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A poco più di un anno dalla sua scomparsa il Teatro Stabile di Genova ripropone l'Edoardo Sanguineti drammaturgo e traduttore/travestitore, con questa sua versione dell'immortale Edipo sofocleo. Iniziativa meritoria, treatralmente e culturalmente, che ci auguriamo preluda ad una più intensa rivisitazione delle drammaturgie e dei travestimenti del poeta genovese, che proprio sul palcoscenico dello Stabile

avevano visto le più recenti e intense rappresentazioni, da Macbeth Remix a L'amore delle tre melarance da Gozzi, passando per il bellissimo Sei Personaggi.com per la regia di Andrea Liberovici. La pièce, prodotta dallo stesso Stabile con la regia di Marco Sciaccaluga, ha debuttato il 9 Novembre e resterà in cartellone fino al prossimo 2 dicembre. Anche al di là dell'intensità dell'universalmente nota narrazione sofoclea, è stato un piacere insieme intimo ed intellettuale, sentimenti questi che il nostro sapeva mirabilmente coniugare e mobilitare, risentire la forza della scrittura di Sanguineti, che nell'adesione 'a calco', come lui stesso definiva le sue traduzioni-travestimenti, sa ricreare, nelle apparenti disarmonie e negli slittamenti sintattici di una lingua apparentemente 'popolare' ma in realtà essenzialmente materica nelle sue tonalità sonore, le armonie autentiche dell'antica lingua di Sofocle. Ne segue l'apertura delle nostre intelligenze, talora irrigidite se non deperite dalla banalizzazione sintattica e grammaticale del consueto, ad un mondo cronologicamente lontano ma psicologicamente contemporaneo e profondamente contiguo, oltre le nostre ripetute amnesie e stolide indifferenze. Di fronte alla forza di questo testo e a quella della riscrittura Sanguinetiana, Sciaccaluga scieglie, forse per meglio aderire alla icasticità concreta di quella narrazione e di questa sintassi drammaturgica, un'approccio scenico da un lato minimalista nello sfrondamento di ogni elemento di ieraticità rituale tradizionalmente percepito, anche attraverso l'eliminazione del coro e delle sue implicazioni politico/religiose, dall'altro dalle coloriture popolari rilette in chiave arcaica ed accentuate da una scenografia prevalentemente agreste e da costumi che talora contraddicono in senso basso ogni tentazione universalistica e metafisica. Tebe diventa così quasi un campo di nomadi, il campo di una umanità che non trova riposo e cerca con fatica coscienza di sé. In questo contesto certamente alcune scelte drammaturgiche e recitative appaiono un poco audaci, dalla caratterizzazione di un Tiresia (Federico Vanni) assai poco ascetico a quella di una poco regale Giocasta (Federica Granata), ed in effetti provocano qualche sconcerto nel pubblico presente. Eros Pagni, comunque all'altezza, riassume su di sé il peso di una comunità che resta all'orizzonte e sembra stanca e rassegnata, quasi in una eco dei tempi presenti. Edipo è il bravo Nicola Pannelli che ben rende lo sconcerto dell'individuo che si vede sottratte le proprie certezze ed anche il proprio posto nel mondo dopo una faticosa conquista. Quella messa in scena allo stabile appare dunque una tragedia senza divinità e senza fede, la contraddittoria tragedia di una umanità comune che non sa rinunciare ai suoi dei e mentre li perde non sa rintracciare dentro di sé valori forti. In questo forse non ha saputo fino in fondo e con coraggio affrontare la sfida profonda della riscrittura di Edoardo Sanguineti. In scena, oltre ai citati, Aldo Ottobrino è Creonte, Massimo Cagnino il messagero di Corinto, Roberto Alinghieri lo schiavo di Laio e Orietta Notari la serva di Giocasta. Le scene sono a cura di Catherine Rankl che ha ideato anche i costumi e di Jean-Mark Stehlé. Le musiche di Andrea Nicolini e le luci di Sandro Sussi completano la messa in scena.