensione). Nel mezzo di tale dannato periodo, sono rimasti perciò incastrati i numerosi appuntamenti del modenese VIE Scena Contemporanea Festival, svoltosi dal 24 del mese scorso sino al 2 di giugno. Rassegna che pertanto ha subito un forzato sfoltimento degli eventi programmati, causa le intervenute pericolosità e conseguenti inagibilità di certi luoghi dove si sarebbero dovuti presentare. Ciononostante, gli artefici della kermesse hanno cercato di andare avanti, optando per dei momenti di aggregazione sostitutivi e proseguendo lo svolgimento della programmazione laddove era possibile. Una reazione in termini di continuità costruttiva e socializzante, quindi, in risposta al senso di disgregazione diffusa che il terremoto ha fatto irrompere, all’improvviso, nella realtà circostante. Conseguentemente, chi scrive ha assistito a una parte giocoforza ridotta del novero di spettacoli messi preventivamente in agenda. Opere selezionate da un cartellone al solito ricco di proposte da ogni dove – benché incentrato, stavolta, su creazioni europee – e caratterizzato dalla chiara volontà di accostare l’arte di affermati o grandi esponenti della scena internazionale a quella di teatranti più giovani o defilati, se non in via d’ascesa. Artisti comunque accomunati da un’ansia verso forme e prassi dischiuse all’intercomunicazione dei linguaggi: sia in merito all’implementazione tecnica ed espressiva dello specifico teatrale, che in rapporto a differenti realtà e singolarità umane in cerca di una condivisione di contenuti. Del resto già con HUSBANDS, spettacolo inaugurale del belga Ivo van Hove (da un noto film di John Cassavettes), si declina la storia di un trio maschile in crisi esistenziale avvalendosi dell’uso in diretta di piccole videocamere incorporate dagli attori protagonisti. In uno svariare di soggettive, le immagini live – diversamente riprese dai singoli interpreti nel durante – compaiono trasmesse su un paio di schermi: uno di dimensioni normali appeso a una parete laterale e l’altro, invece, centrale e imponente a sovrastare dall’alto il boccascena. Più angolazioni e direttrici di visione, dunque, all’interno di una sorta di camera della tortura triangolare con tabellone da basket, water, attrezzi da fitness, consolle, piano bar e divani-letto. Lì dentro avviene lo stillicidio d’inerzie emotive e ideali di tre uomini che si scoprono alla deriva dopo la morte di un caro amico. Difficoltà particolarmente sottolineate dal confronto accidentato con l’universo femminile, verso il quale risultano tanto incapaci di relazionarsi con spontanea comunicativa da far tralucere, in realtà, una più ampia inettitudine ad amare e a vivere appieno secondo un’adesione a impulsi personali più veritieri ed emancipati. La simultaneità della trasmissione video sugli schermi opera un diramante e centrifugo zoom delle azioni in scena, esteriorizzando così la distanza intima presente nei protagonisti fra se stessi e il loro mondo di pulsanti inquietudini, a sua volta irretito in quello più rassicurante (ma vincolante e magari opprimente) dei ruoli sociali. La sensazione di circuito chiuso della situazione è potenziata anche da ulteriori video di arrivi e partenze, di andate e ritorni, proiettati sul gigantesco fondale bianco squadernato a inizio spettacolo – e in altri due passaggi – allorché le semoventi pareti laterali della stanza sono disposte lungo le linee rette di destra e sinistra del palco. Tuttavia la moltiplicazione dei punti di vista all’insegna di siffatta varietà e mobilità in cui lo sguardo può immettersi (scegliendo fra inquadrature micro e macro, performance dal vivo e sua contemporanea teletrasmissione) ne disperdono la concentrazione implosiva, focale, sul vuoto ribollire dei soggetti: per cui ne consegue una sostanziale diluizione e diaspora dei loro portati di crisi, esasperazione e fragilità che, a lungo andare, giungono abbastanza afflosciati nonché appiattiti allo spettatore. Il quale resta così oltremodo a distanza da un vivo coinvolgimento in grado, poi, d’innescare una correlativa messa in discussione delle proprie quotidiane rappresentazioni del Sé, considerando quanto ognuno sia succube delle visuali dettate da occhi altrui e da una società – quale l’attuale – tanto condizionante da indurlo a perdere il contatto con le sue più riposte aspirazioni di felicità. Differente intensità e maggiore coinvolgimento ha suscitato, invece, lo spettacolo visto la sera appresso al Teatro delle Passioni. Mi riferisco a CLÔTURE DE L’AMOUR, opera in lingua francese scritta e messa in scena da Pascal Rambert con le interpretazioni notevoli di Audrey Bonnet e Stanislas Nordey. I quali impersonano una donna e un uomo alle prese con la fine della loro storia d’amore, di cui espongono le contrapposte tesi e rivendicazioni dentro uno stanzone latteo “ricavato dal vuoto” affinché si faccia largo al torrente lavico di parole che, prima lui e poi lei, si riversano addosso a vicenda. Ciò avviene tramite due monologhi suddivisi simmetricamente nel tempo e pure nello spazio. È Stan a partire con il suo profluvio verbale, stando diagonale – rispetto a Audrey – sul polo di sinistra più interno alla scena, dove si muove come un pendolo entro un arco ristretto in cui punteggia di gesti secchi e sincopati le sue giustificazioni e i suoi filosofemi intorno alla necessità (a suo dire) di concludere la relazione amorosa. Il nervosismo preciso dei gesti è puntellato su un’accesa marcatura fonica delle fricative, delle vibranti e delle palatali, mentre il volto è una maschera di agitate tensioni minimali. Al polo opposto dell’accennata diagonale e più vicina alla ribalta, sta la ragazza costretta a subire in silenzio la verbosità animata ma intellettualistica del suo contendente. Ferma per lunghi tratti, bloccata sul proprio versante, a un certo punto prova ad avanzare verso di lui che la respinge al suo posto con implacabilità. Tuttavia, il perno della situazione gira non appena fa il suo ingresso imprevisto una combriccola di bambini che sostengono di avere prenotato la sala per fare una prova di canto. Ed eccoli allora conquistare il centro scena e – stereo alla mano, frontali agli spettatori – cantare in coro Greatest Love of All (hit resa celebre negli anni ’80 dalla compianta Whitney Houston), fra le risate della platea per sittanta candidezza frappostasi nello scontro virulento fra i due ex amanti. Che, nel mentre, hanno invertito le posizioni ruotando come bestie in gabbia attorno al gruppo di fanciulli. Per cui, usciti questi ultimi, tocca alla donna prendere la parola e rovesciarne la viscerale carica repressa addosso al suo diretto ascoltatore. Il linguaggio si scatena veicolato da un piglio perentorio dell’incendiaria attrice, la quale protesta i motivi dell’interiorità palpitante e tumultuosa a fronte delle elucubrazioni equilibristiche intessute dal perduto amante. Praticamente, quanto Stan ha detto e s’è studiato di esporre in precedenza con minuzia oratoria e logica, gli viene ora ribaltato contro da Audrey: una smagliante erinni dalla gestualità più verticale e sfrenata rispetto a quella maggiormente trattenuta e orizzontale dell’uomo; una furia dolente e disperata eppure vivissima di voglia d’amare e di essere amata. Desiderio recondito di tutti, alfine. Al di là delle maschere dell’ego, delle recite dei rispettivi narcisismi e della trama di travolgenti interrogativi racchiusi nel mistero dei sentimenti, in cui ciascun individuo cerca la verità della propria autentica espressione d’amore.

HUSBANDS
foto di Jan Versweyveld
Drammaturgia: Thibaud Delpeut da John Cassavetes.
Traduzione: Gerardjan Rijnders.
Regia: Ivo van Hove.
Scene e luci: Jan Versweyveld.
Costumi: An D’Huys.
Video: Tal Yarden.
Suono: Thibaud Delpeut.
Interpreti: Barry Atsma, Roeland Fernhout, Hans Kesting, Alwin Pulinckx, Halina Reijn.
Produzione: Toneelgroep Amsterdam.
Coproduzione: Programma Cultura dell’Unione Europea nell’ambito di Progetto Prospero, Theâtre National De Bretagne – Rennes.
Prima nazionale. Spettacolo in olandese con sottotitoli in italiano.
Modena, Teatro Storchi, 24 e 25 maggio 2012.

CLÔTURE DE L’AMOUR
foto di Marc Domage
Ideazione, testo e direzione: Pascal Rambert.
Scene: Daniel Jeanneteau.
Costumi: La Bourette.
Luci: Pascal Rambert e Jean-François Besnard.
Interpreti: Audrey Bonnet, Stanislas Nordey e gli allievi della “Scuola Voci Bianche” della Fondazione Teatro Comunale di Modena (maestri preparatori Paolo Gattolin e Melitta Lintner).
Produzione: Théâtre de Gennevilliers Centre Dramatique National de Création Contemporaine.
Coproduzione: Festival d’Avignon e Théâtre du Nord - Lille.
Prima nazionale. Spettacolo in francese con sottotitoli in italiano.
Modena, Teatro delle Passioni, 26 e 27 maggio 2012.

Links:
http://www.viefestivalmodena.com/
www.t-n-b.fr
www.prospero-theatre.com
www.theatre2gennevilliers.com