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Serata un po' speciale, domenica 17 giugno,  a  “da vicino nessuno normale” festival-evento che occupa dal 12 giugno al 28 luglio gli spazi dell'ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano, una rinnovata e “grande piazza urbana” come la definiscono gli organizzatori. È andata in scena questa drammaturgia di Marco Martinelli, rappresentata dal teatro delle Albe già nel 1994 ma di una stringente e “non” sorprendente attualità, non solo o non tanto per il suo oggetto, il calcio a partire dal calcio di periferia e delle periferie (quelle che si chiamano in gergo serie minori), ma soprattutto per le modalità e la sostanza narativa, di forza metaforicamente universale, qui riproposte e riviste in forma di sola lettura drammatica ma così forte e potente da organizzare da sola, e proiettivamente, gli spazi come e più di una vera e propria messa in scena. In scena Luigi Dadina, già protagonista nel lontano esordio, con Alessandro Argnani, Michela Marangoni e Laura Redaelli più recentemente associati all'avventura del Teatro delle Albe. Al loro fianco, anche fisicamente parlando, Marco Martinelli che ne organizza i tempi recitativi e simbolici. Primo, Stefano e la sorella Palma, perduti nella Romagna Felix, conducono una officina di fabbro e, soprattutto, sono proprietari di una squadra di terza categoria dalle alterne fortune. Tra i loro “pulcini” (i giocatori più piccoli) scoprono un talento, il piccolo Luca, bambino senza padre e difficile. L'apparire della fortuna ed il suo immediato svanire segna la contesa tra fratelli sul fatto di vendere o meno il piccolo campione ad una grande squadra. Ma in un mondo diviso, come dice Marco Martinelli, tra credenti (gli appassionati di calcio) e non credenti (quelli che di calcio non si interessano), l'evento non è essenziale ma ha solo la forza di una metafora che svela, con la potenza sottile della nostalgia, un mondo in cui la dimensione simbolica del sogno scoperchia i nostri segreti e ci conduce inevitabilmente di fronte a noi stessi. Ancora una volta la poesia è come il rumore di fondo che circonda questi personaggi singolari, dalla parlata dura e tagliante, e Martinelli la percepisce e sembra trascriverla in una trama rapida e suggestiva che ci cattura. Non esistono, e si perdono così, lontane metafisiche che pretendono di spiegarci il mondo se non sono radicate in questo rumore di fondo che ci circonda nel nostro esserci concreto e quotidiano, e di cui le bellissime musiche di Monteverdi sono in fondo solo un richiamo per il navigante. La drammaturgia dunque, in quadri, 11 come i giocatori di una squadra di calcio, si dipana rapida e talvolta frenetica come una partita tra dilettanti, e come la vita che rischia di travolgerci se non recuperariamo una “visione del gioco”, come dice l'allenatore Stefano, cioè una visione del nostro futuro singolare e collettivo. Così la frenesia va a placarsi improvvisamente in lunghe pause che segnano come paracarri la sconfitta dei fratelli fabbri e calciatori mentre la fortuna svanisce e si perde insieme al piccolo campione. Marco Martinelli conduce fino in fondo con la maestria di un direttore d'orchestra questi quattro bravissimi solisti che articolano una indubbia maestria recitativa in una partecipazione psicologica intensa ma temperata da una sempre vigile ironia. Calcio e teatro, spettacoli entrambi ed entrambi venati dalla malinconia di ciò che non è più ma che, come ha sottolineato Marco, può sempre ritornare, non solo in quelle metafore della nostra vita ma anche nella vita stessa. L'apprezzamento di noi spettatori non è dunque mancato.