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Caro Diario,

va bene che Aprile è il mese più crudele, ma qui si sta esagerando…d’altra parte in un’epoca di ri-affermazione del senso comune – quello secondo il quale la terra è con ogni evidenza piatta, il sole e tutto il resto ruotano attorno alla Terra e così via bosseggiando – sono tornate le stagioni “di una volta”, i mesi “di una volta” e allora, giustamente, “Aprile, ogni giorno un barile” e – magari fosse!- “Aprile, dolce dormire” – o , forse, sognare?

Caro Diario, con un incipit così è chiaro che stiamo per cedere alla malinconia, all’uggia, al tedio di vivere…e tutto per una giornata storta?!? E se tra poco torna il sole e asciuga tutto e ci dà una giornata azzurra, con nuvole candide come schiuma da barba e uno zefiro soave? Cosa ci fa sentire peggio, il grigiore atmosferico che si accompagna ton sur ton a quello dell’animo o il contrasto annichilente tra la bellezza del mondo e la caligine dello spirito?

Diario, ricomponiamoci, devo solo aver dormito male…Ti avevo promesso un resoconto da Messina, dove si discusse qualche tempo fa di dialetti e di teatro contemporaneo. Facciamo così, Diario: adesso, per rimanere in argomento, io incollo sulle tue pagine le testimonianzie di un altro autore teatrale con uso di dialetto, dopo che la volta scorsa ti ho introdotto Angela Demattè, vincitrice dell’ultimo Premio Riccione con “Avevo un bel pallone rosso”. Questo testo è in lettura al Piccolo Eliseo lunedì 19 Aprile alle 20.45, con ingresso libero: l’autrice interpreta Mara Cagol (fondatrice delle BR e moglie di Renato Curcio), mentre Andrea Castelli, attore trentino, dialettofono, è il padre di Mara; la cura è di Piero Maccarinelli (regista e autorevole membro della giuria del Riccione), il programma I lunedì di Artisti riuniti.

Caro Diario, sempre a proposito di dialetti a teatro, ieri sera a Radio3 Suite ho ascoltato Giancarlo Cauteruccio di Krypiton, impegnato con Patrizia Zappamulas nella Medea di Corrado Alvaro, calabrese come Giancarlo e Fulvio Cauteruccio, con corposi inserimenti di dialetto nei momenti corali che rimarcano gli snodi narrativi della riscrittura del dramma euripideo. Giancarlo ha sottolineato la musicalità del dialetto calabrese, la sua fisicità, la capacità di dar carne alle parole…a proposito: ma si dirà dialetto calabrese o lingua calabrese?
Poiché sono certo che sull’argomento sono stati versati fiumi di inchiostro mi imbozzolo nella mia beata ignoranza e lascio stare, salvo che, Diario caro, incollo su queste paginette l’illuminante parere di Fabio Rossi, docente di cinema all’Università di Messina, che, nella fase istruttoria del nostro bando, si pronunciò con chiarezza per il termine dialetto. Sta di fatto che il bando della 50ª edizione del Premio Riccione, lanciato nel 2008 e giunto a conclusione nel 2009, recava per la prima volta la parola fin lì assente, dialetto…e pensare che da quasi un quarto di secolo, precisamente dal 1985 con la vittoria di Enzo Moscato con Pièce noire in un mélange di parlate e parlesie del Golfo, la maggior parte (!) dei testi vincitori del Premio sono stati scritti in toto o in parte in dialetto…

Si conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, che in questo paese ci vogliono una determinazione e una volontà ferree per mettere in relazione forma e sostanza… Dunque, aspetta un attimo: forma e sostanza…sono sicuro che se ne è parlato molto negli ultimi tempi, ma dove? Diario, aiutami: sono sicuro che se ne è parlato assai e assai recentemente, ma non ricordo dove e a proposito di che.. Che fosse il festival della filosofia? O era quello della semiologia? Forse quello dell’epistemologia? Boh, non ricordo…mi vengono in mente le elezioni regionali ma deve essere un refuso, un inceppamento della mia memoria sempre più labile: cosa avranno mai a che fare forma e sostanza con le elezioni amministrative? Eppure…

Diario, ormai si è fatto tardi, ti devo lasciare e ti lascio in buona compagnia, quella di Francesco Gabellini, poeta e autore teatrale originario di Riccione e finalista al Premio del 2005 con un testo… in dialetto! A risentirci presto, devo ancora dirti di Messina e dei progetti teatrali di Maurizio Scaparro per i centocinquant’anni dell’unità d’Italia: il dialetto a teatro ha un posto di riguardo anche lì… A presto!

UN CANE NELLA NEBBIA.
VOCAZIONE TEATRALE E PRIMI PASSI DI FRANCESCO GABELLINI

Mi chiamo Francesco Gabellini, sono nato a Riccione nel 1962. E questa potrebbe già essere una falsa partenza, dico per chi ha una sensibilità artistica, nascere in mezzo a quello che viene definito “Il divertimentificio” , la costa romagnola. Infatti ho represso per molti anni la mia vocazione poetica, dedicandomi invece allegramente a quelle attività che anche i miei coetanei intraprendevano: frequentare i locali notturni, andare in spiaggia, rimorchiare le turiste, eccetera. In più avevo una grande passione per la pallacanestro che ho praticato per anni. E però scrivevo anche poesie, che non facevo leggere a nessuno. Ho sempre frequentato poco volentieri la scuola e, più in generale ho sempre avuto una allergia nei riguardi delle istituzioni e delle cerimonie Fin da piccolo mi sono rifiutato di andare all’asilo e, pur essendo fra i primi della classe, anche alle elementari non ci andavo volentieri. Ricordo che odiavo il grembiule e l’odore di disinfettante che c’era a scuola. È un odore che ho poi ritrovato nei locali di altre sedi pubbliche rendendomele perciò poco congeniali. Ne ho dedotto che molto probabilmente tutti gli enti pubblici si avvalgono dello stesso fornitore per quel che riguarda l’igiene dei loro edifici. Insomma, la mia carriera scolastica alle superiori cessò di colpo, grazie ad alcune infauste scelte, all’epoca non esisteva l’orientamento scolastico e io, come molti altri miei coetanei, ero molto disorientato. Decisi che avrei lavorato. Da lì iniziarono una serie di attività, naturalmente legate al turismo e all’estate. In ordine cronologico: barista all’Hotel Tropic, Cameriere al bar del Baby Golf, barista alla discoteca Drive, bagnino alle zone numero 94 e 96 di Riccione e forse, per fortuna vostra e mia, non me li ricordo neppure tutti questi impieghi stagionali. E d’inverno l’ozio. Un amico di Milano, Ferruccio, detto “Frusg”, mi chiedeva sempre: “ma d’inverno, cosa fai?” Sempre mi faceva questa domanda e sempre io rispondevo allo stesso modo: “Mi vesto pesante e vado!” E lui rideva, non lo capiva. Era di Milano. Poi col tempo questo ozio si è trasformato in ozio ciceroniano, quel “Otium cum dignitate” degli antichi romani, quello che i patrizi dedicavano alla contemplazione a allo studio. E voi a questo punto direte: “e questo il latino da dove lo tira fuori?!” Appunto. Ho iniziato a studiare per conto mio, a leggere molto, ad andare al cinema spessissimo, a restare sveglio tutta la notte a guardare “Fuori orario” di Enrico Ghezzi, dove passavano film bellissimi. Andavo al festival “Riminicinema” ed ero capace di restare chiuso dentro al Cinema Teatro Novelli di Rimini dalla mattina fino alla sera. Mi ricordo soprattutto le personali: quella bellissima dedicata ad Alejandro Jodorowsky, o quell’altra al fotografo e regista americano Robert Frank. Più tardi avrei poi sposato la presidente dello storico cineclub riminese Helzapoppin, con la quale vivo tutt’oggi, avendo anche messo al mondo insieme numero due figlie. Nel 1989, dopo aver messo da parte qualche liretta, io e il mio amico Antonello, anche lui appassionato di cinema, partiamo alla volta di Roma, dove ci trasferiamo frequentando un corso di regia cinematografica presso il “Laboratorio Cinema 87” in Largo Ettore Marchiafava. Lì conoscemmo il grande sceneggiatore Rodolfo Sonego, con il quale per un periodo collaborammo. Dovevamo scrivere una serie televisiva poliziesca che aveva come protagonista Ugo Tognazzi, nel ruolo dell’ispettore. Avevamo già pronte le prime due puntate quando Tognazzi morì e della serie non se ne fece più niente. Antonello è rimasto a Roma, lavora per la televisione, per un periodo ha lavorato per la soap opera “Vivere”, ora non so. Quando ci si vedeva io lo prendevo in giro, gli dicevo:”lavori per vivere”. Io sono tornato, Roma non era la mia dimensione di vita. Avevamo un amico che abitava a Monte Mario, quando salivamo lassù io mi aspettavo sempre che oltre quel colle ci fosse il mare. E invece non c’era. Tornato in Romagna ho deciso che mi sarei laureato. Ma ero distante, ancora non avevo neppure il diploma delle superiori e avevo più di trent’anni. Così mi misi a frequentare una scuola serale, di quelle che in due anni fai il programma di cinque. Durante il giorno facevo l’imbianchino con mio babbo, lavoravo tutto il giorno, mi facevo una doccia, mi mandavo via gli schizzi di vernice dalle mani e dal viso e andavo a scuola. Non era facile, ma ce l’ho fatta. Poi mi sono iscritto all’università di Urbino, alla facoltà di lettere moderne e ho dato ben cinque esami. Finché un giorno ho sentito lungo il corridoio della facoltà quell’odore di disinfettante che mi ha proustianamente riportato alla mia scuola elementare di via Bologna a Riccione, alla maestra Francesca Schiavon, che amava i gatti, alla bidella Giuliana che passava a ricreazione con uno scatolone delle banane Ciquita 10 e lode, pieno di spianatine unte e rotonde, 50 lire l’una. E così è finita anche la mia carriera universitaria. Ma non ho rimpianti. Col tempo sono diventato un sostenitore dell’autodidattica. Quando racconto questa mia esperienza e qualcuno mi chiede perché ho smesso, rispondo: “Non avevo tempo per l’università, dovevo studiare”.Poi ho incontrato i bambini e ho iniziato a giocare con loro e questo è diventato il mio lavoro. Per anni ho fatto l’animatore per bambini, in ludoteche e laboratori scolastici di vario genere: dalla costruzione di giocattoli con materiali di recupero, alla lettura, al teatro, ai disegni animati. In questo ambito ho seguito corsi di aggiornamento in varie parti d’Italia e anche in Austria e in Germania. Nel frattempo continuavo sempre a scrivere poesie. E continuavo anche a non farle leggere a nessuno. Finché un giorno, durante una delle mie passeggiate invernali sulla spiaggia di Riccione ho visto un cane grigio con un brandello di corda al collo. Era fuggito, aveva evidentemente rotto la corda. Mi sembrava di conoscerlo, volevo chiamarlo, ma non me ne ricordavo il nome. Il cane sparì nella nebbia, che quel giorno era molto fitta. Lì iniziai a sentire quel ritmo-rimbombo di cui parla Majakovskij. E quel ritmo-rimbombo mi risuonava nel dialetto della mia terra. O forse sarebbe più corretto dire della mia sabbia. Perché se i dialetti dell’entroterra sono modellati con la genga che sta dentro la terra, quelli rivieraschi sono più lisci e sfuggenti, come la sabbia appunto. Scrissi quel giorno la mia prima poesia in dialetto: “La nèbia”, alla quale ne seguirono altre. Mi sembrava di aver trovato quello che stavo cercando. E credo che se la felicità esiste, sta lì, nel sentire quel suono che la tua unica corda, quella che hai trovato scavando dentro di te, riesce ad emettere. Sentirsi in armonia con qualcosa di più grande. Negli anni ho pubblicato quattro raccolte di poesie, tutte in dialetto. E ora ho incontrato il teatro. Il primo monologo che ho scritto, sempre in dialetto, l’ho scritto quasi per gioco. Ero ad un punto fermo, di riflessione, con la poesia. Un’impasse dalla quale non sono ancora uscito. La mia poesia è sempre stata lirica ed esistenzialista. Oggi scrivo monologhi dal linguaggio molto diretto e colloquiale. Come è avvenuto questo passaggio? Me lo chiedo anch’io, ma ancora non ho trovato una risposta soddisfacente. O forse non c’è una risposta, o non ha senso chiederselo. Forse i due registri stilistici convivono in me, oppure qualcosa è cambiato? Qualcosa è cambiato nella mia vita e questo, forse ha cambiato anche il mio approccio alla scrittura. Penso che il fatto di trascorrere meno tempo da solo, per esempio, abbia significato qualcosa, così come l’avere avuto dei figli e anche il lavoro che faccio ora. Da nove anni lavoro quotidianamente a contatto diretto con persone disabili psichiche e anche con casi psichiatrici. E con loro la vita è ogni giorno teatro. Di lì al teatro il passo è breve. Ho condotto anche un laboratorio di teatro con queste persone e loro in questi anni mi hanno suggerito involontariamente molte cose intorno al teatro. Gliene sono molto grato. Comunque, per tornare a quel mio primo monologo, volevo svolgere un esercizio di emulazione. Chi ha il vizio di scrivere e non l’ispirazione si deve pur in qualche modo sfogare! Raffaello Baldini era il mio punto di riferimento e, seppure cerchi una mia strada, lo è ancora adesso. “L’ultimo sarto”, così si intitola il primo monologo che ho scritto, dà voce ad un sarto, un uomo solo, scapolo, che una mattina si sveglia e si rende conto che fuori non passa più nessuno. Là fuori non c’è più nessuno, l’unica speranza rimasta sta in una voce femminile che ancora si sente alla radio. Sono i pensieri, le ipotesi, i ricordi e le speranze di un uomo in una condizione così estrema. Inviai questo copione, anzi per la precisione lo portai a mano presso la sede del “Premio Riccione”, a Villa Lodi Fè, nel bel mezzo del parco delle magnolie. Era il 2005 e il testo fu tra i finalisti di quella edizione. Il direttore del Premio, Fabio Bruschi, poi mi disse: “ È più facile che un cammello entri… eccetera”, anche se non credo che le citazioni evangeliche siano il suo forte, “piuttosto che un riccionese arrivi finalista al Premio Riccione!” “L’ultimo sarto” è stato messo in scena dalla compagnia riminese “Banyan Teatro”. Poi un giorno un musicista e compositore bolognese, Fabrizio Festa, mi chiamò chiedendomi di scrivere un pezzo in dialetto da abbinare a musiche da lui composte nell’ambito di una ricerca che stava svolgendo intorno al folklore dell’Appennino Emiliano. Mi chiedeva qualcosa di ambientazione marinara. Mi mandò le sue composizioni musicali perché le ascoltassi. Io scrissi un testo che intitolai “Detector”, un altro monologo, il cui protagonista è un portiere di notte di un albergo, un meditativo, un filosofo “homemade”, forse un mio alter-ego, che va spesso in spiaggia da solo in inverno e proprio per questo motivo gli viene regalato un metal-detector per poter, così come molti ozianti romagnoli, cercare oggetti di metallo, magari anche d’oro, perduti dai bagnanti durante l’estate. L’uso di questo strumento lo porterà a scoprire una parte dimenticata di sé. “Detector” sta girando i teatri dell’Emilia Romagna in forma di lettura scenica con l’attore Ivano Marescotti, abbinato a una performance pittorica dal vivo del pittore e scenografo Gino Pellegrini. Anche in questo caso il registro è quello del tragicomico, con il quale mi sembra di lavorare in modo molto naturale. Il piacere di scrivere questi testi sta nel fatto che, una volta costruita una impalcatura intorno a un’idea, inizio a scrivere senza sapere bene dove andrò a finire. Il finale non ce l’ho mai quando inizio a scrivere un monologo, mi ci porta il personaggio, insieme al quale mi lascio andare nei flussi dei suoi ragionamenti e delle sue riflessioni, a volte contorte, svianti. I miei personaggi dipanano molti fili che non sempre è facile ricondurre alla stessa matassa. Come diceva Baldini: “Con l’italiano sei tu che parli, con il dialetto parla lui.” Recentemente ho scritto altri due monologhi, sempre in dialetto romagnolo: “La custode” dove è protagonista una albergatrice, che ritrova i resti di una Domus Romana durante i lavori di conversione del suo albergo in appartamenti, e tira fuori tutta la capacità delle donne romagnole di riconvertirsi nell’improvvisarsi custode e guida del museo che ora sorge là dove c’era prima la sua pensione. Si tratta anche, in qualche modo, di una parodia della mentalità imprenditoriale legata al turismo. L’altro si intitola “Iper” e ha per protagonista un uomo che rimane chiuso, o volutamente si barrica, dentro a un ipermercato, dove, durante il giorno si maschera tra il pubblico e di notte si sente padrone di tutto. Le sue riflessioni mettono in campo il nostro rapporto con le cose e la schizofrenia dei nostri presunti bisogni contemporanei. Questi ultimi due testi non sono ancora stati messi in scena.

E’ teàtre dla Pasquina

- Oh, Francischìn, tsì vnù a truvèm? Ta n vèn mai da la tu nòna, bròt birichìn!
- Ò sèmpra un sàc da fè, nunèna.
- Cus’è che t fè, che e’ tu zì u m’à fat vèda, ui era una tù fotografì sora e’ giurnèl.
- Lavoro nel teatro, nonna.
- Mé Turismo?
- Non c’è più nonna il Teatro Turismo, l’hanno buttato giù.
- Com’e’ sarìa chi l’à bòt giò! E cus chi à fat te su post?
- Hanno fatto un palazzo dei congressi.
- Us vèd che la gènta i avrà piò vòia da fè i cungrès canè d’andè e’ teàtre. Che po’ ènca sti cungrès… cus’è chi avrà sèmpra da dìs? Ènca ma la televisiòun vè, i zcòrr sèmpra, e po’ a la fine… i n chéva mai un ragn me t’un bus. Quèi ch’i è purétt i arvènza purétt e lòr ch’i sta bèn i zcòrr! Che mé a dègh che se òun u se gès a daparlò che u n gn’è gnìnt da fè, us
sparagnarìa un sac ad sòld, invèci da fè i cungrès, al tribune politiche… che po’ a la fine i arìva listès ma cla conclusiòun… che u n gn’è gnìnt da fè!
- Avì rasòun, nòna.
- Ènca e’ tu nòn, te sé?, la luvurè te teàtre e ènca te cinema.
- Ah, no! Questa non la sapevo! E cosa faceva?
- Quand e’ fniva e’ prèim tèmp, lò e’ pasèva s’na casèta e vandèva l’aranciata, al smantèine, la coca cola e ènca la bèra.
- Ah, ho capito.
- L’urlèva: aranciata, birra, pepsi, gazòsa, limonataaa…. Ma tè inveci cus chi t fa fè? T stè ma la càsa? Quèl l’è un lavòr ad responsabilità, ut tòca stè ‘tènti sa tótt chi sòld! S’i mat cui è in gir òg!
- No, nonna, non sto alla cassa.
- Ta n farè mènga l’atòr? Ai e’ giva sèmpra mé ma la tu ma che ta t’ sarmièvte ma Medeo Nazari, quand t’ sèrte un ragaz t sirte Medeo Nazari spudìd, adés nà che ti bèla che pers tótt i cavèl, ta n fè una cura per chi cavèl?
- No, nonna, non faccio nessuna cura e non faccio neanche l’attore.
- E alòra cusè che t fè at stè teàtre? T fè la maschera? T’ cumpagn la gènta me su post sla pila? L’è un lavor impurtènt ènca quèl, va bèn che ui è sèmpra al luse mi gradèin, ti teàtre, mò se òun ui vèd poch, se i à la catarata come mé, t’inzèmp, t càsch, ta t po’ ènca ròmp un femore, che a una certa età tè fnì, se ta t ròmp un femore. E dòp chi pèga? E’ pèga Cichét? Na, ui tocarà paghè me padròun de teàtre!
- No, ma io, nonna, non lavoro alle dipendenze di nessuno. Io lavoro da solo, per conto mio.
- Cl’è una bèla roba. Sigùr! Quand l’è sera ta n’è da rènd còunt a ma nisòun. Ta n’avrè mènga un teàtre tótt tu?! Tcì e’ padròun d’un teàtre?
- No, io scrivo per il teatro.
- Ah! T’ scrìv! Na, quest al savèva, la m l’èva dét la tu ma, che tè ènca fat un libre tótt daparté, dal poesie, ei fu siccome immobile dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro. Il cinque maggio, una volta a la savèva tótta a memoria. Mò che librè che tè fat té a gl’era al tue al poesie?
- Sì, nonna, erano le mie. Ne ho pubblicati quattro di libri di poesie.
- Os-cia, però! E tótte tue?
- Tutte mie!
- Mu mé um pisarìa ènca da savè cumè cus fa un libre. Un dè o cl’èlt bsògna che ta me spiega.
- Non è una cosa facile da spiegare nonna.
- Al so! Mé a n’arìv a capì cumè cus fà a fè stè insèn tótt cal pagine, sènza cl’ìs scòla, i i cus s’un fil, vera Francischìn?
- Sì, nonna, li cuciono con un filo.
- E’ prosìm libre che t fè a te cus mé, guèrda che a sera una sartora fnìda mé una volta, a fèva i pan ma tótta la famiia! E iché ai sém, quèl che a n’arìv a capì, invèce, l’è cus’è che t’ scriv per e’ teàtre! Te teàtre us fa al scenette, al mòse, cusè cui è da scrìv?
- I testi nonna. Le battute che dicono gli attori.
- Mò quèle i l sa a memoria, pataca! I n’à mènga bsògn d’un foi! Mò po’ l’è vera che t’ scriv in dialèt?
- Sé, l’è vera, nòna.
- Mò da fè chè! Tcì propria un quaiòun, tè studiè una vita, per scriv in dialèt?! E’ dialèt i l’à da zcòr quei ch’i n sa zcòr l’italièn, mò cumèla! Tè che t’ sè zcòr isé bèn in italién, e po’ ta ne zcòr gnènca mai e’ dialèt, ta t mèt a scrìvle? Me a ne so cumè che tcì cumbinèd ènca té! Tcì andè anche a Roma a studì, a m’arcòrd che te fat la stasòun da bagnìn per mèt via i sòld per paghè l’apartamènt. Sa quèl che costa al chése a Roma! Che po’ a n l’ò mènga mai capì cus’è che t’ studièvte a Roma. Un dè, sa n mòr prima, ta mé girè ènca quèst.
- Ho studiato regia cinematografica, nonna.
- Tam l’è mès t’un òc!
- Come dirigere un film, praticamente.
- E’ diretòr de cinema, ò capì. E l’incas a la fine dla serèda u se porta ma chésa lò, e’ diretòr?
- Non proprio, nonna. Io volevo fare il regista.
- Ah, ò capì, come Fellini! Cl’era ad Rèmne, na?! Te sé che la fiola dla Dele, cl’è òt an ir cl’è morta, purèta, pace a l’anima sua, la cnusèva la surèla ad Fellini. Una sua amìga l’era stè a fè al pulizie ma chésa sua. A savèl prima ai e’ giva mé cla te fés cnòs e magari ut dèva da lavurè ènca ma tè te cinema. Mò l’è che ilé l’è fadìga sgònd mé, ui vò l’aspiraziòun e ènca una bona dose ad cul, con bon rispèt parland!
- Sai nonna che una sera l’ho visto Fellini a Roma. Per caso, era seduto con una donna a un tavolino di un ristorante a Trastevere, io passavo di lì e lui mi ha guardato come se mi conoscesse. Stavamo per salutarci.
- Tai avévte da dì qualcosa, pataca! Se tai gìvte “Maestro mé a so d’Arciòun”… nà, magari l’era mèi ad Rèmne, come lò, ancora mèi, perchè te sè nà che dal volte tra i rimnès e i arciunìs u n’è che sèmpra… sé, insòma, ui n’è ad quèi che in si po’ vèda, mò l’è tótt patachédi, però… sgònd mé, mèi ad tótt l’era se t fèvte come Massimo dla Pina, vè, iché, ad Calcagnini, che lò l’à studì da agronomo, che e’ sarìa una specie ad cuntadèin specializèd, però u n’amasa specializèd, un dutòr dal piénte l’è dvènt Massimo e adés e’ va in gir, che u s’è specializè ti ulìv, e va in gir a vèda ta gl’aziende cumè ch’i sta i ulìv, e’ sènt l’olie cumè cl’è vnù, dogni tènt u n porta ma chésa una bòcia, mò ènca di salèm , di furmai, la ma dè un furmai ènca mu mé la Pina una volta, bòn, a n l’èva mai magnè un furmai isé bòn, e intènt lò e’ gira s’un machinòun ch’e’ fa fadìga a muntèi sora de gran cl’è èlta, l’è òuna ad cal machine cal va anche fuori di strada. At chè teàtre!
- Adesso si è fatto tardi nonna, devo andare.
- Ciao Francischìn, vènme a truvè ancora, mò nu fa pasè trop tèmp che sinà ta n mi trov piò, che un dè o cl’èlt a mla còi!
- Va bene nonna, dite sempre così, ma ogni volta che vengo vi trovo più in forma.
- Ehh… la forma…quèla a la mitèva sora i macaròun, mò adés gnènca piò quèla, cla m dà ‘na gran acidità… e sta ténti valà, quand scap fura da chi teatri, cruvte bèn se tè sudì, mèt una sciarpa, e ènca un brèt da cròv cla plèda. A malès l’è un sgònd sa ste frèd!


Sicuramente la dizione "lingue dialettali" è un non-senso, per un linguista.
Il discorso sarebbe lunghissimo e complicato e dunque glielo risparmio. Il
problema fondamentale è che, quando si parla di dialetti, si contaminano
sempre, improduttivamente secondo me, almeno due prospettive: quella
linguistica (secondo la quale, le ricordo, non c'è alcuna differenza tra
lingua e dialetto, se non politico-amministrativo-sociale: Chomsky ama dire,
ed ha ragione, che una lingua non è nient'altro che un dialetto con un
esercito e una marina) e quella
psicologico-affettivo-etico-artistico-letteraria, per dir così, secondo la
quale alla sfera dialettale è conessa tutta una serie di affetti, ricordi
familiari e di un popolo ecc. ecc., praticamente preclusi alla "fredda
ufficialità" delle lingue. Il fatto che siano assolutamente degne d'esser
considerate entrambe le prospettive, non autorizza a confonderle, a mio
modesto avviso, e non autorizza a inventare etichette confuse come "lingua
dialettale" (semmai, poi, lingua regionale sarebbe più sensato).
L'opposizione, tra l'altro, tra i fautori della "spontaneità" del dialetto
versus l'"artificiosità" della lingua è, inoltre, vecchissima quanto il
mondo (cioè, quanto l'italiano) nonché errata: c'è una componente di
spontaneità e di artificiosità in entrambe le varietà, sprattutto quando
vengono utilizzate a fini astistici: o vogliamo dire che un Gadda o un
Meneghello sono spontanei? E poi che vuol dire spontaneo? Tutto e niente!
Forse Goldoni è più spontaneo quando scrive in veneziano piuttosto che
quando scrive in italiano? E' quello che incauti critici hanno sempre detto,
ma senza alcun fondamento, direi: la formularità delle commedie veneziane di
Goldoni (e dunque la loro "non spontaneità") è assolutamente evidente.
Dunque, io francamente lascerei "dialetto" sic et simpliciter, non
trattando il lettore come un ignorante o uno stupido che non è in grado di
discernere i vari significati che questa parola ha. Se proprio, però, volete
sottolineare il fatto che taluni dialetti hanno avuto, stroricamente, un
ambito d'uso talmente esteso da lambire l'ufficialità e dunque far
concorrenza alla lingua nazionale (ha ragione il professor Guccini, anche se
più in chiave diacronica che sincronica, secondo me), allora suggerirei di
parlare di "varietà regionale", o, addirittura, per colmo di par condicio,
usare la formula: "in lingua nazionale o regionale". Mi parrebbe però, tengo
a sottolinearlo, una forzatura, innanzi alla quale ogni linguista o colto
italianista storcerebbe il naso.
Lascerei, insomma, "dialetto", con buona pace di chi non sa intendere la
straordinaria polisemia di questo termine. Ma, chi ha orecchie per intendere
(parola di ateo), intenderà, state tranquilli.
Con buona pace dei leghisti in malafede...
Un caro saluto


Fabio Rossi