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Si è da poco concluso il festival delle Colline Torinesi ed è ora il turno delle bellissime corti sabaude per la dodicesima edizione dell'omonimo festival, che si apre il 6 luglio per concludersi il 22 luglio, per tre fine settimana che promettono interesse e intensità. Venticinque le compagnie presenti per 12 nazionalità, tra prime nazionali e spettacoli ideati per l'occasione, con al centro dell'attenzione il teatro contemporaneo

della Gran Bretagna, ospite speciale, dopo Belgio e Russia, di questa edizione. Senza soffermarci oltre sul calendiario degli eventi, sul quale danno ampie delucidazioni i comunicati accessibili anche su web, pare che anche quest'anno gli sforzi di Beppe Navello, Direttore e anima della manifestazione, riusciranno a proporre un risultato all'altezza delle aspettative e ancora una volta sotto quel segno, particolare e anche fascinatorio, che questo festival sempre riesce ad avere. Il segno di ambientazioni storiche recuperate ad una funzione contemporanea, non solo nello sguardo che le rinnova, ma soprattutto per la loro misteriosa capacità di essere propulsive per idee, intuizioni e creazioni teatrali, performative ovvero estetiche tout court. Un segno che trova e riceve, poi, inattesse suggestioni e corrispondenze grazie al fatto di riuscire a privilegiare sempre la forza della contingenza scenica e la sua capacità di irrobustirsi nella partecipazione e nel rapporto con il pubblico, non più e non solo passivo ed oscuro fruitore, ma protagonista insieme agli attori di quei luoghi e di quegli eventi. Un festival dunque che si presenta e conferma particolarmente stimolante, attraente e soprattutto attrattivo di molte interessanti esperienze del teatro europeo. È dunque un teatro che parla europeo, come viene spesso sottolineato, ma è anche un teatro in cui l'Italia non è comprimaria ma almeno deuteragonista con alcuni spettacoli che appaiono innovativi e interessanti. La mescolanza di linguaggi (dal teatro alla danza, dal circo alla performance), la miscellanea degli stili, e l'integrazione dei e nei luoghi, tipiche della storia di questo festival, sono ancora una volta garanzia che le promesse potranno essere mantenute.

A volte, dunque, le promesse vengono mantenute. In effetti l'esordio di questa nuova edizione del Festival “Teatro a Corte”, diretto con mano leggera ma ferma da Beppe Navello, è stato interessante e, come da premesse, stimolante.
Torino è ancora una volta accogliente nel suo essere non solo una affascinante location, secondo un termine assai di moda, ma soprattutto per la sua capacità di traslare negli spettacoli che man mano si alternano, nelle sue bellissime piazze, nei luoghi recuperati della Cavallerizza Reale, ovvero del Castello di Moncalieri, un suo pensiero segreto, una estetica profonda e quasi pudicamente nascosta al di là della vita che scorre nei traffici giornalieri e consueti, indaffarata ed apparentemente o banalmente disinteressata e lontana.
Primo week end ricco di spettacoli con un effetto complessivo anche straniante, ove si consideri che la scelta, necessitata certo dalle non favorevoli contingenze economiche, di concentrare le rappresentazioni nei soli ultimi giorni delle tre settimane che compongono il festival, mostra la forse inaspettata potenzialità di una scelta estetica consapevole che armonizza nella apparentemente confusa sovrapposizione uno sguardo coerente ed armonico.
Quattro gli eventi oggetto di queste righe.

WHEN WE MEET AGAIN
Installazione performativa multisegnica, multilinguistica, multimediale “in 3D” del gruppo britannico “me and the machine”, nel quale interferenze e mescolanze esplodono in una sorta di sovrapposizione di piani estetici, quasi che l'estetica stessa come modo della percezione del mondo deflagrasse in una clonazione ripetuta. La performance attoriale in effetti non viene mostrata allo spettatore ma direttamente immessa nello spettatore stesso che, solo e isolato dagli occhiali 3d e dagli auricolari vive direttamente ciò che l'attore interpreta. Paradossalmente però ad un massimo di alienazione e di estraniazione cui è sottoposto lo spettatore, svuotato e sostituito, viene a corrispondere il massimo della consapevolezza e della coscienza, se solo si supera la paura di vedersi dentro, per cui il viaggio si trasforma in una peripezia nella nostra interiorità. Ciò che intravvediamo man mano con più chiarezza si mostra infine essere la nostra anima, la nostra essenza che danza davanti ai nostri occhi e dentro di noi.

LES SLOVAKS
Più tradizionale, ma non meno affascinante, questo spettacolo di danza dello slovacco Peter Jasko che ha animato prima Piazza Carignano e poi Piazzetta Reale. Ballerino maturo e dalla grande tecnica individuale riesce a non disperdere in essa tecnica grandi capacità espressive che forzano quasi la sintassi dei movimenti coreografici, oltre la didattica e verso una coerente definizione  dello spazio. Il rapporto tra movimenti ed ambiente si fa, man mano, raffinato nella costruzione di paesaggi che paiono insieme corporei ed esteticamente virtuali, così che il tempo armonico del suo corpo si fa quasi ricerca di ciò che non c'è ancora, o meglio non c'era prima e ora è davanti ai nostri occhi.

ELOGE DU POIL (Foto di Christophe Raynaud de Lage)
In verità per questa eccentrica creazione spettacolare di Jeanne Mordoj, diretta da Pierre Meunier, gli strumenti critici tradizionali parrebbero a prima vista insufficienti ovvero incoerenti, se non a prezzo di assumere ad intepretazione di contesto una ben più ampia cassetta degli attrezzi estetici, tale da spingersi dal teatro al circo tradizionale, da questo al nouveau cirque e alla danza, ovvero dal teatro di figura al cabaret. Senza dimenticare quello strano sguardo, tra l'antropologico e il sociologico, lanciato verso il mondo dimenticato dei “fenomeni da baraccone” che Jeanne Mordoj mostra, e dichiara esplicitamente, di ben padroneggiare. È un viaggio “amorale”, secondo la felice definizione di un critico francesce, verso quella terra incognita, o meglio misconosciuta e dimenticata, nella quale siamo posti di fronte, direttamente e senza mediazioni, a quella parte di noi che riguarda e parla della morte, ed in questo come non richiamare il Marco Ferreri de “La donna scimmia”. La guida è una strana figura che irrompe sul palcoscenico ed espone e rivendica una folta peluria sul volto e di quella peluria fa elemento di effrazioni delle nostre difese, già rese impotenti da una ironia spiazzante che sconfina nella comicità spesso inquietante del clown. La Mordoj dunque ci prende per mano e ci trascina in un mondo in cui la vita e la morte si confondono e si rimescolano, o meglio in cui è la morte che guida e condiziona la vita. Teschi, creature ed oggetti inanimati che si animano e cantano, danze ritmate e armonie che sembrano affondare radici nei mondi perduti di una provincia geograficamente dimenticata e di una interiorità psicologicamente cassata da una società e anche da un'arte che volge da tempo, con disprezzo e supponenza, il suo sguardo altrove. Spettacolo profondamente inquietante durante il quale, paradossalmente, si ride e ci si diverte sinceramente mentre si scivola infine, insieme alla protagonista, sotto una terra feconda e fertile che ci nasconde e rigenera fino a riportarci alla vita. Artista intelligente e preparata Jeanne Mordoj, dal retroterra ricco delle più diverse esperienze artistiche ed anche emotive, all'inizio di un viaggio verso luoghi perduti della nostra mente e della nostra essenza, psicologica o estetica che si voglia, viaggio che riguarda noi almeno quanto lei.

MALEDICTION
Di nuovo mescolanze, sovrapposizioni e percorsi, e luoghi, segno stilistico di questo festival sin dalla denominazione, in questo spettacolo del coreografo e performer carioca-olandese Duda Paiva che torna a Torino dopo il successo di Bastard presentato la scorsa edizione. Spettacolo coerente con il suo sguardo sul mondo, sguardo che fa della metamorfosi e della antropizzazione una cifra stilistica raffinata e ben governata. Forte di una sintassi coreografica matura e di una padronanza dei movimenti corporei che va oltre la semplice tecnica, la metamorfizzazione di Duda Paiva riesce a materializzare davanti ai nostri occhi sentimenti e stati psichici, semplificandone relazioni e dinamiche in una scrittura scenica semplicemente disvelatoria. Al di sotto di questi movimenti e relazioni, l'odio e l'invidia nello specifico dello spettacolo, quel motore perenne che sembra animarli coerentemente tutti, la pulsione sessuale che sorta di sottoscrittura pare guidare e nascostamente organizzare anche le coregrafie di Duda Paiva. Spettacolo interessante anche questo ma forse dal respiro meno ampio e profondo rispetto a quello della scorsa edizione.


Secondo e intenso fine settimana a Teatro a Corte, all'insegna delle nuove sintassi drammaturgiche articolate tra danza, nouveau cirque e teatro danza, sezione quest'ultima che presenta importanti novità per la scena italiana, a partire dallo spettacolo di Luca Silvestrini.

LOL (LOTS OF LOVE)
Attento osservatore della società contemporanea, il coreografo-drammaturgo italiano da quasi vent'anni protagonista della scena britannica, pone qui il suo sguardo sui social network e sui nuovi linguaggi che questi propongono, mai neutrali ma con una capacità di incidere sui comportamenti umani inaspettata e talora incontenibile. La scena vuota è dominata dallo schermo di un computer che moltiplica sé stesso incorporando e sottilmente manipolando le immagini dei frequentatori. Sulla scena sei bravissimi danzatori articolano con una capacità espressiva e significatoria inusuale anche nella danza moderna la dissoluzione delle identità umane attratte e disperse/disperate nella cinetica virtuale di una comunicazione che appare come un buco nero, un vuoto pneumatico che tutto attrae e tutto annulla. Unico legame con la materia, e dunque la vita, un groviglio di cavi telefonici all'interno dei quali quelle identità disperse e disperate si scontrano e confliggono casualmente, come particelle elementari, ma mai si incontrano. Spettacolo affascinante ma anche pieno di angoscia  in cui l'identità, l'esserci, l'essenza stessa di una umanità dominata dal nulla è altrove, e nulla esiste se non è filmato e proiettato sul web. Il paradosso in sottotraccia, ed è un paradosso che è anche una speranza che Silvestrini credo non abbandoni, è che la vita reale, intesa nei suo rapporti esistenziali, sociali ed economici, esiste e continua comunque a esistere ma non ce ne accorgiamo più, anzi non siamo più in grado di 'sopportarla' nel senso più ampio del termine. Così ci rifugiamo in ciò che ci sembra di poter illusoriamente controllare e manipolare, finendo così controllati e manipolati. L'intera drammaturgia coreutica sembra però anticipare l'attesa di un segno di ribellione anche estetico che ribalti le gerarchie e riconduca le nostre identità, da una virtualità apparentemente appagata e tranquillizzante, alla vita e ai corpi e alle menti che in essa si radicano, perchè la nostra vita finalmente non sia dominata, come ora, interamente da altri.

MONGER
Strano prodigio di interferenze e meticcimaenti questa drammaturgia in danza, credo sia questa la definizione più vicina alla sintassi dipanata sulla scena, del coreografo israelo americano Barak Marshall; creatura strana, specchio e sintesi di una visione estetica del mondo che incorpora nella coreutica una capacità espressiva e significatoria ben più vasta. Vera e propria narrazione che nella reiterazione e amplificazione del gesto e del movimento si muove, come lo onde di uno stagno, ben oltre i limiti della scena, trascinando con sé la nostalgia evidente di una cultura, quella ebraica, impegnata a recuperare alla e nella modernità i segni di una comunione con un passato, rivendicato ma anche seppur con fatica condiviso, che ha radici lontane ma vive. Così nel confliggere di una favola narrata, quella profondamente contemporanea della grammatica del potere e del suo esercizio, con l'emergere di ritmi e movimenti della tradizione medio orientale, la vita trasfigura dal quotidiano per affacciarsi, e noi insieme ad essa, a quel movimento profondo che ci anima e dà senso. Corpo di ballo intenso nell'interpretare e partecipato nel farsi carico della narrazione drammaturgica.

LA LUNA IN UN GIORNO
Creazione collettiva degli allievi del terzo anno di specializzazione della Scuola di Cirko Vertigo collaborati e diretti dagli spagnoli Pablo Volo e Manel Pons Romero (Compagnia EX VOTO). Vecchio o nuovo che sia, questo intenso spettacolo ha in sé l'anima del circo tout court, al servizio di una elaborata e anche raffinata sintassi drammaturgica costruita intorno a Federico Garcia Lorca, ma più che ai suoi versi alle sue atmosfere intrise di un onirismo che la sintassi circense analizza, condivide ed enfatizza. In questo spettacolo più che di interferenze e meticcimaneti linguistici, pare trattarsi di vera e propria esegesi non convenzionale dell'opera poetica dello spagnolo, spesso così facile preda della retorica, storica od estetica, ma anche così refrattaria a manipolazioni pesanti. Cirko Vertigo e Ex Voto sono stati capaci di stare al suo confine e di compiere incursioni leggere ma insieme assai illuminanti, in un rimescolamento di codici di senso mai greve e che cerca di preservare e disvelare l'essenza significativa dei versi di Lorca. Compito difficile ed insidioso ma nel quale la bravura del gruppo non presta il fianco a inciampi o scivolamenti.

LES FUGUES
Ennesimo spettacolo che sfugge all'ansia definitoria che spesso anima la critica e l'accademia, ansia che finalmente può dissolversi nell'ampio spettro del nouveau cirque. Al centro di questa scrittura drammaturgica del francese Yoann Bourgeois rimane pur sempre il corpo, infine depositario e supporto, nella sua concretezza materica, di ogni significazione, ma l'obbiettivo paradossale appare invece il voler rappresentare la sua tangente, la sua fuga come indica il titolo, quel movimento che rompe l'equilibrio e rendendolo instabile inspiegabilmente libera il corpo stesso e ne libera l'essenza spesso imprigionata dalla staticità dei luoghi comuni, anche artistici ed estetici. L'arte che si completa nella consapevolezza sua incompiutezza, quasi. Indagando sull'Arte della fuga di Bach e assecondandone la misteriosa capacità di sedare i conflitti per dipanarsi e dipanare i nodi interiori in una chiarezza quasi ingiustificabile, in due brevi quadri giocati sull'equilibrio ovvero lo squilibrio prima degli oggetti (il giocoliere) e poi del corpo (il funambolo), Bourgeois enfatizza non tanto la fragilità dell'arte spettacolare quanto la sua incapacità ad esser al di fuori della contingenza e della presenza, apparentemente evanescenti ma capaci di condurci oltre la fissità verso un altrove irragiungibile ma desiderato.

FOR RENT
Confini (linguistici, estetici, significatori) ampiamente superati in questo spettacolo, in prima nazionale, della Compagnia belga Peeping Tom, in cui linguaggi e sintassi (danza, circo, teatro, cinema) non convivono ma collaborano ad un fine espressivo ed estetico coerente e coerentemente perseguito. Con chiare suggestioni rivenienti dalle sperimentazioni surrealiste del secolo scorso, la compagnia usa la scena per materializzare le proprie e le altrui suggestioni e per articolarle in una narrazione drammaturgica che fa dell'iper-realismo scenografico un elemento sintattico discriminante. In effetti gli oggetti si muovono e hanno la stessa 'presenza', portatrice di senso, dei personaggi-attori, ed entrambi, come suggerisce significativamente il titolo, sono “in affitto” perchè la scena non è che contingenza sfuggente ma molto concreta. Vi domina dunque l'elemento proiettivo che dipana paradossalmente una sintassi assai tradizionale, quasi da teatro borghese in senso proprio, da commedia bien fait che però si dissolve su quel confine, tra il giorno e la notte, in cui il valore del sogno prelave sulla percezione consueta. Su quel confine muovono gli attori alla riconquista di un senso dell'esistere non ancora, per fortuna, perduto. Sono dunque perfettamente coerenti con la sostanza della narrazione drammaturgica i movimenti coreografici e coreutici che prevalgono nella prossemica complessiva, trasformati però nel nuovo alfabeto della grammatica fascinatoria di questi drammaturghi coreografi. Pubblico entusiasta.

Con questo chiudiamo i nostri paesaggi da Torino, per questa edizione di Teatro a Corte che ha mostrato, come ma forse ancora di più degli anni scorsi, una qualità degli spettacoli eccellente ed una coerenza nella articolazione e programmazione difficile da ritrovare anche nel vario e vasto panorama dei festival estivi.