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1.La posizione dello scrittore di teatro è cambiata nel corso del tempo. Non è più importante la posizione morale rispetto alla storia che racconta. Lo scrittore “offre i contenuti del proprio cervello sotto forma di una serie di possibilità alternative fantastiche”, scrive Rella  (Ai confini del corpo), citando Ballard. E’ un osservatore, un esploratore, uno scienziato che agisce in un “territorio sconosciuto”, che utilizza fatti che non sono mai accaduti e che  lavora sulle azioni fisiche applicandole alla scrittura drammaturgica e destinandole al corpo/mente dell’attore/danzatore per l’autogestione dei processi organici. Il drammaturgo che lavora sulle azioni fisiche fa, dunque, il mondo, non lo descrive. Il rapporto corpo/mente nell’ambito della produzione delle forme organiche è un tema che non può essere eluso, perché il drammaturgo scrive per l’attore/danzatore, non per lo spettatore. E’ il regista che deve pensare allo spettatore, non lo scrittore di testi linguistici, il quale dovrà avere una accortezza fondamentale, quella di scrivere prima il testo fisico e poi il testo linguistico.

Il  lavoro del drammaturgo ha a che fare con la chimica, non con l’alchimia. Consiste nella selezione e nella combinazione di segni non verbali e verbali  nel presupposto della dilatazione (e trasformazione) del corpo/mente dell’attore/danzatore e nella prospettiva della produzione di una miscela linguistica eterogenea. Lo scrittore che pone il testo fisico alla base del testo linguistico predispone il terreno del fare scenico. Costruisce una ipotesi che potrà essere rispettata in tutto o in parte dall’attore/danzatore, ma che in ogni caso funziona da stimolo esterno.  Dunque, di fronte a cose sconosciute, mai accadute prima, procede alla costruzione di una ipotesi. Concepisce azioni, inventa situazioni, progetta soluzioni irrisolvibili, favorisce l’irruzione del corpo/mente (dilatato) nel corpo della scrittura, affinché dentro di lui possa entrare il mondo di cui fa parte anche quello che non conosce: di cui fanno parte i morti e i vivi, le parole, le immagini e i suoni che lo hanno attraversato. Sono tutti lì con lui, sempre, nella stanza in cui lavora. Sta fermo, ma si muove. Sta seduto, ma vola, viaggia, si muove. Agisce nella consapevolezza che è solo, che ha solo il corpo/mente a disposizione, che il corpo/mente è una ricchezza da non dissipare o disperdere. E cosa fa per costruire l’ipotesi? Getta lo sguardo nel suo corpo/mente scorticato nella speranza di poter sfiorare il pathos del mondo. E nel costruire l’ipotesi accetta il mistero del corpo e della mente degli uomini. Ma il segreto dove sta? Sta in ciò che si spinge oltre lo sguardo? Il corpo/mente è veramente suo? E dove finisce? Rella nel libro citato all’inizio scrive che il corpo non termina dove finisce l’occupazione dello spazio. Essendo lo spazio una estensione del corpo, il corpo comprende anche lo spazio in cui si trova. Ma, se lo spazio è una estensione viva del corpo, dove termina questa estensione, cioè lo spazio? Lo spazio non ha limiti, perché il corpo/mente non ha limiti. Sulla questione del corpo, meglio sul corpo/mente che sta alla base della creazione artistica dell’attore/danzatore ho detto qualcosa nello scritto sulle Azioni fisiche. Aggiungerò altro nell’ambito della riflessione dedicata al Processo organico, che non può essere disatteso per il semplice fatto che il drammaturgo, come ho già detto, scrive per l’attore/danzatore.

2. “Benjamin - scrive ancora Rella - aveva paura del mito, della forza irrazionale che questo sembrava contenere. Per questo, quando si propone di spezzare il tempo omogeneo e lineare della storia dei vincitori egli riesce a pensare soltanto ad un arresto della dialettica, che anziché sporgersi verso il superamento della contraddizione in avanti, rimaneva sospesa nell’attimo in cui i contraddittori si mostravano con tutta la loro forza ed evidenza. Ma  la paura nei confronti del mito che sta dietro ad alcune  cautele benjaminiane, si  estende anche  alla sua rappresentazione simbolica. E dietro ancora c’è probabilmente l’orrore del sesso, del corpo. Benjamin dice che bisogna incedere con l’ascia affilata della ragione, senza volgersi né a destra né a sinistra, per rendere  coltivabili i territori su cui cresce anche la follia, e questo senza lasciarsi attrarre ‘dalla selva primordiale’. La selva primordiale è l’umido di Nana, da cui Benjamin ha distolto gli occhi. Il più grande critico di questo secolo non ha potuto diventare il più grande pensatore di questo secolo per il suo orrore per il corpo”.

3.     Giovanni Testori diceva che la parola doveva farsi carne. C’è differenza tra la carne e il corpo? La carne è pesante. Consente tradizionalmente la trasformazione della parola scritta in parola parlata da parte dell’attore se stesso. Il corpo, cioè la carne trasformata in corpo, in corpo/mente, in energia interiore e volatile, porta con sé la leggerezza della realtà ri-creata. Il corpo glorioso consente all’attore/danzatore di volare, per dirla con Franco Ruffini. La parola che si fa carne – definita da Giorgio Taffon “angelica” nel suo secondo bellissimo libro su Testori (Dedicato a Testori) – ha bisogno del suo reciproco: la carne che si fa parola. Il che spiega “la necessità della parola, della verbalizzazione testoriana, di collocarsi nella tridimensionalità della scena proprio per limitare la perdita di materialità o per recuperarla tutta”: in altri termini vuol dire che non basta più che l’attore ‘dica’ la parola, ma che ‘sia’ la parola, il verbo: all’attore non basta la voce, deve essere la carne del suo corpo a teatralizzare la parola. Dunque, la parola si fa carne, si fa materia, così come la carne si fa parola. Una parola inventata per la scena del teatro di parola: anche se si tratta di una parola “espressiva, energica, poetica”, come sostiene correttamente Taffon. Meglio, una lingua  “non più o solo  pastiche, anche di gaddiana memoria, ma idioletto, linguaggio che, nella forte espressività radicata in un universo di sentimenti, immagini, visioni del tutto soggettive, rompe schemi e clichés, norme e convenzioni”, prendendo in considerazione anche la “lotta tra lingua, anzi, lingue ufficiali (vive, come l’italiano, o quelle straniere, o morte come il latino) e dialetti, in particolare quelli lombardi, e più in specifico il brianzolo-milanese”.  Una lingua che combina alto e basso, colto e incolto, comico e tragico, espressivo e mimetico, distacco ironico e partecipazione emotiva; che mette insieme stili, linguaggi, visioni e atmosfere presenti nel modello di riferimento shakespeariano; che combina  carrettelle e caccole, frizzi, lazzi, doppi sensi e trivialità che rimandano ai comici dell’arte e alla tradizione radicalmente italiana. “Una lingua concreta, materica, acrobatica, mossa, eccitata ed eccitante, ricca di scarti semantici, impennate retoriche, rotture sintattiche – aggiunge Taffon -, con scelte lessicali finalizzate anche a determinare una semantica generalmente orientata ad amplificare la retorica della passione, della violenza, della pietà, del rifiuto”. La  parole testoriana risulta “ buona a contestare, a disintegrare l’ufficialità di un’insufficiente, dal punto di vista espressivo, langue” e rappresenta di certo una operazione innovativa, contraria all’ordine della tradizione incentrata sulla trasformazione della parola scritta in parola parlata in senso logico-discorsivo. Una parole che nel farsi carne rivela il bisogno fondamentale di essere pronunciata. Contesta la tradizione introducendo il tema della visceralità, ma rimane nella tradizione del teatro di parola, e resta estranea alla teoria e prassi della materialità del teatro inteso come corpo, come processo di trasformazione della carne in corpo glorioso. In tal senso non prende in esame questioni come il rapporto stretto tra corpo e mente, la loro assoluta inscindibilità come premessa dell’autogestione dei processi organici, fondati sul lavoro sulle azioni fisiche, che possono far volare l’attore/danzatore, il quale, quando vede, diventa una visione.

4. E se il corpo dell’attore/danzatore diventa spazio scenico? Sono perseguitato dalle immagini di Blue provisoire di Yann Marussich – attore/danzatore svizzero. Il suo spettacolo di teatro/danza vive ancora nella memoria, a distanza di alcuni anni. Dire che mi ha sorpreso è poco. Mi ha affascinato. Mezzi minimi: massimi risultati. E quanta pazienza, quanta tenacia, quanto lavoro per conseguirli! Confermo quello in cui sostengo da molto tempo: bisogna tornare alle origini. Non voglio dire che tutti i danzatori debbano fare quello che ha fatto Marussich, ovviamente. Dico che  possono danzare o non danzare, impiegare le metodologie o le tecniche più diverse, ma non possono permettersi di produrre forme che non siano credibili ed emotivamente coinvolgenti, tradendo le aspettative legittime dello spettatore accorto. Ma Marussicih è andato al di là della credibilità delle forme. Ha osato l’impossibile. E’ riuscito a far sì che il suo corpo divenisse lo spazio scenico dello spettacolo.

Il dono graditissimo della performance di Marussich è l’accelerazione del battito cardiaco. L’artista sceglie una forma extrème di creazione artistica, andando oltre la meta conseguita da Fiaderio che a Santarcangelo ho visto lavorare sulle tracce. Marussich danza senza danzare. Fa spettacolo, negando lo spettacolo. Sceglie l’esperienza performativa vera invece della rappresentazione, la scultura invece del teatro, l’immobilità assoluta invece del movimento. Punta sull’attività interiore, invisibile e possente, per rivelare una grande carica energetica. Il danzatore/attore sta fermo per un’ora e mezza. Nessun gesto, nessun movimento. Stare immobile, ecco l’azione fisica che ha scelto di compiere. Il movimento – come per il drammaturgo che sta seduto davanti allo scrittoio -, è in-scritto nel corpo e il corpo è concepito come spazio scenico. Il corpo si carica di percezioni e di vibrazioni fisiche. Genera una mutazione chimica che marca il destino dell’artista e definisce un nuovo rapporto tra azione e colore, tra colore e secrezione. La colorazione dell’epidermide e l’uscita di secrezioni blu da tutti gli orifizi corporei non sono effetti speciali, ma i frutti di un processo biochimico fuori dell’ordine conosciuto e dell’ordinario. Il flusso delle immagini - generato da una piccola telecamera installata su un robot che raccoglie i dettagli della trasformazione del corpo - e  il flusso dei suoni - realizzato in presa diretta come risultato del lavoro compiuto nello spazio scenico del corpo -, confermano la organicità delle forme e la natura performativa della creazione artistica: vera, crudele, barbarica.

Blue provisoire” è un perfetto evento intermediale, polidimensionale e sinestetico. S’inoltra nel corpo/mente che è senza confini e senza limiti, offre una visione febbrile del potenziale nascosto nell’uomo, situa lo spettatore in una dimensione altra, comunica l’impalpabile, sfiora la soglia del favoloso possibile, rivela un rapporto in  divenire tra il teatro e le neuroscienze. L’evento performativo non doppia la realtà  e non la ri-crea neppure: è la realtà. Realtà viva, palpitante, osservata mentre accade. Marussich, con il sostegno di alcuni scienziati, ha compiuto un esperimento di straordinaria efficacia capace di generare stupore, confermando il mistero e l’illimite del corpo/mente. L’evento non può essere ripetuto. Deve essere ri-fatto ogni volta, come fosse la prima volta. Un evento che afferma il rapporto corretto tra arte e scienza, tra arte e tecnologia, tra arte e poesia. Marussich è un  autore geniale, impegnato sul versante di uno dei teatri possibili più affascinanti.