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Conquista sicuramente il pubblico l’arte poliedrica di Duda Paiva, assoluta Star dell’apertura di stagione del Teatro Verdi di Milano, all’interno della sesta edizione di IF - festival internazionale di teatro di Immagine e Figura. Conquista grazie a un’arte dello spettacolo che mixa abilmente recitazione, danza, video e teatro (appunto) di figura in una maniera suggestiva, curata e accarezzata da una comica malinconia.

In tutto ciò, la drammaturgia svolge una funzione importante di collettore e collante dei vari elementi linguistici chiamati a raccolta ai fini di un’espressione a livelli plurimi, toccante e originale in merito ai problemi dell’essere umano d’oggi, assai disorientato nella multilateralità stratificata e globale dell’astruso mondo odierno. Discorso che si palesa subito nella messa in scena di BASTARD!, lavoro scritto da Jaka Ivanc dietro ispirazione di un romanzo di Boris Vian e su cui si dipana l’assolo scenico di Paiva. L’inizio è folgorante: in uno spazio contenuto da un fondo sghembo di tonalità blu elettrico macchiettato, il performer si solleva repentino alla sinistra del proscenio dal disotto di una coperta da cui si divincola con difficoltà. A centro ribalta, divistico spot di luce su di lui che – bottiglia di champagne in mano – si rivela col suo elegante vestito nero e però su uno sfondo avvolgente di una massa multicolore di rifiuti, mentre il fondale prende ondulanti pieghe verde-azzurro psichedeliche. Musica jazz e voce off di chansonnier francese nell’aria, Duda toglie dalla sua gamba destra un sacchetto per scoprire con sconcerto di avere una testa di cavallo cantante (in gomma piuma marrone) al posto di stinco e piede. La platea ride per la rivelazione e l’animazione da cartoon in play back che l’artista gli conferisce immantinente, ma ne ammira soprattutto la danza paradossale a due che questi ordisce con l’inverosimile partner equino, facendolo evoluire fra giravolte e torsioni calibrate sul ritmo romantico della canzone. Tuttavia le sorprese non sono finite per lo smarrito solista che, dopo essersi sbarazzato della testa animale e avere inseguito una sorta d’ameboide blu proiettato sul fondoscena, s’imbatte nei pupazzi (a grandezza pressoché umana) di due vegliardi fuoriusciti dalla rivestita struttura metallica sita in mezzo al palco. Costoro consistono in Clementine – una discinta vecchietta senza gambe – e in Bastard: un malmesso vecchio in mutande che guaisce spesso richieste di aiuto e di cui nulla si sa rispetto a origini (da qui il suo soprannome) e modi di arrivo nel luogo oggetto della vicenda. Similmente “bastardo” e spaesato è pure il personaggio incarnato da Paiva, il quale addentra le mani nel paio di figure animando la prima lungo la verticale della struttura e il secondo su una base orizzontale; in mezzo, il suo corpo d’umano estraneo a suggellare un’alterità irriducibile all’anomala situazione in cui si ritrova senza saperne il motivo. La sua alienazione trova così espressione in dialoghi scarni e laconici, con frasi e parole contraddistinte da brevità e semplicità di riflessione. Tutto è abbastanza dilatato al fine di creare una dimensione sospesa, tessuta sulle buffe pause sospirose dei pupazzi a cui seguono attimi di silenzio ove si scolpisce lo sguardo basito dell’attore. Gli spettatori apprezzano e ridono, benché il protagonista smani per scoprire una via d’uscita dal circostante immondezzaio caotico e assurdo, dove rischia di rimanere imprigionato come il suo anziano predecessore. Uno scenario spaziale che materializza la sua esistenziale confusione e il suo disagio di uomo contemporaneo alla deriva, in mezzo a cumuli di cose abbandonate e astrazioni oggettuali circonfuse dell’irrealismo invasivo di proiezioni e video-immagini ritornanti. Per questo, allora, si vede il teatrante danzare cieco col volto coperto da uno degli infiniti sacchetti dintorno, fra musiche sincopate e melodie inceppate, mentre onirici filmati sulle pareti ne sdoppiano la figura dopo averlo sentito poc’anzi gridare “La mia vita non è una discarica!”. L’artista ovviamente sta rappresentando ognuno di noi, persone che il mondo oramai ha deprivato di sogni e speranze che non siano sparsi rifiuti dispersi e vane illusioni tele-trasmesse. Pertanto egli si produce con ricorrenza in sequenze di danza che intervallano la ridda di scambi e differenti situazioni con gli estrosi pupazzi, come se intendesse ripristinare un contatto più intenso con degli elementi di pulsante naturalità e comunicante immediatezza: ovverosia, quelli pertinenti il corpo nel suo porsi come Bios in significante movimento teso a stabilire un contatto più prossimo – e quindi comprensivo – con le cose che lo circondano. Ecco perché il bravissimo teatrante, ad un certo punto, accondiscende a un’improbabile proposta erotica di Clementine imbracciandola per un ballo di coppia in cui la fusione tra uomo e pupazzo è davvero impressionante, tale da strappare applausi senza riserve. Così come risponde ad analoghi motivi di ritorno a una relazione più partecipe e avvertita con la sfera della natura (per quanto qui possa essere stilizzata e rappresentata in animate figure) la ricerca del gatto perduto dalla vecchia. Un compito apparentemente ridicolo comminato al nostro eroe, se intende veramente ritrovare la strada verso casa; ritrovamento, però, che sarà alfine possibile se egli riuscirà altresì a preparare un buon tè all’arzilla signora. Niente di strano, invero, volendo proseguire la decifrazione sottotraccia della drammaturgia, poiché attraverso tale preparazione si vuole alludere alla necessità di dedicare un’attenzione e una cura speciali a qualunque essere, o anima, ci si ritrovi di fronte nel nostro peregrinare in mezzo al mondo: riservando loro momenti di piacevole e aggregante condivisione – fosse anche una semplice pausa conviviale di quelle tra le più proverbiali – in grado di ritagliare un intervallo possibile di intimo interscambio e ristoro corporeo e spirituale, da viversi finalmente insieme nel gorgo di un tempo frenetico e dai ritmi sempre più impazziti. Un tempo purtroppo passibile di dividerci, frammentarci e astrarci l’un l’altro, nel caos di oggetti, cose e visioni di cui viviamo ogni giorno il multiforme assedio.

Foto di Jaka Ivanc

BASTARD!
Ideazione e performer: Duda Paiva.
Drammaturgia: Jaka Ivanc.
Regia e coreografia: Duda Paiva e Paul Selwyn Nortin.
Luci: Mark Verhoef.
Oggetti: Duda Paiva e Jim Barnard.
Suono: Erikk McKenzie.
Video: Hans C. Boer e Jaka Ivanc.
Coach per l’animazione delle figure: Neville Tranter.
Produzione: DudaPaiva Company.
Coproduzione: CaDance, Korzo Production, Festival Mondial des Théâtre des Marionettes Charleville-Mézières, Laswerk.
Milano, Teatro Verdi, 19-20 ottobre 2012.
Il festival IF prosegue con spettacoli internazionali sino al 31 maggio 2013, sempre al Teatro Verdi di Milano.

Links:
www.dudapaiva.com
www.teatrodelburatto.it
www.teatrodelburatto.it/if.html