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Doveva essere uno spettacolo urlo, uno spettacolo altamente trasgressivo quello presentato al Teatro dell'Archivolto da Babilonia Teatri. Naturalmente parlo al passato per sottolineare l'imbarazzante divario tra quello che nella drammaturgia doveva essere e come invece io, da umile ma assidua spettatrice, l'ho percepito. Mi correggo:come non l'ho percepito. Impermeabilità. Forse di più:distacco, distacco incredulo.
Mi si potrebbe far notare che tale atteggiamento non è altro che una difesa contro l'argomento-dei più temibili,certo-trattato dalla compagnia:la morte. Vorrei potesse essere così, in modo da incolpare lo spettacolo e, in tal modo, proclamarne implicitamente il trionfo! (Nessun regista,nessun drammaturgo,nessun attore rinuncerebbe mai al piacere di pensare di essere riuscito a scorticare l'anima dello spettatore che, come un'arrendevole agnello, si immola alla loro arte.) E con questo paragone direi di aver creato un'atmosfera macabra perfettamente in sintonia con ciò di cui andrò a parlare.
Ovvero,la Morte. L'impressione che mi ha sostenuta durante i quarantacinque minuti della performance è stata quella non di uno spettacolo «utilizzato» dalla morte per parlare di sé (ciò accade quando gli attori si tramutano in vasi, recipienti sensibili che trasmettono la vibrazioni di ciò che altrimenti non avrebbe parola), ma piuttosto era quella per cui in ogni gesto,in ogni monologo io non vedevo altro che una donna (nei panni dell'attrice che veste i panni di colei che vuole dimostrare di non essere un'attrice,un topos teatrale che sembrerebbe obbligatorio di questi tempi) la quale riteneva bastevole e sufficiente assumere un'espressione vacua e impenetrabile e usare la voce in modo monotono, con sonorità fredde e metalliche, per catturare l'attenzione ed essere,di conseguenza, vera.
Per non parlare poi della trasgressività della scenografia, consistente in un Cristo crocifisso( da lei stessa issato) con tanto di testa di bue e asinello penzolanti dal soffitto.
Naturalmente,si tratta di un rimando dissacrante che demolisce l'ameno quadretto del Bambin Gesù riscaldato dal fiato delle due buone bestiole, la materializzazione grottesca del più celebre «the end» già scritto e fieramente immutabile.
Solo questo, e l'attrice naturalmente, che ripete assillante i monologhi, i quali altro non sono che elenchi di pensieri,situazioni,considerazioni banali sulla morte, monologhi latrati da una voce tanto rabbiosa quanto vuota.
Non basta voler essere dissacranti per esserlo realmente. E non sempre la brutalità,l'immediatezza sono le giuste armi per disarmare. O almeno, volendo si può partire da tali elementi. Ma poi deve accadere qualcosa, e quel qualcosa non è accaduto su quel palco. Che è rimasto fermo, inviolato, nudo, un po' svergognato, un po' ignorato.
Nel teatro sperimentale contemporaneo il palcoscenico ha stravolto la sua forma, il suo stesso essere. Si gioca ferocemente con la sua finzione, non si cerca di riprodurre ma di far vedere al pubblico come si cerchi di riprodurre, di come si fallisca e di come il fallimento abbia da raccontare quotidianità decisamente più epiche di qualsiasi altro sforzo narrativo. Si è molto più consapevoli dei limiti da scavalcare. Sono stramazzati al suolo molti tabù, e questo ha portato a risultati sorprendenti:parabole visive, folgoranti nella loro incisività, contrapposte a quell'altra prospettiva teatrale incentrata sulla narrazione, sulla storia da raccontare.
Eppure. Eppure si corre il rischio di dimenticare dove si è. Non mi basta che l'attrice metta musica di De Andrè come intermezzo, mi dica che la morte puzza e che lei vuole il suo boia, che non guarderà morire nessuno e che poi compaia alla fine – sotto uno scettico occhio di bue- con il figlio in braccio. Nell'arte puoi – devi! - partire da elementi autobiografici (in ogni ambito del vivere umano ciò è necessario, la relatività
dell'esperienza è condannata a pavoneggiarsi e incoronarsi sempre da Assoluta).
La differenza però tra riflessione individuale e condivisione collettiva sta in quello scartotremendo e abissale-della Creazione. In cui l'elemento di partenza -l'esperienza y mettiamo- viene stravolto e comunicato come x. Ma y è completo e indissolubile da x e x non avrebbe il suo essere se non in y. Ora, se noi si decide di trapiantare y dalla vita privata e porla su un palcoscenico con mezzi scarsi e poco convincenti, ecco che ad y si piegheranno le ginocchia, soccomberà in quel luogo a lui sconosciuto e poco familiare per appassire subitaneamente. Quando guardiamo uno spettacolo, è una zona buia che noi vogliamo essere aiutati ad attraversare:aiutati,invisibilmente, ma non strattonati o spintonati. Non vogliamo essere imboccati con impersonale aggressività.
Per entrare senza violare è necessario uno sguardo attraverso il buco della serratura, da cui poi ci allontaniamo con la golosità, la dolorosa delizia di un segreto condiviso.
Nudità del palcoscenico, azzeramento di qualsiasi pretesa morale o di inganno (ovvero:vi dico le cose come stanno, sono coraggioso, lo faccio senza filtri) non conduce per forza non tanto ad una condivisione (dal momento che non è questa ad essere cercata) ma neppure ad un qualsivoglia interesse. Sono d'accordo sul rivoluzionare la modalità comunicativa teatrale: ma esibirsi consci della propria esibizione che esibizione non vuole essere, imbottiglia in un vicolo cieco da cui è difficile fuggire.
Nello spettacolo «Pro Patria» di Ascanio Celestini, la morte si posava sulle mani del padre del protagonista come un sapone. Era un lucidatore di mobili; le mani in vita erano sempre imbrattate di nero. La morte è quelle mani pulite, quel bianco silenzioso.
«Macadamia Nut Brittle», della compagnia Ricci/Forte: un giovane allampanato si avvicina al pubblico, e comincia a raccontare. Racconta di una donna morta, e quella donna è sua madre. E racconta di come era strano quel viso addormentato nella morte, e di come sia morto anche lui,lui che sarà fratello, fidanzato, padre ma mai, mai più figlio.
Pochi minuti, assolutamente inspiegabili e non contestualizzati rispetto all'intero spettacolo, mi hanno detto cosa è il morire guardando morire, cosa è quella piuma nera che ti si posa dentro e lì rimane.
Andrò a vedere altri spettacoli di questa compagnia, poiché mi rendo conto di aver infiocinato un intero percorso teatrale basandomi su pochi elementi. Ma rimango ferma nella mia convinzione che questo «The end» abbia realmente bisogno di ricominciare, di riavviare un processo che,mi si perdoni la commistione di generi, definirei nell'arte «hegeliano». Una sorta di percorso a spirale dove dal soggetto (l'esperienza individuale) si passa obbligatoriamente verso l'esterno, l'oggetto, il quale poi ritorna al soggetto modificato e modificandolo, con maggiore coscienza di sé.
L'ultimo passaggio è detto aufhebung:nulla si perde, ma si supera.