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Ci sono spettacoli che vengon fuori rotondi, non perfetti, non necessariamente, ma ben conclusi, puliti, compatti: azione quanto basta, cifra stilistica coerente ed evidente, attori motivati e solidi, ritmo esatto; non esplorano abissi di filosofia, non aprono nuovi varchi di senso, non fanno mostra di indignazioni, lacerazioni, ribellioni, non mettono le mani addosso al pubblico e però parlano e sanno dire esattamente ciò per cui sono stati pensati. Così è “il Rosario”, lo spettacolo di Clara Gebbia e di Enrico Roccaforte, liberamente tratto dal celebre racconto di Federico De Roberto e portato in scena alle Orestiadi di Gibellina, sabato 28 luglio scorso, dalla compagnia “Teatro Iaia”, con Filppo Luna, bravissimo nel ruolo della vecchia madre (un tesoro dell’attuale italiano), Nenè Barini (Carmelina), Germana Mastropasqua (Caterina), Alessandra Roca (Agatina). Uno spettacolo compatto, si diceva, ed è per questo si devono citare anche Grazia Matera per i costumi (essenziali, rigorosi, semplici senza esser sciatti), Luigi Biondi per il disegno luci e Antonella Talamonti (della romana “Scuola di musica popolare del Testaccio” diretta da Giovanna Marini) che ha diretto e costruito il canto e creato le musiche originali. Perché è importante l’aspetto ritmico e sonoro di questo spettacolo? Perché, giustamente, Gebbia e Roccaforte ricostruiscono la tremenda durezza del testo di De Roberto non tanto ripercorrendone il tessuto linguistico, quanto partendo dai nodi tematici e dalle emozioni profonde che da esso promanano (il senso del potere anzitutto, dell’immobilità e della durezza del potere nel tempo, il senso del tradimento della fede cristiana nell’esercizio del potere, il rapporto tra misericordia e giustizia, tra fede adulta e libertà ed ancora il rapporto tra arte, fede e potere), destrutturandone posizione e il peso specifico e poi ricostruendone il senso come esperienza e ritmo, come tappeto sonoro e canoro. I canti scelti dalla Talamonti (e ben eseguiti dagli attori in scena) appartengono alla vasta tradizione orale di diverse culture popolari italiane e culminano con una messa in musica, quanto mai opportuna e ben scelta, di una poesia friulana di Pasolini. Un’operazione rischiosa: si poteva scivolare infatti in uno pseudo-antropologismo d’accatto o in un pittoresco barocco nero per turisti; un’operazione fertile e politica perché capace d’essere profonda senza esser volontariamente “profondista”. Paradossalmente, anzi, appaiono più deboli proprio i segmenti dello spettacolo in cui alcune battute sono evidenziate e lasciate visibilmente galleggiare perché le parole di cui sono intessute possono rammentare momenti della nostra triste situazione culturale e politica.