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Si conclude domenica 23 settembre l'edizione n. 7 di questo stimolante festival organizzato dal gruppo forlivese “Città di Ebla”. L'evento si caratterizza soprattutto per l'interesse mostrato e l'approfondimento continuo dell'aspetto concreto, ovvero fisico e materico, della 'produzione' di senso, che, dal lato estetico, inerisce l'attività artistica in genere e teatrale in particolare, ma che, dal lato esistenziale, è propria anche del lavoro umano che, addirittura nella sua articolazione massificata propria della società contemporanea, carica nell'oggetto una singolare e soggettiva visione del mondo propria del produttore che, marxianamente, contrasta l'alienazione specifica della sottrazione di valore  capitalista. Tanto a partire dalla stessa localizzazione del festival, organizzato all'interno delle strutture dell'ex deposito dell'azienda municipale dei trasporti, mantenute nella loro originale allocazione ed utilizzate con coerenza per svilupparne appunto le potenzialità di supporto alla articolazione dei singoli spettacoli. È questa una struttura architettonica degli anni trenta, per decenni utilizzata come deposito ed officina degli autobus pubblici, e ora dismessa ed affidata per breve periodo ogni anno alla comunità di artisti che hanno avuto la capacità di percepirne le potenzialità estetica, senza interventi di ristrutturazione che, al contrario, avrebbero potuto attenuarne o ribaltarne l'efficacia. È proprio l'aver mantenuto questa ambiguità, in senso positivo, direi questa ubiquità tra strutture del lavoro materiale e quelle della produzione artistica che ha consentito di enfatizzare e potenziare il valore della ricerca condotta sul corpo, sui suoi movimenti, sulla voce come supporto e substrato al significato nel suo aspetto di creazione e di comunicazione. È infatti nella coesistenza di entrambe le modalità, nella sovrapposizione, che dovrebbe essere naturale e coerente ma che purtroppo spesso non lo è più, tra operare produttivo del singolo e della comunità e operare estetico dell'arte, che si recupera e consolida un recupero di senso condiviso, tra la comunità e gli artisti che questa esprime e tra i singoli membri di quella stessa comunità. Ecco allora che il deposito con l'officina di riparazioni si trasforma, con termine contemporaneo, in una 'location' di inattesa efficacia, tra le 'fosse' per la verifica dei motori che accendono e potenziano le voci delle mondine e dei loro canti di lavoro, ed un autobus che insieme integro nella sua struttura e trasfigurato nel suo senso diventa scenografia di drammaturgie innovative. Nasce così, con estetica spontaneità, un recupero del valore anche del fare quotidiano, dell'impegno che, soprattutto in quelle terre ove la fiducia nella propria opera sembra ancora miracolosamente integra, non tanto come modo di creare ricchezza, che è sempre tendenzialmente alienante, ma soprattutto come capacità di creare relazioni nella solidarietà reciproca, così da riconoscere le gerarchie del saper fare proprie dell'homo faber, che è anche “in” quello che fa, e non le gerarchie dell'avere che alla fin fine annullano proprio l'essere nel mondo. Ho percorso un breve tratto del festival e ne do qui conto.

L'ORIGINE DELLA SPECIE
Creazione collettiva del “Teatro Sotterraneo”, tratta da Charles Darwin tradotto e riscritto da Daniele Villa, vede in scena Sara Bonaventura, Iacopo Braca e Claudio Cirri. Si giova nella produzione della collaborazione del “Teatro Metastasio Stabile della Toscana”. Scrittura drammaturgica e scenica affascinante, vuole reinterpretare l'esistenza e l'esistente a partire ma ben oltre Darwin, esplicitandone la profonda contraddizione tra occasionalità, del nascere determinandosi all'interno del flusso indistinto del tempo, e necessità, del procedere iper-determinati nella propria singolare evoluzione, in un confronto che sostanzialmente annulla il confine tra la vita e la morte, l'una specchio dell'altra. È una contraddizione ed un conflitto sordo, generatore di violenza, che la sintassi teatrale non risparmia, talora direttamente (nella caccia del predatore), talora traslatamente trasfigurata nell'angoscia dell'ultimo Panda che chiede di morire. Ma nel mondo che fluttua e procede anche la morte è trasfigurazione in altro, così che l'evoluzione della specie, nell'uomo, è divenuta cultura, immaginazione che ci trasforma e ci rende diversi ed adatti/adattati, non sempre però, o forse mai, liberi. Così Topolino, metafora della inevitabile trasfigurazione della natura in storia, tenta di salvare Panda proponendogli senza successo una analoga trasfigurazione. Pessimista ma potente nel suo impatto significativo è stato spettacolo di grande interesse.

NARRARE L'AGNIZIONE
Monologo di Ivan Fantini, stimolato e sostenuto da Paola Bianchi, reinterpreta in un certo senso il teatro di narrazione, in quanto l'oggetto della narrazione è interno, è il sé medesimo, cioè più che l'io psicologico o psicoanalitico, la forma che questo prende quando è mostrato agli altri, cioè quando diventa un oggetto di conoscenza condivisa in un processo di reciproca trasformazione. È l'agnizione, il riconoscimento di sé nel mondo, come luogo concreto di relazione e conoscenza, a partire appunto da una esperienza concreta come, in questo caso, la fine del suo lavoro di chef. Anche questo spettacolo di forte presa, un cammino in corso.

VETERAE RESONANTIAE FUTURAE
Concerto direi sorprendente ed anche 'inatteso' nella sua capacità di trasformare la sintassi musicale in un susseguirsi, armonico e risonante come una eco che collega passato e futuro, di oggetti sonori abbandonati 'verso' il pubblico a stimolarne immaginazione e anche speranza. Musiche, testi, composizione e performance di Paola Bianchi (Femina Faber la “la fabbricante” - di suoni? Di sogni?) e Fausto Balbo (il Risuonatore), lo spettacolo riesce a trasformare l'ascolto in fascinatoria esperienza sensoriale, quasi in un cammino mentale, estetico ma molto concreto, come il pifferaio di Hamlin o il mozartiano Flauto magico. Innovativo di un percorso che trasforma la percezione sonora in costruzione drammaturgica con esiti molto interessanti, perché, come insegnava Edoardo Sanguineti, la voce è anche, se non innanzitutto, corpo.

Un discorso coerente ha percorso tutto il festival, o almeno questa sua parte da me testimoniata, coerente e coerentemente rafforzato anche dalle performances e installazioni che lo hanno accompagnato. Da segnalare, tra queste, la contaminazione che Fausta Menni compie, nel contesto di un farsi drammaturgico di Teatrino Clandestino che avrà sintesi prossima ventura, attraverso la narrazione della propria esperienza di attrice che da biografica si trasforma progressivamente in dono condiviso di cittadinanza artistica, “civile” appunto. Discorso coerente e profondo che supera con la forza dell'immaginazione estetica anche le difficoltà, purtroppo molto concrete, della carenza di sostegni pubblici ormai endemica e che dimostra la capacità di Città di Ebla e della sua idea di teatro di radicarsi progressivamente. Più che un plauso, peraltro meritato, vuole essere il segno di una sorpresa che, nonostante tutto, riesce a rinnovarsi.