Se dovessi scrivere un dramma storico, mi atterrei ai fatti. Metterei a confronto le testimonianze, colmerei le lacune, fonderei il pensiero sui documenti, terrei conto delle analogie, “avvicinando le parole e le pietre” per cercare di “ricostruire il perfetto equivalente di ciò che un tempo era accaduto” (Pietro Citati, “L’armonia del mondo” Rizzoli, 1998). Ma io sono un drammaturgo, non sono uno storico, e non devo affermare alcuna verità oggettiva, la realtà documentata dei fatti storici. Ho già commesso questo errore nel passato, scrivendo un dramma filosofico interminabile sulla res pubblica attraverso i tempi, e non desidero che il fatto si ripeta, anche perché non trovo incoraggiamento nei drammi storici di Shakespeare che sono di scarso valore poetico. Rifiuto la schiavitù ideologica e non sono interessato a riprodurre le circostanze del fatto realmente accaduto, ma  a ri-crearle, tradendole  in tutto o in parte, nel tentativo  di risalire all’essenza delle cose. In altri termini, non utilizzo la scrittura drammaturgica per fare un discorso diretto sulla storia o sulla cronaca. Quando sembra che faccio quel discorso, spesso pronuncio altro. Il più lontano, il più astratto, il più chiuso, apparentemente il più bizzarro testo può essere quello che più dice sul passato e sul presente.

Da molti anni pensavo di scrivere un testo teatrale sul bombardamento di Roma. Quando ho deciso di metterci mano, ho letto decine di libri e di giornali, ho visto films e DVD, ho parlato con alcuni storici e testimoni dell’evento. Poi, di fronte ad una montagna di appunti e d’immagini retiniche, ho cercato di dimenticare tutto e solo allora ho cominciato a scrivere. Nulla di nuovo. Anche il grande Marquez ha usato questo procedimento per il suo meraviglioso Cent’anni di solitudine. 

Ora so che il mondo non può essere riprodotto, cioè sopraffatto, ridisegnato a mio piacimento. Quindi, non cerco il mondo, ma la sua essenza: il che è più arduo. Il mondo è inabbordabile, è impercorribile, è senza approdi. Mentre le cose, come vengono nominate scompaiono, il mondo rimane quello che è stato, che è e che sarà sempre. Presente e assente allo stesso tempo. Sempre più misterioso. Posso solo avere pietà per le cose che muoiono e per gli uomini che le distruggono, a condizione che questa pietà non la dica, non la pronunci, e sia capace di farla vivere nell’opera come sentimento del tempo.

Crosspoint  (titolo di una delle opere della trilogia “L’ombra di Dio” che ho pubblicato con Titivillus nel 2009), è lo strumento e il gesto del puntamento. Implica un soggetto e un oggetto del puntamento. Crosspoint punta l’uomo, lo mette al centro con tutto il suo carico d’insondabile mistero. Punta al cuore per amare e punta il cuore per uccidere. Nell’uomo stupendo e terribile c’è una sapienza che ho cercato di  comprendere  e di preventivare nella forma del ‘teatro totale’, un genere che sta al di là dei generi in quanto li può comprendere tutti.

Crosspoint  è frutto del realismo in favola. Il progetto  ha ricevuto uno stimolo esterno dall’evento storico, ma la scrittura si è  sviluppata in modo autonomo rispetto ai fatti realmente accaduti, a volte incontrandoli, sfiorandoli, oppure dimenticandoli completamente. Per impulso creativo, per barbarico atteggiamento narrativo, per metodica di lavoro ho cercato una tensione che liberasse l’opera dalla pesantezza della storia. La navigazione è stata incerta, nonostante l’esistenza di una rotta. Passaggi, transiti e attraversamenti continui hanno reso il viaggio imprevedibile. Si sa quando e da dove si parte, ma non si sa mai dove si approderà. Tutto può accadere. Anche di affondare. Non per soccombere, ma per riemergere tra paure, visioni e voglia di nuove imprese. Solo chi affonda, può riemergere. Solo chi vede può creare visioni. Visioni, percezioni fisiche ed emozioni sono l’unica droga che conosca. Sono la ragione del mio lavoro. Il problema vero, che si spalanca ogni volta come una voragine, nasce proprio quando si deve trovare una forma per esprimere ciò che non si vede, che non si dice, che non si tocca.

L’idea di Crosspoint è nata a Fiumicino, osservando gli aerei che drizzavano il muso verso il cielo. Sono angeli - pensavo -, traghettano sogni, speranze e progetti inimmaginabili. Simboli del progresso tecnologico e del benessere sociale, possono diventare  strumenti  di morte e di distruzione. Furie tecnologiche terrificanti, sono capaci di distruggere in un batter d’occhio opere, sogni, speranze, progetti e uomini: gli autori di quelle opere, di quei sogni, di quelle speranze, di quei progetti. Volo dall’aeroporto di Fiumicino al ponte di Castel Sant’Angelo e  poi nel cielo della Roma fascista, ma il rombare era uno solo, terrificante. Il  rombare me lo sono portato dietro, voglio dire dentro, percorrendo le strade del quartiere San Lorenzo, visitando il Verano, sostando nei cimiteri di guerra, osservando i palazzi con le ferite ancora aperte e la lapide in memoria della lotta partigiana di fronte alla stazione Ostiense. Ho sentito il cuore farsi pesante di fronte alla distesa di croci del cimitero di Anzio - anche le croci hanno le ali -, in memoria degli soldati che sono morti per ridarci la libertà perduta. Angeli nei cieli di Roma, stupendi e terribili. Sono venuti con le armi per amore verso i fratelli. Per amore dei fratelli hanno fatto la guerra e facendo la guerra, hanno ucciso i loro fratelli. Hanno ucciso o sono stati uccisi. Una contraddizione irrisolta. Uno sfacelo. Uno sfacelo che non è facile comprendere e accettare. Uno sfacelo come è lo spirito animale dell’uomo, come è la confusione tra essere e apparire, come lo sono tanti altri sfaceli di uomini stupendi e terribili presenti nell’opera. Angeli multiformi: tecnologici, umani, metafisici. Angeli stupendi e angeli terribili. Come stupendi e terribili sono gli uomini: civili e barbarici, divorati e divoratori. Come stupende e terribili sono le ragioni che rendono amabile e detestabile il mondo. Ecco, la figura dell’angelo che giganteggia come fosse la mia testa in gran subbuglio, oppure frulla nella mia testa come fosse il mondo. Al centro del mondo, della testa, della storia che ho voglia di raccontare, che non è una storia di guerra per condannare genericamente la guerra. E mentre cerco d’immaginare una guerra giusta e una guerra ingiusta senza riuscirci, ascolto una risata pantagruelica che mi fa dimenticare dove mi trovo e poi svapora sui muri scorticati di San Lorenzo.

Crosspoint  è un viaggio attraverso il tempo, compiuto da un uomo e tre donne. Impiccione, che è tornato sulla terra per dare fastidio agli uomini. Sophia, che vive nella fissità del ricordo del fratellino schiacciato dal corpo possente di un angelo di marmo che volava. Fulvia, la figlia, che cerca un sentimento stabile e una famiglia, ma confonde l’essere con l’apparire e come personaggio teatrale muore uscendo di scena. Rosetta, che  obbedisce al pensiero del corpo e attraversa il cuore pulsante del mondo. Partono dalla casa di Sophia, restando nel luogo in cui si trovano, attraversando mare e cielo senza terra e terra e mare senza cielo, ciascuno alla ricerca di un angelo. Partecipano alle prove di un finto bombardamento, attraversano una serata patriottica, smascherano Angelo autore di delitti, organizzano un attentato contro il dittatore, valutano i mercati interni,  fanno incontri al vertice,  intrecciano azioni diplomatiche e assistono a riti cannibaleschi, fanno baldoria con gli avieri nel corso di una notte sahariana, assistono al lancio  di volantini sulla Città Eterna, partecipano alla decisione di Casablanca, danno l’assalto al cielo, rombano nel cielo di Roma con la corsa del latte e danno l’assalto dal cielo. Le furie tecnologiche si scatenano, l’angelo di marmo vola, cade sul fratellino di Sophia. Soffioni di macerie, piogge di fuoco, cani famelici, silenzi abissali lasciano le tracce del loro ritorno. Ricordare vuol dire soffrire, ed è la condanna della vecchia Sofia. Impiccione scompare nel buco da cui è venuto. Rosetta prepara la macchinetta del caffè. Quando entra Angelo, il fidanzato di Rosetta, cresce il soffio della caffettiera. Rosetta percepisce per la prima volta il profumo del caffè: versa, annusa, beve e prova un piacere inebriante. I due ragazzi si prendono per mano ed escono. Tutto muore, niente muore.

A proposito di testi linguistici che non hanno un rapporto diretto con la storia voglio citare “Risorgimento pop” (di Daniele Timpano e Marco Andreoli, con Timpano in scena assieme a Gaetano Ventriglia), che è servito a fare uno spettacolo che ho molto apprezzato. Il testo, e di conseguenza lo spettacolo, combina memoria e amnesia, civiltà e barbarie. Si presenta come un’opera sull’Italia che è rinata con il Rinascimento, che è risorta con il Risorgimento dopo essere rinata con il Rinascimento, il che lascerebbe intendere che è morta rinascendo o che è rinata morendo per poter poi risorgere. Ma è veramente risorta? Forse muore e rinasce in continuazione. Chi lo sa? Il che non sarebbe una brutta cosa (anzi), se la morte implicasse una vera rinascita. Insomma, Risorgimento pop è un testo e uno spettacolo sull’Italia rinata e risorta, che c’è e non c’è o che un giorno forse ci sarà. Ben lontano dall’essere uno spettacolo storico e celebrativo, non relaziona un futuro luminoso  ad un passato glorioso. E’ irriverente, imperfetto, imprevedibile, non didattico, non ideologico, non edificante, e perciò barbarico, e perciò utile. Fatti, avvenimenti e personaggi - trattati in modo trasgressivo da una coppia di artisti violenti e maleducati -, non sono una profanazione della storia patria, perché il tradimento della storia non è disgiunto dalla individuazione del senso della storia. I due attori si allontanano deliberatamente dalla storia e trovano lo spunto per realizzare alcuni momenti di grande teatro: l’incontro tra il cadavere di Mazzini e le ceneri di Garibaldi per una vana quando impossibile riappacificazione, oppure la contesa bestiale di un sacchetto di savoiardi che impegna uno dei contendenti a esaltare il ritorno al Regno dei Borboni e l’altro a respingere ferocemente l’ipotesi di restaurazione.